Repubblica 30.10.17
Quei terroristi in cerca di una santificazione
di Massimo Recalcati
Cosa
spinge a dare e a darsi la morte? Perché credere che il sacrificio
della vita dia diritto alla salvezza? Un saggio di Marco Belpoliti
In
questa raccolta di brevi articoli dal titolo Chi sono i terroristi
suicidi (Guanda), Marco Belpoliti scava nel campo osceno e inquietante
del fenomeno del terrorismo islamico. La domanda di fondo che lo guida
non è affatto scontata. In essa risuona drammaticamente l’interrogazione
posta di fronte all’atrocità della barbarie totalitaria della Shoah:
come è stato possibile? Perché lo hanno fatto? E, soprattutto, questi
assassini crudeli, spietati, privi appunto di ogni forma di pietas, sono
ancora uomini? Fanno ancora parte della razza umana? È questa una delle
chiavi di lettura che unifica più in generale il lavoro intellettuale
di Belpoliti, studioso di letteratura, con quello dell’osservatore
critico dei fenomeni della violenza estremista come si realizza in
almeno altri due suoi contributi importanti; prima fra tutte la
monumentale biografia dedicata a Primo Levi ( Primo Levi di fronte e di
profilo, Guanda 2015) e, in secondo luogo, la sua riflessione sulla
stagione del terrorismo in Italia ( L’età dell’estremismo, Guanda 2013).
Un
primo snodo cruciale di questo libro riguarda il rapporto tra la
vocazione sacrificale e omicida dei terroristi e la loro giovinezza. Sì
perché non dovremmo mai dimenticare che sono ragazzi, giovani, talvolta
bambini, vite che non hanno ancora raggiunto l’età adulta, che non hanno
ancora costituito una famiglia, quelle che si martirizzano uccidendo e
uccidendosi nel nome della Causa. Non si tratta di un semplice cliché
sociologico che dovrebbe acquietare le nostre coscienze del tipo: «Sono
giovani e non sanno quello che fanno». Tutt’altro: Belpoliti non
rinuncia a porre questo tema scabroso perché sa bene che esso riguarda
da vicino le nostre vite. Per un verso la giovinezza è sempre spaesata,
smarrita, in cerca di sicurezze che non trova. Per questa ragione il
miraggio offerto dalla radicalizzazione riconduce, come mostra bene lo
psicoanalista francese di origini mussulmane Beslama, alla necessità di
radicarsi, di trovare un’identità solida. Belpoliti sa bene che la
nostalgia dell’identità, del suolo, della radice ha animato i fantasmi
più terrificanti del totalitarismo novecentesco che il suo Primo Levi ha
descritto con lucida disperazione. Ma — insiste la domanda — i giovani
cercano la libertà o la sicurezza che li esenti dal suo rischio? Vanno
verso la libertà o fuggono dalla libertà? Ripeto, non è affatto una
domanda scontata. La libertà contiene sempre delle insidie. Lo spirito
del terrorismo si fonda sulla rinuncia delle insidie della libertà e su
di una piena sottomissione. Nondimeno in questa sottomissione cieca alla
Causa si manifesterebbe la loro suprema libertà. È il punto che
accomuna il giovane terrorista all’anoressica: l’assoggettamento ad un
Ideale inflessibile è la forma più alta della libertà. Ma, ragiona
Belpoliti, non è proprio di questo Ideale assoluto — dell’Ideale
assoluto della Causa — ciò di cui avvertiamo in Occidente la mancanza?
Lo spirito del terrorista trova nel tra tran ordinario e senza desiderio
delle nostre vite il suo contrario o il rovescio di una stessa
medaglia? Non è forse solo la passione per un ideale che può renderci
“sanamente eccessivi” e svegliarci dal sonno del conformismo?
Una
seconda traccia proposta dal libro è quella del rapporto con la morte
proprio dei giovani terroristi. Qui si gioca una terribile astuzia che
Belpoliti evoca attraverso Camus: sacrificare la vita per una Causa
comporta il diritto alla propria salvezza. È un fantasma tremendo che
appartiene ad ogni forma patologica della religiosità sacrificale. Il
rimborso che attende chi sacrifica la propria vita è sempre
sovrabbondante: se questa vita non è nulla, l’altra, quella ottenuta
nell’aldilà, dovrebbe finalmente realizzarla pienamente. La volontà di
uccidere di questi giovani, nota Belpoliti, si mescola alla loro volontà
di morire. È la dinamica del martirio che però, in questo caso, implica
sempre la morte di vittime innocenti. Ma uccidere vittime innocenti
mentre ci si uccide è la manifestazione di una insufficienza
narcisistica o è una sua folle amplificazione? Davvero il terrorista è
servo della sua Causa o non piuttosto colui che si serve della Causa per
trasformare la propria vita da una nullità insignificante in quella di
un eroico giustiziere inviato da Dio? I terroristi islamici sono degli
sradicati o figure che coltivano un “ideale incrollabile di
superiorità?”.
La santificazione islamica del martirio,
diversamente da quella cristiana, esige la lotta attiva e militante
contro l’infedele. Non si limita alla consegna passiva di se stessi al
sacrificio. Per Belpoliti la spinta suicidaria non può essere compresa
se non all’interno di un “paradigma vittimario”: diventare una vittima,
sacrificarsi alla Causa, nobilita la propria vita di fronte agli occhi
della propria comunità di appartenenza. La morte non è più ciò che
limita la nostra vita ricordandoci la nostra estrema insufficienza e
vulnerabilità, ma diventa l’occasione per la sua massima esaltazione. La
morte diventa, paradossalmente, una “prova di amore di sé”, un
“rapporto diretto con Dio” che “realizza una sorta di godimento
assoluto”.
IL LIBRO Marco Belpoliti, Chi sono i terroristi suicidi (Guanda, pagg. 128, euro 12)