Il Fatto 30.10.17
Carl Gustav Jung
“Disturbi mentali di massa”
Il desiderio di ritirarsi dal mondo: la nuova peste del XXI secolo
di Luigi Zoja
Quando
già era molto anziano, Carl Gustav Jung concesse una delle sue
sorprendenti interviste a un interlocutore ancora più sorprendente: il
famoso geografo svizzero Hans Carol. La domanda che questi gli presentò
era una sola: L’uomo e il suo ambiente. La risposta di Jung iniziò
criticando l’alienazione nei lavori moderni. Correva l’anno 1950 e
nessuno immaginava l’avvento del turismo di massa: eppure, come
conseguenza della insoddisfazione Jung non previde un rivolgimento
sociale, ma folle in movimento che si spostano per “cercare una
compensazione altrove”; mentre la suggestionabilità e la emozionabilità
di questi itineranti sarebbe aumentata “geometricamente, con l’aumentare
del numero delle persone coinvolte”. Pur non prevedendo la
motorizzazione di massa o i voli low cost, Jung intravedeva l’esplosione
di questo bisogno, collegato a “disturbi mentali di massa”.
Vale
la pena di partire da tali affermazioni forti: Vittorio Lingiardi è fra i
maggiori seguaci di Jung in Italia, e il suo libro Mindscapes
(Raffaello Cortina) identifica nel paesaggio un fondamentale punto
d’arrivo della psicoanalisi. Se dai greci deriviamo in buona parte gli
archetipi (e la stessa parola archetipo) dovremmo far attenzione a non
dimenticarci che per loro il bene costituiva una qualità etica ed
estetica (kalokagathia, bello e buono) unica e non separabile. Cosa che
tendono a dimenticare architetti e pianificatori quando ci offrono
prodotti il cui fine è la funzionalità, mentre il “respiro di sollievo”
dell’occhio che guarda cose di cui potrebbe godere rimane solo un
optional. L’immersione estetica è una necessità primaria della psiche.
Lingiardi approfondisce questa prospettiva anche attraverso un fertile
incontro con le neuroscienze.
Malgrado nella immaginazione
popolare la psicoanalisi sia rinchiusa nella intimità dei colloqui
terapeuta-paziente, fra mura e tendaggi che attutiscono le visioni e i
rumori esterni, il paesaggio ne è parte costitutiva. Esso è infatti
essenziale ai processi di immaginazione: indipendentemente dal fatto che
il soggetto viaggi o sia un sedentario. Questo terreno comune tra
ambiente e psiche è ben sintetizzato nel neologismo Mindscapes: ciò che
si sposta non sono necessariamente i nostri piedi, ma l’orientamento di
una percezione, interna ed esterna.
Nel XXI Secolo la nuova,
devastante psicopatologia che analisti e terapeuti devono affrontare è
costituita dalla “sindrome di ritiro”: la chiusura al mondo che, anche
in senso letterale, travolge gli elementi più insicuri delle giovani
generazioni (studiati inizialmente in Giappone – dove ormai sono due
milioni – da Tamaki Saito e in Italia da Gustavo Pietropolli Charmet).
Soprattutto se abituati a un abuso di Internet e di contatti virtuali,
questi gruppi si chiudono in casa rinunciando prima allo studio, poi al
lavoro. Ciò rappresenta lo stadio finale dello storico “ritiro delle
proiezioni psichiche” dall’ambiente circostante.
Agli albori della
umanità, fra le tribù animiste, la psiche del soggetto quasi non è
personale, viene condivisa con l’anima dell’ambiente: per questo egli
può dire che il giaguaro è suo fratello, o che lui stesso riceve una
ferita se si taglierà quell’albero. Lo stato “partecipativo” rispetto a
ciò che ci circonda diminuisce poi con la storia e con il “disincanto
del mondo” (Max Weber). Oggi solo in certe condizioni – l’innamoramento,
la creazione artistica – ci si sente ancora cosa unica con qualcosa di
esterno, persona o oggetto. Gli stati estremi di rinuncia alla comunione
psichica con ciò che circonda non corrispondono, però, al
raggiungimento di un sano laicismo e di una più estesa razionalità, ma a
nuove patologie: un congelamento post-affettivo, o addirittura a una
ricomparsa di convinzioni magiche, travestite da mondo virtuale che
sostituisce la realtà.
Sotto la sua gradevole sembianza di
passeggiata estetica, scorgiamo qui la profondità del capitolo che
Lingiardi dedica alla irrinunciabilità della esperienza paesistica: non
semplice ricettacolo delle proiezioni e dei sentimenti che il soggetto
vi riversa, ma in buona parte loro origine. Essa costituisce la
naturale, primaria e gratuita terapia contro le sindromi di ritiro. Non
potremo mai – come tentano di fare i giovani “ritirati” – chiudere
definitivamente fuori dalla nostra stanza le brutture circostanti: anche
se vogliamo ignorarla, l’esperienza di tale stanza dipende dalla sua
posizione nel mondo e dal suo orientamento.