Repubblica 28.10.17
L’Unione non è sinonimo di noia né di burocrazia Ma per salvarla va riformata
Un appello che il grande filosofo tedesco rilancia su “Repubblica”
Si può ancora fare politica contro le false idee sull’Europa
Per Walter Benjamin la capitale dell’Europa era Parigi; per l’ironico e
ostinato Robert Menasse dovrà essere Bruxelles. In questo modo il
vincitore del Deutscher Buchpreis (premio letterario tedesco) formula
un’esile speranza, temperata da una storiella divertente su una serata
trascorsa con un giornalista tedesco in un fumoso caffè della capitale
belga. Menasse racconta che il giornalista, dopo aver redatto un
articolo per il suo giornale di Francoforte dalla lontana galassia di
Bruxelles, se lo vide rimandato
indietro con un’annotazione: «Non raccontare cose così complicate.
Scrivi solo quanto costerà di nuovo a noi tedeschi». Lo scarso
interesse che i nostri politici, manager e giornalisti mostrano per la
costruzione di un’Europa capace di iniziativa politica non potrebbe
essere illustrato meglio. Da anni ormai una stampa timida e deferente
corre in aiuto della classe politica tedesca, facendo di tutto per non
tediare l’opinione pubblica col tema dell’Europa. La tendenza a
infantilizzare il pubblico si è manifestata nel modo più evidente in
campagna elettorale, con la rigorosa limitazione dei temi ammessi
all’unico dibattito televisivo tra Merkel e Schulz. Del resto, già per
tutto il decennio dell’ancora irrisolta crisi finanziaria, alla
cancelliera e al suo ministro delle Finanze è sempre stato consentito
di presentarsi, in stridente contrasto con i fatti, come veri
“europei”.
Adesso compare
sulla ribalta un politico come Emmanuel Macron, pieno di riguardi verso
la cancelliera (ormai indebolita e incalzata dal suo stesso partito),
ma capace di sollevare il velo sul compiaciuto autoinganno. Le menti
“realiste” delle grandi testate tedesche sembrano temere le parole del
presidente francese perché potrebbero aprire gli occhi al loro
pubblico, mostrando che il re, con il suo robusto nazionalismo
economico, è nudo. Nei primi capitoli di un recente libro con il
sottotitolo Come la Germania mette a rischio un’amicizia,
Georg Blume raccoglie una triste documentazione sul nuovo tono
altezzoso della stampa e della politica tedesche nei confronti della
Francia e dei francesi. I commenti su Macron oscillano tra
indifferenza, arroganza e fuoco di sbarramento preventivo. E a parte
un titolo dello Spiegel, anche la risonanza
dell’ultimo così importante discorso del presidente francese
(pronunciato il 26 settembre scorso alla Sorbona, e in cui Macron
rilancia un’idea forte di Europa «sovrana, unita e democratica », ndr)
è stata scarsa o nulla. Con questa materia, adatta per scrivere una
commedia, la prossima coalizione di governo “Giamaica” (dai tre colori
di Cdu, Fdp e Verdi) potrebbe imbastire una vera e propria tragedia, se,
ad esempio, un ministro delle Finanze quale Christian Lindner
divenisse l’esecutore testamentario di Schäuble. In un “non paper”
scritto per l’Eurogruppo, il dimissionario ministro delle Finanze ha
ideato un programma fatto apposta per bloccare ogni compromesso col
presidente francese. Schäuble lega la creazione di un fondo monetario
europeo alle sue idee ordoliberali volte a prevenire ogni
temuta partecipazione democratica. In tal modo l’intero ordine
economico-finanziario sarebbe sottratto alle decisioni politiche e
rimarrebbe prerogativa di un’amministrazione tecnocratica.
Con questo sfogo potrei anche chiudere il mio discorso. Ma la
situazione è troppo seria. Il prossimo governo tedesco dovrà
raccogliere (sempre che qualcuno ne abbia voglia) la palla lanciatagli
dal presidente francese e che sta ora dalla sua parte del campo.
Basterebbe una politica del rinvio per sprecare un’occasione storica unica.
Raramente le contingenze storiche hanno creato una situazione così
chiara come nel caso dell’ascesa al potere di questa personalità così
fascinosa, forse irritante, ma in ogni caso fuori dal comune. Nessuno si
sarebbe potuto aspettare che un ministro del governo Hollande, senza
appartenenza di partito, potesse creare da solo, in modo apparentemente
egocentrico, un movimento politico capace di capovolgere l’intero
sistema dei partiti. Sembrava un’impresa contraria a ogni buon senso
demoscopico. Eppure una persona sola, senza seguito, è riuscita ad
ottenere la maggioranza dei voti nel breve spazio di una campagna
elettorale di coraggioso confronto, incentrata sull’approfondimento
della collaborazione europea e opposta al crescente populismo di destra
sostenuto da un francese su tre. Era davvero improbabile che un uomo
come Macron potesse diventare presidente di un paese come la Francia,
con una popolazione da sempre più euroscettica di quella
lussemburghese, belga, tedesca, italiana, spagnola o portoghese.
Osservando le cose obiettivamente, però, è altrettanto improbabile
che il prossimo governo tedesco abbia la lungimiranza di trovare una
risposta costruttiva alla domanda posta da Macron. Per me sarebbe un
sollievo se riuscisse almeno a riconoscere la rilevanza della
questione. È già abbastanza difficile che un governo di coalizione
segnato da tensioni interne abbia la volontà di rivedere le due scelte
strategiche imposte da Angela Merkel all’inizio della crisi
finanziaria: l’approccio intergovernativo, che assicura alla Germania un
ruolo guida nel Consiglio europeo, e la politica dell’austerità, che
la Germania ha potuto imporre ai Paesi del Sud dell’Unione, grazie a
questa supremazia, assicurandosi vantaggi sproporzionati. Ed è ancora
più improbabile che questa cancelliera non adduca la scusa
dell’indebolimento della sua posizione politica interna per spiegare
al fascinoso contraente che purtroppo non può far propria la sua
compiuta prospettiva di riforma. Del resto, le prospettive le sono state
sempre estranee. Per altro verso – ed è questa la questione su cui mi
interrogo – può questa personalità politica (che non ho mai conosciuto
personalmente), figlia di un pastore protestante, così accorta e
coscienziosa, finora favorita dal successo ma anche riflessiva, può
essa avere un interesse a finire i sedici anni di cancellierato in
questo ruolo inglorioso? Vuole davvero lasciare la scena politica dopo
quattro anni di esitazioni ed erosione del potere? O saprà
mostrare una vera statura e saltare oltre la propria ombra, a dispetto
di tutti coloro che già speculano sul suo declino?
Anche lei sa che l’unione monetaria europea è d’interesse vitale per
la Germania e che, sul lungo periodo, essa non può essere stabilizzata
finché si approfondiscono le forti differenze tra le divergenti
economie del Nord e del Sud dell’Europa in termini di reddito, tasso di
disoccupazione e debito pubblico. In Germania, lo spettro dell’“unione
di trasferimento” offusca lo sguardo su questa dinamica distruttiva. È
possibile porvi rimedio solo se si crea una concorrenza davvero equa
oltre le frontiere nazionali, e se si persegue una politica
di contrasto alla crescente desolidarizzazione sia tra le popolazioni
nazionali sia all’interno delle varie nazioni. Basti pensare alla
disoccupazione giovanile. Macron non si limita a concepire una visione.
Egli richiede concretamente che l’Eurozona vada avanti nell’armonizzare
le imposte sulle imprese, in un’efficace tassazione delle transazioni
finanziarie, nella graduale convergenza dei differenti regimi di
politica sociale, nella costituzione di un pubblico ministero europeo
per le regole del commercio internazionale, eccetera.
D’altra parte, non sono queste
singole proposte, già note da tempo, a distinguere da tutto ciò a cui
siamo abituati il comportamento, le iniziative e i discorsi di questo
politico. Ciò che colpisce sono tre tratti caratteristici: - il
coraggio nella costruzione politica; - l’impegno dichiarato di voler
trasformare il progetto elitario europeo in un’auto-legislazione
democratica dei cittadini; - il modo convincente di porsi di una
persona che ha fiducia nella forza della parola che articola il
pensiero.
Con una scelta
lessicale molto francese, il 26 settembre scorso, il presidente si è
rivolto a un pubblico studentesco, ma anche alla classe
politica tedesca, evocando ripetutamente quella “sovranità” che oggi
non può più essere garantita dallo Stato nazionale, ma solo dall’Europa.
In un mondo a soqquadro, solo con la protezione e la forza
dell’Europa unita i suoi cittadini possono difendere i propri comuni
interessi e valori. Macron fa valere la sovranità “autentica” contro
quella chimerica dei “sovranisti” francesi, denuncia il gioco indegno
dei governi che a casa prendono le distanze dalle leggi che essi stessi
votano a Bruxelles, e non teme di invocare la rifondazione di un’Europa
capace di agire sia al proprio interno che verso l’esterno. Con
“sovranità” si intende questo rafforzato potere che i cittadini europei
danno a se stessi. Quali passaggi da compiere verso
un’istituzionalizzazione della capacità di iniziativa politica comune,
Macron indica una collaborazione più stretta nell’Eurozona a partire
da un bilancio comune. La proposta cruciale e dibattuta è la seguente:
«Un (tale) bilancio può andare di pari passo solamente con una guida
politica forte, un ministro comune e un controllo parlamentare esigente a
livello europeo. Soltanto la zona euro con una moneta internazionale
forte può fornire all’Europa il quadro di una potenza economica
mondiale».
Con la pretesa
di intervenire politicamente sui problemi di una società mondiale che
cresce sempre più interdipendente, Macron si distingue, come solo pochi
altri, dal ceto dei funzionari politici cronicamente non all’altezza
dei problemi, opportunisticamente omologati e ridotti alla politica del
giorno per giorno. Non si crede ai propri occhi: c’è davvero ancora
qualcuno che vuole modificare lo status quo? Esiste ancora chi ha il coraggio sconveniente di opporsi alla coscienza fatalista dei fellahin
ciecamente subalterni alla presunta forza coercitiva degli imperativi
sistemici di un ordine economico mondiale personificato da
organizzazioni internazionali distaccate e altezzose? Se ho ben
compreso, Macron fa valere un interesse che, sino ad oggi, nei nostri
sistemi partitici, stretti tra il neoliberalismo ordinario del “centro”,
l’anticapitalismo appagato dei nazionalisti di sinistra e la stantia
ideologia identitaria dei populisti di desta, non è stato
sufficientemente analizzato né, di conseguenza, rappresentato. Una
parte dell’insuccesso dei socialdemocratici è dovuto al fatto che la
loro politica, in linea di principio aperta alla globalizzazione,
propulsiva sui temi europei e, al contempo, attenta ai danni e alle
distruzioni sociali provocate da un capitalismo sfrenato; questa
politica, che coerentemente spinge per una necessaria riregolazione
trasnazionale dei mercati, nonostante gli sforzi di Sigmar Gabriel non
ha acquisito un profilo riconoscibile. Lo spazio di azione per attuare
una tale politica, Gabriel avrebbe potuto ottenerlo solo come ministro
delle finanze di una rinnovata Große Koalition, bendisposta nei confronti di Macron.
La seconda circostanza che distingue Macron dalle altre figure
è la rottura di un tacito consenso. Sinora, la classe politica ha dato
per scontato che l’Europa dei cittadini fosse un costrutto troppo
complesso e la finalité – lo scopo dell’Unione
europea – una questione troppo complicata perché i cittadini potessero
occuparsene direttamente. Le attività correnti della politica di
Bruxelles sono cosa per esperti o, semmai, per lobbisti ben informati,
mentre i capi di governo sono impegnati a rimandare o eludere i problemi
più gravi tra gli interessi nazionali in conflitto. Ma, soprattutto, i
partiti politici sono unanimi nella volontà di evitare i temi europei
nelle elezioni nazionali, a meno che non si presenti l’occasione di
addossare ai burocrati di Bruxelles i problemi domestici. E ora Macron
vuole fare piazza pulita di questa mauvaise foi.
Un tabù lo ha già infranto mettendo al centro della campagna
elettorale la riforma europea, e persino vincendo, un anno dopo la
Brexit, questa offensiva contro «le passioni tristi dell’Europa».
È nota la formula secondo la quale la democrazia è l’essenza
del progetto europeo. Detta da Macron essa acquista credibilità. Non
sono in grado di giudicare l’attuazione delle riforme politiche
annunciate in Francia. Si dovrà vedere se egli manterrà la promessa
“social-liberale” di assicurare il difficile equilibro tra la giustizia
sociale e la produttività economica. Come uomo di sinistra non sono un
“macroniano” – sempre che esista qualcosa del genere. Ma il modo in cui
egli parla dell’Europa fa la differenza. Macron chiede considerazione
per i padri fondatori che hanno creato un’Europa senza popolazione
perché allora erano esponenti di un’avanguardia illuminata. Lui però
adesso vuole fare di quel progetto elitario un progetto di cittadinanza
e, contro i governi nazionali che nel Consiglio europeo si bloccano a
vicenda, chiede che si compiano dei passi chiari verso
l’autodeterminazione democratica dei cittadini europei. Così egli
rivendica per le elezioni non solo un diritto di voto, ma anche la
designazione di candidati appartenenti a liste transnazionali. Ciò
favorirebbe, in effetti, la formazione di un sistema di partiti
europeo, in mancanza del quale il Parlamento di Strasburgo non può
divenire un luogo in cui gli interessi sociali possono essere
generalizzati e valorizzati oltre i meri confini nazionali.
Se vogliamo valutare correttamente l’importanza di Emmanuel Macron è
necessario considerare anche un terzo aspetto, una qualità personale:
sa parlare. Non si tratta solo di un politico che riesce a guadagnarsi
l’attenzione, la stima e il potere grazie alla capacità retorica e a
una certa sensibilità verso la parola scritta. È piuttosto la scelta
precisa delle frasi ispiratrici e la forza di articolazione del
discorso a conferire allo stesso pensiero politico acume analitico e
una prospettiva lungimirante. Da noi, Norbert Lammert è stato l’ultimo
a richiamare alla memoria i dibattiti al Bundestag di Gustav Heinemann,
Adolf Arndt e Fritz Erler agli albori della Repubblica
federale. Naturalmente la qualità della professione del politico non si
misura dal talento oratorio. Tuttavia, i discorsi possono cambiare la
percezione della politica nella sfera pubblica, elevarne il livello e
ampliare l’orizzonte del dibattito pubblico, migliorando inoltre la
qualità non solo dei processi di formazione della volontà politica, ma
anche dello stesso agire politico.
In un mondo dove l’assenza di forma dei talk show diventa il metro di
riferimento per la complessità e lo spazio del pensiero politico
pubblicamente ammesso, Macron si distingue per lo stile dei suoi
interventi. A quanto pare ci manca la capacità di percepire tali
qualità, e di collocare il quando e il dove di un discorso. Ad esempio,
quello tenuto di recente da Macron al Municipio di Parigi in occasione
delle celebrazioni per la Riforma è interessante non solo nel
contenuto. Si è trattato di un abile tentativo di utilizzare lo sguardo
retrospettivo sulla storia delle lotte confessionali in Francia per
adattare una dottrina di Stato – il severo laicismo francese – alle
istanze di una società pluralistica. Ma l’occasione e l’argomento del
discorso erano anche un gesto di apertura verso la cultura protestante
del Paese confinante – e verso la collega di confessione evangelica a
Berlino. Naturalmente, la pretesa e lo stile con cui viene
rappresentato il potere dello Stato ci sono divenuti estranei, al più
tardi dallo sguardo nostalgico di Carl Schmitt sul contro-illuminismo
francese del XIX secolo. Può darsi che ci manchi quel senso della gravitas di una vita nel palazzo dell’Eliseo che Macron onora nel colloquio avuto con lo Spiegel.
Ma la conoscenza più intima della filosofia hegeliana della storia,
con cui reagisce alla domanda su Napoleone come «spirito del mondo a
cavallo», è comunque di grande effetto.
Questo articolo è apparso su
Der Spiegel del 21 ottobre 2017 © Jurgen Habermas Traduzione di Walter Privitera e Fiorenza Ratti