domenica 29 ottobre 2017

Il Fatto 29.10.17
Due paginate di Habermas e alla fine aveva ragione Lenin
di Marco Palombi

Con enorme gioia, ieri, abbiamo appreso che la colata di piombo con cui, una settimana fa, il filosofo tedesco Jürgen Habermas aveva catechizzato i lettori di Der Spiegel, è stata tradotta da Repubblica. E con foga – e deciso autocompiacimento – abbiamo poi letto quelle due pagine dense di luoghi comuni (“i problemi di una società mondiale sempre più interdipendente”), paralogismi (“la sovranità è il potere che i cittadini europei danno a se stessi, cosa molto lontana dal sovranismo”), articoli di fede vari (“serve una concorrenza veramente equa, oltre le frontiere tra gli Stati”) e scandite da una passione quasi erotica per il “fascinoso” Macron: “È nota la formula secondo cui la democrazia è l’essenza del progetto europeo. Detta da Macron essa acquista credibilità”; “l’unico leader che crede nella forza della parola e del pensiero”. Riassunto: l’Ue è bella, ma è in crisi e va riformata; la colpa è dei governi tedeschi che hanno imposto l’austerità ai Paesi del Sud e stanno facendo implodere l’Unione; l’unica salvezza è affidarsi a Macron, fustigatore del “nazionalismo economico” (come sanno a Fincantieri). A parte la confusione generale e quella particolare tra euro, Ue ed Europa, almeno una cosa vera c’è: Merkel “sa che l’unione monetaria è interesse vitale per la Germania” e dunque va salvata allentando un po’ la corda attorno al collo del Sud Europa (Francia compresa). E qui si vede che Lenin aveva ragione a dire che i socialisti tedeschi, alla fine, sono sempre prima tedeschi che socialisti. I filosofi non fanno eccezione.

Corriere 29.10.17
Vola il nuovo F-35 e nessuno ne parla «Hanno il timore di perdere voti»
Il generale Camporini: quasi ci vergogniamo. È un super aereo che atterra in verticale
di Marco Nese

Invece di pubblicizzarla come un successo della tecnologia italiana, la notizia è stata tenuta nascosta. È successo martedì scorso, 24 ottobre. Il primo F-35B, aereo a decollo corto e atterraggio verticale, interamente costruito nella base di Cameri, a nordest di Novara, ha compiuto un volo di collaudo. Il pilota è rimasto ai comandi più di un’ora seguendo una scaletta prestabilita di prove tecniche.
Dalla Difesa, nessuna comunicazione e niente presenza della stampa. «Quasi ci vergogniamo — si rammarica Vincenzo Camporini, ex capo delle Forze armate e attuale consigliere Nato —. In altri Paesi per un evento del genere si scomodano capi di Stato e primi ministri».
Mantenere il silenzio, secondo Dino Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica, «è una scelta stravagante che si spiega solo col fatto che siamo in campagna elettorale: meglio non parlare di F-35, argomento divisivo che crea polemiche. Si vuole evitare di toccare questo tasto, perché l’F-35 fa perdere voti».
A Cameri l’Aeronautica italiana ha creato uno stabilimento, vero gioiello tecnologico, che ha convinto gli americani a concedere al nostro Paese, unico caso fuori dagli Stati Uniti, la possibilità di costruire i cassoni alari, i contenitori del motore, e assemblare gli interi velivoli F-35.
Inizialmente l’Italia aveva prenotato 131 caccia F-35 per un costo totale stimato attorno ai 12,9 miliardi di dollari. In seguito alle polemiche per la spesa elevata, si è deciso di ridurre a 90 l’acquisto degli F-35 Lightning (fulmine), un caccia di quinta generazione, concepito in modo da essere invisibile ai radar e operare in rete con altri sistemi d’arma. I 90 presi dall’Italia (60 nella versione a decollo normale e 30 a decollo verticale) serviranno a rimpiazzare i cacciabombardieri Tornado e Amx dell’Aeronautica e gli Harrier della Marina.
Non è stata una buona idea acquistarne 90, perché produrne a Cameri meno di 100 ha fatto lievitare i costi (circa 100 milioni di dollari ogni caccia). E altri Paesi europei, come Olanda, Norvegia, Inghilterra e in futuro probabilmente anche Belgio, Danimarca e Polonia, non hanno più convenienza a comprare gli esemplari costruiti in Italia. Spendono meno se li acquistano direttamente negli Stati Uniti.
Finora sono stati consegnati all’Aeronautica 8 F-35 e adesso anche la Marina, quando saranno terminate tutte le fasi di collaudo del primo caccia nella versione B a decollo verticale, potrà farlo planare sulla portaerei Cavour.
«Siamo l’unico Paese — dice ancora Vincenzo Camporini — dove si fa calare il silenzio su un fatto che riguarda la sicurezza nazionale. Spaventati dall’opinione pubblica, siamo riusciti a oscurare perfino la notizia che il primo pilota a sorvolare l’Atlantico al comando di un F-35 è stato un italiano». L’evento risale al febbraio 2016, il maggiore Gianmarco Di Loreto volò da Cameri fino a Patuxent River, nel Maryland, dove fu accolto con grandi festeggiamenti.

Corriere 29.10.17
Ercolano e le strade pulite per Boschi Scatta la protesta: cumuli di rifiuti
La sottosegretaria risponde alle critiche: non c’entro, mi amareggia la marea d’odio
di Roberto Russo

ERCOLANO Un mare di rifiuti. Sacchetti con l’indifferenziata lasciati un po’ ovunque nel centro di Ercolano. Ieri mattina un cumulo di buste nere faceva capolino persino di fronte agli scavi. Chi ha visto il sindaco renziano Ciro Buonajuto lo descrive insolitamente scuro in volto. «Mi hanno fatto un dispetto» si è sfogato con un suo collaboratore. Poi in serata ha dovuto sfoderare il sorriso d’ordinanza per salutare il premier Paolo Gentiloni e il segretario Matteo Renzi alla conferenza programmatica del Pd nella stazione di Pietrarsa. Ma l’onta dell’immondizia in strada è difficile da lavare. Rifiuti anche a pochi metri dal lussuoso Park Hotel Miglio d’Oro, dove ha soggiornato la sottosegretaria Maria Elena Boschi. Eppure l’ordinanza firmata da Olimpio Di Martino, direttore dei servizi tecnici del Comune, era categorica: «Provvedere a un’accurata pulizia a partire dal giorno 23. Spazzamento, rimozione dei manifesti funerari ed eventuale scerbatura».
Insomma, al passaggio dell’illustre ospite lungo corso Resina non avrebbero dovuto esserci né lattine, né cartacce, tantomeno i manifesti listati a lutto con i nomi dei deceduti.
Invece è andato tutto storto: c’era di tutto, compreso i manifesti mortuari. Lo stop improvviso alla raccolta è stato deciso durante la notte dai dipendenti dell’azienda appaltatrice che rivendicano aumenti salariali. «Interruzione di servizio pubblico» secondo il Comune di Ercolano che ha allertato prefettura e forze dell’ordine. Sacchetti sono spuntati persino a pochi metri dall’hotel, categoria «quattro stelle superior», scelto dalla delegazione ministeriale. Sul banco degli imputati è finito il dirigente comunale per il suo zelo eccessivo. Ma a Boschi non va giù di passare per privilegiata e così si affida a un lungo post su Facebook : «Alcuni giornalisti mi attaccano — scrive — perché un dirigente del Comune di Ercolano, dove ho prenotato un albergo per andare a dormire durante la conferenza programmatica del Pd, ha chiesto di pulire le strade limitrofe dopo che si era sparsa la voce che avevo prenotato lì. Prenotato a mie spese, naturalmente, trattandosi di incontro di partito. Io capisco tutte le polemiche — aggiunge — anche quelle più false, come quelle sulle banche. Ma mi domando perché devo essere attaccata da grandi commentatori su carta e piccoli manganellatori su web semplicemente perché ho prenotato, a mie spese, un albergo, per andare a un’iniziativa politica? Perché devo ricevere insulti e offese anche per questo? Come se non bastasse la marea di odio che i social quotidianamente rilanciano e che i grandi commentatori non considerano». Infine il monito: «Ho un carattere tosto, amici, e qui non si molla, non si molla mai Ma noi andiamo avanti lo stesso, avanti insieme. Rispondendo adesso col sorriso. Ma colpo su colpo».

Corriere 29.10.17
Il dirigente che ha dato l’ok: si fa anche per la Madonna
di Ro. Ru.

«Ma quale privilegio? Alla sottosegretaria Boschi non abbiamo riservato alcun trattamento di riguardo. Anche il 15 agosto tiriamo a lucido la città per la processione della Madonna di Pugliano». A costo di apparire blasfemo Olimpio Di Martino, dirigente comunale responsabile del decoro urbano di Ercolano, difende il proprio ordine di servizio. Ha raccomandato alla società privata di igiene urbana «di provvedere a un’accurata pulizia, compresa la rimozione dei manifesti funerari». Di Martino, funzionario da un trentennio nella città degli scavi, scrolla le spalle di fronte all’accusa di aver voluto fare una cortesia al renzianissimo sindaco Ciro Buonajuto. «A me viene da sorridere — spiega —, sono in servizio da molto prima che arrivasse Buonajuto. Se arriva un’autorità nella nostra città, è mio dovere far trovare le strade pulite e i muri senza manifesti funebri. Ordini di servizio del genere — aggiunge Di Martino — ne firmo a dozzine, sia per le feste religiose che per il maggio dei monumenti, perché non avrei dovuto farlo anche per un esponente del governo? E poi, basta leggere bene la mia ordinanza: non ho previsto nemmeno un euro di spesa in più per il Comune». Altri funzionari confermano che d’abitudine si cerca di ripulire le strade con un più attenzione quando ci sono eventi pubblici. «Anche quando ospitiamo eventi sportivi lo facciamo — dice un collega di Di Martino —. Ci sforziamo di dare un’immagine di Ercolano differente dai vecchi stereotipi». Però ieri le strade del centro erano invase dai sacchetti. Ma sull’argomento a Palazzo di città nessuno vuole commentare. «È una situazione delicata», si limitano a dire. In effetti la vicenda ha preso una brutta piega: la vertenza dei centosette dipendenti che rivendicano adeguamenti contrattuali, si è inasprita. Era già stata indetta una giornata di sciopero per il 10 novembre. Ma l’altra notte c’è stato uno stop improvviso al servizio. È dovuta accorrere la polizia perché i camion che dovevano raccogliere l’indifferenziata sono rimasti fermi a causa di un picchettaggio.

Repubblica 29.10.17
Lo sfogo su Facebook
Boschi e le strade pulite per lei “Contro di me campagna d’odio”

ERCOLANO. La sottosegretaria alla presidenza, Maria Elena Boschi risponde con un post su Facebook agli attacchi ricevuti sul web e dai giornali dopo la notizia che un dirigente del Comune di Ercolano, venuto a conoscenza dell’albergo in cui avrebbe pernottato, ha chiesto di ripulire le strade limitrofe.
«Capisco tutte le polemiche, anche quelle più false sulle banche.
Ma perchè devo essere attaccata semplicemente per aver prenotato a mie spese un albergo per andare ad un’iniziativa politica?» si difende Boschi, arrivata in Campania per partecipare alla conferenza programmatica del Pd a Napoli.
«Vorrei essere criticata per ciò che faccio io non per ciò che fanno altri ». E assicura: «Ho un carattere tosto amici, e qui non si molla mai. Risponderemo colpo su colpo».

il manifesto 29.10.17
La festa dell’unità democratica si trasforma in farsa
Intesa inesistente . Sospetti sulle liste per le politiche e sgambetti continui tra il «giglio magico» e i «big» del Pd. Domenica prossima, in caso di ko elettorale in Sicilia, la tensione è destinata a esplodere
di Andrea Colombo

ROMA Non si può essere uniti per forza. Però si può decidere di fingersi uniti ed è quello che il Pd, a Napoli, prova a fare dopo una settimana da incubo. Fa finta di niente, più di ogni altro, Paolo Gentiloni: «Il Pd è il messaggio della sinistra di governo e il perno per la prossima legislatura».
In nome del quale il premier ingoia tutto: la coltellata della mozione contro Visco, l’ordine di mettere la fiducia sulla legge elettorale, l’offesa del Cdm disertato. Oggi Renzi e i ministri presi a schiaffi saranno tutti insieme sul treno del ritorno, per mimare un’intesa inesistente.
Lo spartito era pronto già da venerdì sera e il coro esegue a menadito, dal Renzi che nega qualsivoglia tensione col governo, «Non c’è nessuna rottura» al Franceschini che twitta ecumenico: «Sorry, lavoro per unire non certo per dividere ancora di più», dal Minniti che ingoia il pessimo umore montato per l’assenza dei renziani nel Cdm della vigilia, alla collega Pinotti che pensa positivo e interrogata sul fattaccio esorta: «Guardiamo avanti».
Il problema però è proprio che molti nel Pd «guardano avanti» e quel che vedono li spaventa assai. Vedono un esito delle elezioni in Sicilia che si profila disastroso. L’ordine di scuderia è già stato diramato. Nel prevedibile caso di sconfitta secca si dirà che «la Sicilia è una situazione specifica che non rispecchia il quadro nazionale». Però lo si dovrà dire sforzandosi di nascondere il tremore per la convinzione opposta.
Vedono anche, dietro l’angolo successivo, qualcosa di peggio per le elezioni politiche. Lo scollamento fra i colonnelli e il cerchio stretto renziano è qui totale. Renzi è ottimista. Anche in privato si mostra certo di poter bissare in termini di percentuali il risultato delle europee vittoriose e del referendum sconfitto, quel magico 40%, o almeno la soglia di sicurezza del 36%, che pensa di aver incassato in entrambe le prove.
Ma i sondaggi dicono l’opposto. L’ultima rilevazione Ipsos, pubblicata ieri dal Corriere della Sera, assegna al partitone il 25,6%, un punto e mezzo meno di luglio, cinque punti in meno rispetto a maggio. Il responso della voce amica Youdem è altrettanto fosco: schianto al nord e a sud bisognerà conquistare ogni seggio con le unghie e con i denti. Il peggio è che anche l’obiettivo nascosto dell’alleanza di governo con Fi non pare affatto a portata di mano.
La strategia impostata e imposta da Renzi non consente neppure grandi speranze di rimonta.
La rottura con Grasso, figura vista da una parte sostanziosa della base come icona dell’antimafia, è un disastro che in privato ammettono tutti, anche se in pubblico la consegna del silenzio è tassativa.
L’invadenza di un Verdini stanco di fingersi oppositore rischia di vanificare il colpaccio dello Ius Soli approvato all’ultimo momento sul fronte sinistro, mentre su quello destro resterà intatta la mazzata in termini di popolarità.
Queste, ancora, sono preoccupazioni tutto sommato politiche. Poi ci sono quelle di più bassa cucina. Per qualche mese, dopo la batosta del 4 dicembre, Renzi aveva accettato, se non una gestione collegiale del partito, almeno la necessità di trattare con i principali alleati, a partire da Franceschini. Ma da quando sente odor di urne l’ex rottamatore è tornato a decidere tutto consultandosi solo con i fedelissimi.
Il non aver avvertito neppure Franceschini della mozione contro Visco equivale a un’affermazione perentoria: «Il partito sono io».
Se questo è il prologo ci si può figurare cosa succederà quando appunto i suoi fedelissimi dovranno stilare le liste, forti di una legge elettorale che permette al segretario e ai suoi luogotenenti di decidere chi entrerà in Parlamento e chi no.
Chiunque non rientri nel novero dei fedelissimi renziani se lo figura perfettamente.
Dunque subito dopo le elezioni siciliane, domenica prossima, le tensioni malcelate potrebbero deflagrare. Renzi ne è consapevole ma è convinto di avere tutti gli assi in mano. Il suo controllo sugli organismi dirigenti è ferreo e senza di quelli, all’ormai folto plotone di dissenzienti rimangono pochissime armi.
Perché di una cosa il segretario è certo: il coraggio di osare una nuova scissione, con il voto dietro l’angolo, non ce l’avrà nessuno.

Il Fatto 29.10.17
Marianna Madia
Tesi copiata all’Imt. L’indagine segreta che salva la Madia
Il dottorato sospetto - . i della commissione
di Laura Margottini

L’Alta Scuola Imt di Lucca non avvierà alcun procedimento contro Marianna Madia, ministro della Pubblica amministrazione dei governi Renzi e Gentiloni, per il presunto plagio con frode scientifica riscontrato dal Fatto Quotidiano nella tesi di dottorato, discussa a dicembre 2008. L’inchiesta ha costretto la Scuola ad aprire un’indagine interna il 18 aprile scorso. Il 27 ottobre, dopo sei mesi, l’Imt ha chiuso definitivamente l’istruttoria senza riscontrare nella tesi nessuna criticità. “A seguito delle risultanze degli approfondimenti svolti, condotti da personalità accademiche e da professionisti di comprovata esperienza internazionale nel settore della integrità ed etica della ricerca e antiplagio, considera definitivamente concluso l’iter e ritiene di non avviare alcun procedimento ulteriore”, scrive l’ateneo. L’Imt, però, vuole tenere segreto il verbale conclusivo dell’indagine e i nomi degli esperti chiamati nella commissione che ha analizzato il testo della Madia: “Riteniamo di non aggiungere alcunché al comunicato stampa emesso ieri pomeriggio (venerdì, ndr)”, ha detto Pietro Pietrini, direttore di Imt, che è l’unico autorizzato a commentare la vicenda.
“Rendere pubblici i nomi dei membri e le conclusioni dell’inchiesta è una procedura standard, per un’ovvia questione di trasparenza”, spiega invece Ben Martin, direttore di Research Policy, rivista di riferimento internazionale per gli standard sul plagio, che ha analizzato la tesi della Madia riscontrando “un inaccettabile livello di plagio.” Per Roberto Perotti, ordinario di Economia all’Università Bocconi di Milano, “è inspiegabile che Imt non voglia rivelare i nomi dei componenti e le conclusioni della perizia. Perché mai non si possono avere i dettagli?”
Secondo i calcoli del Fatto, poi confermati da esperti internazionali, interi blocchi di testo, per circa 4000 parole (in alcune pagine fino all’86%), sono identici a quelli presenti in pubblicazioni di altri autori, senza virgolette e senza citare la fonte nel testo. Pratica che rende impossibile distinguere le frasi originali della Madia da quelle di altri ricercatori. E pensare che proprio il codice etico di Imt definisce plagio “la presentazione di parole o idee di altri come fossero le proprie”. E quindi è vietato. Codice in vigore già dai tempi di Fabio Pammolli, rettore della Scuola dal 2005 al 2015, e relatore della tesi di Madia insieme a Giorgio Rodano (già ordinario di Economia alla Sapienza). Nella bibliografia la Madia non elenca gli articoli scritti insieme alla collega di dottorato, Caterina Giannetti, da cui attinge ampiamente in più parti della tesi (Giannetti creò anche il file pdf della tesi della Madia, per ragioni mai spiegate.)
Nella versione della tesi inviata ai revisori esterni ad agosto 2008, il secondo capitolo risultava co-autorato insieme alla Giannetti. Ma nella versione finale il nome della collega sparisce. “Il co-autoraggio resta un problema: l’originalità di una tesi va valutata in base al numero di co-autori”, spiega Davide Fiaschi, economista all’Università di Pisa, che è stato in commissione di esame per il dottorato della Madia nel 2008, senza sapere nulla del co-autoraggio. Poi c’è il terzo ed ultimo capitolo della tesi, “l’unica parte a dover essere davvero originale,” come ha dichiarato lo stesso relatore Rodano al Corriere lo scorso aprile. Si riferisce a un esperimento che la Madia dichiara di aver condotto all’Università di Tilburg, in Olanda, dove ha trascorso un periodo di studi nel 2008.
Circostanza che l’ateneo olandese ha smentito, dicendo che non risulta traccia di quell’esperimento, tra l’altro mai autorizzato.
“Questo aspetto merita un’inchiesta approfondita – ha spiegato Ben Martin –. Se l’esperimento non è mai stato condotto si configura la frode scientifica”. A Tilburg c’erano Caterina Giannetti e Maria Bigoni, altra collega della Madia. Giannetti e Bigoni hanno poi discusso la tesi a Imt il 24 aprile 2008. Mentre la data fissata per la discussione della tesi della Madia è il 22 dicembre 2008. Ma, altra stranezza, sul sito dell’Imt il nome Marianna Madia non risulta in nessuna sessione: il 22 dicembre 2008 a discutere la tesi c’erano, secondo il sito, altri due studenti. In un’intervista rilasciata al Fatto il 6 aprile scorso, Antonio Nicita (oggi commissario Agcom) anche lui in commissione d’esame per la tesi della Madia, conferma che in quella sessione c’erano due studenti, Madia e un altro. Il Fatto chiederà il verbale dell’indagine Imt e i nomi dei commissari, grazie al Freedom of Information Act (Foia) norma scritta per garantire l’accesso alle informazioni in possesso dello Stato. Strumento approvato a maggio 2016 nell’ambito della riforma della Pubblica amministrazione che porta il nome proprio della Madia.

il manifesto 29.10.17
Da D’Alema ai radicali, sinistra e centrosinistra: gli opposti listoni (immaginari)
Letta si sfila dalle prossime politiche, oggi Pisapia al convegno sugli Stati uniti d'Europa. Dall'altra parte Mdp, Si e Possibile verso l'assemblea di dicembre, ma resta l'incognita dell'adesione dei civici del Brancaccio
di Daniela Preziosi

«Abbiamo forze limitate, se ci poniamo obiettivi troppo ambiziosi e non realistici rischiamo di venire meno a un dovere più limitato ma non meno importante: fare in modo che in Italia tornino ad avere voce la politica e gli ideali della sinistra». Nella capitale, al convegno «Era notte a Roma» – citazione felliniana – organizzato da Mdp per cominciare a parlare di un futuro del Campidoglio quando sarà passata «’a nuttata» a 5 stelle, un Massimo D’Alema realista fa il punto dello stato dell’arte a sinistra. «Noi non abbiamo la forza per costruire un’altra prospettiva di governo. Non vorrei che inseguendo progetti troppo ambiziosi finissimo per non fare quello che ci compete. È chiaro che la sinistra deve fare una politica di alleanze, ma la condizione è esistere». La (finta) alleanza proposta da Renzi è «una scimmiottatura blairista che porterà il centrosinistra allo sfacelo», dice.
MA LA COSTRUZIONE del listone stenta. Si aspettano i risultati di Claudio Fava alle regionali siciliane del 5 novembre. C’è chi ipotizza uno smottamento nel Pd. Alla Camera Mdp, Sinistra italiana e Possibile hanno ottenuto per novembre la discussione di una proposta di ritorno all’art.18 dello statuto dei lavoratori. Una legge di «bandiera» che sarà presentata come partenza di un programma elettorale comune.
PARTENZA CHE IN REALTÀ c’è già stata: lontano dai cronisti, è in corso un (faticoso) confronto su un documento che possa costituire una base di confronto interno per ciascuna organizzazione e – è l’obiettivo – confluire in un’assemblea unitaria a dicembre.
DELLA PARTITA, PUR CON QUALCHE distinguo, è anche l’area civica del Brancaccio. «Troveremo un programma e un metodo inclusivo anche con loro», è la convinzione – o forse l’auspicio – di Stefano Fassina (Si). Una convinzione però assai meno diffusa in Mdp, attraversata da una tormentata discussione sulle alleanze a sinistra. Archiviata ingloriosamente la leadership di Pisapia, e vagheggiando ora di sostituirlo con il presidente del senato Grasso, sul percorso unitario continuano a pesare i ’paletti’ del professore Montanari e dell’avvocata Falcone, il «rinnovamento» nel programma e nelle liste.
PALETTI O, MEGLIO, MACIGNI che ieri Rifondazione comunista, che rivendica di far parte dell’area Brancaccio, ha messo nero su bianco con un documento della sua direzione: «Niente alleanze col Pd dopo le elezioni, programma di radicale rottura e liste senza ministri e esponenti dei governi responsabili di 25 anni di politiche neoliberiste». Cioè degli esecutivi dell’Ulivo e dell’Unione di cui pure, almeno nel secondo caso, il Prc ha fatto parte. Tradotto in volgari concretezze: no alla candidatura di D’Alema e di Bersani nelle eventuali liste «della sinistra unita».
DALL’ALTRA PARTE DELLA SINISTRA resta ancora molto per aria l’ipotesi di listone «civico» e di centrosinistra che aleggia intorno all’iniziativa di Emma Bonino. La storica leader dei radicali (ed ex ministra di Prodi e Letta) ieri a Roma, in una sala strapiena, ha aperto la convention sugli «Stati Uniti d’Europa». «Oggi siamo qui per parlare di questioni che riguardano l’Europa e non di altre cose, di cui magari ci sarà tempo di ragionare nelle prossime settimane», ha avvertito. Anche l’ex premier Enrico Letta, dal palco, ha chiarito: «Non parteciperò alle prossime elezioni politiche, in nessun modo». Si è attenuto al tema del giorno anche il ministro Calenda, altro ospite di un parterre molto orientato al centrosinistra (il centrista ’pisapiano’ Tabacci, il verde Bonelli, l’ex ministro Santagata). Oggi parleranno Pisapia e Prodi in videomessaggio. Anche l’ex sindaco di Milano ha già avvertito i cronisti: «Si parla di Europa, non di liste».
MA SI PARLA DI EUROPA pensando – e giustamente – al futuro dell’Italia. Quindi al prossime politiche: «Se non riusciamo a mostrare agli europei il volto di un’Europa che innova siamo spacciati», ha avvertito Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, «il prossimo anno alle elezioni italiane ci giochiamo la sconfitta dei neo-nazionalisti ma anche la credibilità di avere un governo capace di mettere in campo riforme strutturali per rilanciare il Paese. Noi siamo pronti a fare la nostra parte». d.p.

Il Fatto 29.10.17
Acerbo (Prc): “No alleanze con i Dem ma lista di sinistra”

“Rifondazione Comunista continuerà a sostenere con convinzione il progetto lanciato al Brancaccio per una lista di sinistra nuova e radicale”. Lo afferma Maurizio Acerbo, segretario di Prc, dopo che la direzione nazionale riunitasi ieri a Roma ha confermato la linea sulle alleanze elettorali. “Nel documento approvato formuliamo le nostre proposte per unire la sinistra e costruire una lista che risulti credibile e provi a intercettare milioni di persone che deluse e arrabbiate si sono indirizzate verso astensionismo e voto al M5s” spiega Acerbo, secondo il quale “niente alleanze col Pd dopo le elezioni, programma di radicale rottura e liste senza ministri e esponenti dei governi responsabili di 25 anni di politiche neoliberiste: una sinistra unita, nuova e radicale potrebbe raccogliere milioni di voti se non viene inchiodata dal passato”. Il segretario di Prc marca ancora le distanze con i Cinque stelle: “Apprendiamo con tristezza che anche in un’amministrazione pentastellata come quella di Torino vi sono pratiche clientelari come intervenire per togliere le multe agli amici. I grillini evitino di ergersi a unici depositari dell’onestà e della correttezza perché i vizi della società italiana riguardano anche loro”.

Corriere 29.10.17
Giorgio Gori: un errore snobbare i temi autonomisti
«La legge elettorale? Al Nord per il Pd è un problema serio»
di Andrea Senesi

MILANO «Con Monti e con Renzi si è cercato prima di controllare la spesa pubblica, poi di modernizzare il Paese dall’alto. Ora si riaffaccia l’esigenza di modernizzare l’Italia partendo invece dal basso, dai territori». Giorgio Gori, da sindaco pd di Bergamo si è schierato,«nonostante la propaganda leghista», per il Sì al referendum autonomista voluto da Roberto Maroni e ora si candida a sfidare, per la guida della Lombardia, proprio il governatore leghista.
Il sondaggio di Pagnoncelli è impietoso: il Pd rischia di perdere nei collegi uninominali del Nord. Dove si è sbagliato?
«Il centrosinistra è riuscito in questi anni a creare una classe dirigente alla guida delle città. È vero però che c’è l’urgenza di recuperare dal nostro repertorio l’attenzione per il Nord. Nella storia della sinistra la questione settentrionale è stata spesso centrale. Fu Guido Fanti da presidente dell’Emilia-Romagna, a metà degli anni 70, a inventare il tema della macroregione del Nord. Nel 2001 è stato il centrosinistra a portare a termine la riforma costituzionale attraverso cui ora Lombardia e Veneto possono chiedere più competenze da gestire. Il Pd deve tornare a essere interprete di queste esigenze, esattamente come si proponeva all’atto della sua fondazione».
Visto dal Nord, il Rosatellum è stato un errore?
«La legge va letta nel suo insieme; c’era l’esigenza di armonizzare i sistemi di Camera e Senato e questo passo è stato fatto in accordo tra maggioranza e opposizione. Dopodiché, dal punto di vista del territorio, i risultati del sondaggio mi preoccupano. Si apre un gigantesco tema di rappresentanza politica del Nord e delle Lombardia. Per questo diventa ancora più importante, per tutto il centrosinistra, la sfida per vincere in Regione».
Quando il suo partito ha smesso di occuparsi del Nord?
«C’è stata la stagione dei tecnici e di Mario Monti in cui il bisogno di salvare il Paese è diventato prioritario. Poi si è sperato che Renzi riuscisse ad avviare la modernizzazione di tutto il sistema, impresa di cui anche il Nord sarebbe stato beneficiario. Oggi si riaffaccia una spinta opposta. E questo succede nelle zone più esposte alla globalizzazione, dove lo Stato è percepito come un freno. Uno dei temi centrali è quello della potestà tributaria. La necessità di tenere cioè insieme la responsabilità di prelievo con la responsabilità di spesa».
Ma i referendum autonomisti mettevano al centro anche questi temi, eppure la sinistra li ha snobbati.
«È stato un errore. Noi sindaci del Pd abbiamo condiviso le obiezioni sul metodo scelto da Maroni, ma è chiaro che il rischio che il centrosinistra venisse percepito come il difensore del centralismo era concreto. Ed è un peccato perché invece l’autonomismo è un pezzo fondativo della nostra cultura. Abbiamo le carte in regola per recuperare, però».
C’è uno scollamento tra il Pd e i ceti produttivi del Nord?
«Io non credo. Governiamo le città più dinamiche della Lombardia e anzi mi faccia dire che se Milano oggi è quello che è, lo si deve ai sindaci di centrosinistra».
Lei si candida in Lombardia. Non teme di intercettare questo vento contrario?
«Per la stessa ragione mi sconsigliavano anche di candidarmi a sindaco di Bergamo. Ma le sfide sono divertenti quando sono difficili».

La Stampa 29.10.17
Minniti alla sinistra: tutti insieme
per lanciare una sfida unitaria
Il ministro prova a stringere nuove alleanze. Renzi lo applaude
di Ugo Magri

Un appello a non commettere suicidio collettivo viene lanciato dall’esponente Pd che meno finora ha interferito nelle strategie renziane e, forse, più si è concentrato a fare il ministro. Marco Minniti, dal palco della conferenza programmatica “Dem” di Pietrarsa, tende la mano ai fratelli separati della sinistra, senza piantare paletti. Riconosce che «abbiamo molte ragioni, ma non tutte le ragioni». Difende generosamente il legame che dovrebbe creare solidarietà tra i campi progressisti. Esorta tutti quanti a «ripartire insieme per una grande sfida unitaria». Matteo Renzi, in prima fila ad ascoltarlo, applaude alcuni di questi passaggi. E il presidente del Consiglio, che interviene dallo stesso palco nel pomeriggio, ribadisce la linea: «Per vincere dobbiamo darci l’assetto più competitivo e largo possibile, aperto verso il centro e la sinistra». Dopo mesi di scissioni e addii, ultimo quello di Piero Grasso, forse è venuto il tempo di ricucire. Anche perché il “Rosatellum” non dà alternative. Con questa legge elettorale, marciare divisi significherebbe sconfitta garantita.
Oltre l’accampamento
Guarda caso, gli ultimi sondaggi confermano un Pd in affanno e non solo in Sicilia (dove si voterà domenica prossima). La svolta populista inaugurata su Bankitalia per il momento non sposta le percentuali. Se vorrà davvero competere con una destra che viaggia dieci punti avanti, Renzi dovrà guardare oltre l’accampamento Pd. Fino dove Matteo vorrà spingersi, è impossibile dirlo. Certo non al punto da fare pace con D’Alema, che malignamente ieri definiva Renzi «collezionista di sconfitte», e condannava le «scimmiottature del blairismo», e lodava la «serietà» di Denis Verdini contrapposta a quella «di certi altri». Però il cantiere è aperto, si percepisce la voglia di diradare la diffidenza, soprattutto a sinistra. Gentiloni lo spiega con una metafora sportiva: «Si gioca per vincere e governare, non per partecipare: nel Pantheon del Pd non c’è De Coubertin».
Impegno sullo Ius soli
Ecco perché l’uscita di Minniti vale doppio. In certi momenti, ad esempio dopo il giro di vite sulle Ong, erano volate accuse di cedimento a destra: come se il ministro avesse ripudiato la cultura dell’accoglienza nel nome dell’emergenza. Proprio lui, invece, ieri ha ribadito solenne: «Approveremo lo Ius soli entro la fine della legislatura». Detto proprio da lui, dall’ispiratore della svolta anti-sbarchi che qualche risultato sta ottenendo, dal ministro contro cui perfino Matteo Salvini ha le armi spuntate, vuol dire che una maggiore integrazione dei figli di immigrati non è in contrasto con la lotta ai trafficanti di vite umane. Anzi, è proprio stringendo le maglie di un’immigrazione fuori controllo che l’intera sinistra potrà ritrovarsi unita sullo Ius soli. E magari ricominciare a parlarsi perché «senza la sfida del governo, la sinistra cessa di esistere. Si può perdere le elezioni ma non abdicare».

La Stampa 29.10.17
Orlando: nessun golpe nel Pd
qualunque sia il risultato in Sicilia
“Abbiamo costruito una legge per le coalizioni, ora facciamola”
intervista di Andrea Carugati

«Quale che sia il risultato in Sicilia non ci sarà nessun “golpe” per cambiare il segretario del Pd. Lui ha vinto le primarie, non sarebbe giusto e neppure possibile da statuto. Il punto è dar vita a un nuovo centrosinistra: una linea che al congresso non era quella di Renzi, ma che lui ha detto di voler fare propria». Andrea Orlando, leader della sinistra Pd, parla in una pausa della conferenza programmatica del suo partito a Napoli. «Abbiamo costruito una legge elettorale che prevede le coalizioni. Ora servono azioni concrete da parte nostra. Dalla relazione di Renzi di domani (oggi,ndr) non mi aspetto segnali o generici appelli, ma una road map precisa: come, quando, con chi e su quali contenuti. Abbiamo già perso troppo tempo. Ed è stato un grave errore non cogliere l’invito ad un incontro arrivato nei giorni scorsi da Roberto Speranza, anche soltanto per misurare le distanze».
In realtà in queste ore le polemiche non sono solo tra Pd e Mdp, ma tra partito e governo e anche tra di voi. Quattro ministri renziani hanno disertato la riunione del governo in cui è stato confermato il governatore di Bankitalia.
«I quattro ministri hanno detto di non aver partecipato perché impossibilitati. Prendo atto. Se non fosse così sarebbe preoccupante: smarcarsi dal proprio governo, su cui peraltro sì da un giudizio positivo, è sempre una strategia perdente. Le critiche al ruolo di vigilanza di Bankitalia sono legittime, ma il Pd ha sbagliato nei tempi e nei modi e la critica è risultata poco credibile. Dopo 5 anni di governo non puoi metterti a cavalcare l’antipolitica, anche perché a farlo c’è già il M5S e il mercato è saturo. Se vuoi contestare l’establishment o i salotti buoni, devi mettere in discussione le idee che hanno prodotto: la sbornia liberista, l’idea che dalla crisi si esce solo abbassando le tasse, che gli investimenti pubblici sono anticaglie».
Pietro Grasso ha lasciato il Pd accusandolo di aver cambiato natura e per la fiducia sulla legge elettorale.
«Che il Pd di Renzi sia diverso da quello di Bersani, non mi pare una scoperta. La domanda è se esistono altre forze politiche in grado di contrastare una vittoria della destra e del M5s. La risposta è no. Quanto alla fiducia, anch’io ho espresso perplessità, ma votare col Consultellum era la strada peggiore. Ora abbiamo una legge che incentiva le coalizioni e questo è un bene per il Paese».
Una legge che rischia di penalizzarvi.
«Un dirigente che fa parte della maggioranza dem mi ha detto: “Abbiamo costruito un’autostrada e ora rischiamo di doverla percorrere in bicicletta se restiamo da soli”. Per questo dobbiamo riaprire subito una interlocuzione con tutti i soggetti del centrosinistra. Dopo le regionali, finita la campagna elettorale, spero sia più facile anche con Mdp, a partire dalla legge di Bilancio».
Sono appena usciti dalla maggioranza.
«E’ vero, ma visto che nessuno vuole l’aumento dell’Iva, possiamo usare quei 5-6 miliardi che restano per fare dei piccoli passi insieme. Conta più quello che vogliamo fare nei prossimi 5 anni del giudizio sugli ultimi 5. C’è un filo comune che riguarda temi come lotta alla povertà e alle diseguaglianze, superamento dell’austerità, ruolo dell’Italia in Europa, ma anche giustizia e sicurezza».
Per lei centrosinistra significa alleanza con Mdp?
«Se vogliamo una coalizione vincente ci devono essere dentro anche forze che parlino a un elettorato diverso dal nostro».
Se il Pd perde le regionali in Sicilia questo percorso sarà più semplice?
«Il tema si pone anche in caso di vittoria. E non c’è bisogno delle catastrofi per riflettere, anche perché non aiutano a essere lucidi. Il segretario ha già detto all’ultima direzione che dobbiamo fare una coalizione. Il paradosso è che le azioni successive sono andate nella direzione opposta».
Qual è la dead line per capire se questa coalizione vedrà la luce?
«Il giorno della presentazione delle liste. Ma da Renzi mi aspetto subito atti concreti di dialogo a sinistra».
Qualcuno sostiene che Renzi si stia preparando a fare fuori i dissidenti dalle prossime liste. Compresi voi.
«Un Pd centrista e più piccolo rischia di fare al massimo l’appendice di un governo di centrodestra. Non credo che qualcuno trovi questo scenario emozionante. In tanti nel Pd pensano che serva un partito in grado di guidare il Paese: e questo si può fare solo come perno di un ampio centrosinistra, come ha detto Gentiloni a Napoli».

La Stampa 29.10.17
Pisapia-Bonino
La lista rimane ancora al palo
di Fabio Martini

Nessuno se la sente di fare il primo passo, i possibili promotori di una Lista Bonino-Pisapia continuano a far pretattica alla maniera di Helenio Herrera e così, all’ennesima prova dei fatti, resta ancora nel cantiere un soggetto alleato (ma concorrente) del Pd. È questo il dato che emerge, all’hotel Ergife, al termine della prima giornata della Convention di Radicali italiani, l’ala del Pr che ha seguito Emma Bonino: nessuno degli invitati e dei padroni di casa si è scoperto. Non un possibile, futuribile sponsor come Enrico Letta, che ha annunciato: «Non parteciperò alle prossime elezioni». Non Giuliano Pisapia, sempre più indecifrabile: «Non ho nessun posto nella politica italiana, ho sempre detto che mi metto a servizio di altri, l’unità è sempre più necessaria». E neppure Emma Bonino: «Se c’è qualche retroscenista, lo dico subito, oggi siamo per parlare di Europa e non di altre cose, di cui magari ci sarà tempo di ragionare nelle prossime settimane». Ma fino a pochi giorni fa proprio i Radicali avevano indicato la Convention come l’occasione per lavorare su «offerta politica ed elettorale».
Dunque si butta la palla oltre la fatidica data del 5 novembre, quando gli elettori siciliani, col voto per le Regionali, forniranno un primo “fixing” sul peso elettorale dei partiti quantomeno nel Mezzogiorno: un risultato destinato a condizionare le mosse di molti e anche le possibili novità nell’offerta politica dei partiti. Oggi alla Convention interverrà Giuliano Pisapia, arriverà il video-messaggio di Romano Prodi e chiuderà Emma Bonino. Qualcuno rinuncerà al tatticismo di questi giorni? Certo, non Prodi che continua a predicare una coalizione larga e coesa, ma non intende lasciarsi coinvolgere in uno dei segmenti in campo. Anche se all’Ergife si è fatto vedere Giulio Santagata, già braccio destro del Professore a palazzo Chigi e questo è un segnale.
Anche Pisapia potrebbe presto “scongelarsi”. Oggi l’ex sindaco dirà la sua oggi, ma anche nelle battute a margine ha fatto capire il suo “debole”: in prima persona non se la sente di guidare operazioni politiche, ma se sono altri a partire, lui potrebbe esserci. E quanto a Emma Bonino, deve ancora misurare il polso dei radicali a lei vicini, una parte dei quali preferisce un’operazione “autarchica”, senza federarsi con altre forze. Nella prima giornata della Convention l’unico personaggio che, in tutta quest’area, ha confermato di avere doti politiche di leadership è stato il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda: un intervento brillante e di sostanza, che è stato molto applaudito. Come quello di Roberto Saviano.

Corriere 29.10.17
L’idea di lista pro Europa (con la regia di Bonino)
Al. T.

Emma Bonino, gran cerimoniera, anzi «papessa laica», come la chiama Enrico Letta, non vuol sentir parlare di liste: «Oggi si parla solo di Europa». E di Europa all’Ergife di Roma si parla tantissimo. Ma il parterre, e i rumors, autorizzano a ipotizzare anche l’incubazione di una nuova lista europeista e radicale, d’appoggio al Pd renziano. Alla convention convocata dai Radicali italiani ci sono, oltre al segretario Riccardo Magi e a Marco Cappato, Enrico Letta e il pd Marco Meloni; Giuliano Pisapia con Bruno Tabacci; Benedetto Della Vedova, portatore sano del marchio «Forza Europa»; Roberto Saviano. E Carlo Calenda, ministro, tra i più attivi tra i non renziani. La speranza di tutti sono gli «Stati Uniti d’Europa». La declinazione elettorale sarebbe una lista tipo «Europa radicale». Letta si chiama fuori. Saviano sembra entusiasta. E Calenda? «Ho già detto che non mi presento». Ma se nascesse la lista? «Sarebbe un bel progetto». La sosterrebbe? «Beh, non è ancora nata. Vedremo». E oggi all’Ergife ci sarà anche Romano Prodi, in video.

il manifesto 29.10.17
Il Campidoglio «antifascista» ferma la nuova «Marcia su Roma»
Iniziativa dell'Anpi. Reduci al Verano. Boccacci denunciato per apologia del fascismo. Lettera della comunità ebraica alla sindaca Virginia Raggi che apre la commemorazione
di Gilda Maussier

ROMA «I partigiani hanno combattuto e sacrificato le proprie vite contro persecuzioni e stermini. E ci hanno donato il nostro futuro». A poche centinaia di metri dal Campidoglio, mentre la sindaca di Roma Virginia Raggi pronunciava queste parole nell’aula consiliare in apertura dell’iniziativa «L’antifascismo in marcia» promossa dall’Anpi, Maurizio Boccacci, famigerato leader di Militia e prima di Movimento politico, veniva fermato in piazza Montecitorio mentre tentava di issare una bandiera con fascio littorio per commemorare la «Marcia su Roma», e denunciato per apologia del fascismo. Poco più a est, dentro il cimitero monumentale del Verano si ripeteva la triste scena di una quarantina di attempati signori e signore (alcuni sono stati portati in commissariato e identificati) che deponevano una corona di fiori nella cappella dedicata ai «Martiri fascisti», senza osare di uscire nella città dei vivi.
Intanto Forza Nuova, arresasi davanti ai divieti (anche del ministro Minniti), annunciava via Fb (neppure cento like e una manciata di condivisioni) che la manifestazione celebrativa della marcia fascista del 1922 prevista per ieri si farà, ma il 4 novembre. A completare il quadro di una giornata che rappresenta bene l’alternante rapporto dell’Italia con il proprio nefasto passato c’è un ex ministro ed ex governatore del Lazio, Francesco Storace, oggi presidente di quel Movimento Nazionale per la Sovranità nato all’inizio dell’anno (segretario l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno) che secondo Berlusconi «saprà essere parte integrante di un centrodestra che possa candidarsi a governare il Paese», che definisce «patetici i reduci antifascisti che si “difendono” dal 28 ottobre», e dà appuntamento al 2022 per la riscossa.
Nell’attesa, in Campidoglio  tutti hanno cantato «Bella ciao». Anche Virginia Raggi, che però ha posto anche il problema di «trovare nuove forme e modalità affinché la memoria resti sempre viva e accesa» davanti alle «nuove generazioni che percepiscono gli anni bui del Ventennio come assai lontani nel tempo». Raggi ha ricevuto una lettera dalla presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello che non ha potuto partecipare alla cerimonia a causa della «coincidenza con lo shabbat». Un atto che paga l’impegno della sindaca nel tentare la riconciliazione tra l’Anpi e la Comunità ebraica, dopo le lacerazioni dello scorso 25 aprile che li ha visti celebrare separatamente la Liberazione d’Italia. «Di fronte al risorgere di nazionalismi e populismi è bene tenere la guardia sempre alta, non possiamo permetterci che nascano nuovi fascismi nel cuore della nostra società», scrive Dureghello che si felicita per la reazione unanime di istituzioni e società civile contro «l’ipotesi di una nuova marcia su Roma».
«Questa giornata non è solo la risposta a una provocazione – ha detto il presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia in aula Giulio Cesare – ma l’inizio di una nuova era della tolleranza zero: di fascisti con camice nere o di ogni altra forma non ne vogliamo più sapere». Perché di «quel lontano 28 ottobre 1922 non possiamo e non dobbiamo dimenticare la lezione», ha aggiunto il segretario confederale della Cisl, Andrea Cuccello, «dal momento che siamo purtroppo in una epoca che ha delle analogie sul piano delle paure e delle incertezze, con rigurgiti pericolosi di xenofobia ed antisemitismo nella società italiana».
Per il momento Roma ha reagito, e bene. «La nostra città, medaglia d’oro della Resistenza, e questa istituzione che rappresento – ha giurato il presidente dell’Assemblea capitolina, Marcello De Vito – non possono tollerare intimidazioni e provocazioni di matrice fascista e xenofoba che mettano in discussione i valori costituzionali in cui crediamo e che hanno favorito la crescita civile del nostro Paese».

Il Fatto 26.10.17
Mine anti-uomo, così il Parlamento provò a salvare i banchieri
Mattarella ha respinto la legge approvata all’unanimità perché esclude sanzioni penali per manager e aziende
di Luciano Cerasa

Sembrava una storia a lieto fine, di quelle che il Parlamento è riuscito a regalarci molto raramente, in questa legislatura. La Camera aveva approvato un mese fa, a quattro anni e mezzo di distanza dalla presentazione al Senato (prima firmataria la senatrice del Pd Silvana Amati), una proposta di legge che provava a mettere al bando anche nel nostro Paese le mine anti-uomo “a grappolo”, le tristemente famose cluster. Con un altro record il ddl è passato in aula a Montecitorio con nessun voto contrario e 3 astenuti. L’approvazione è unanime, come lo era stata alla Commissione Finanze del Senato in sede legislativa. Del resto, oltre alla palese nobile finalità della legge, si trattava di applicare anche in Italia, Paese tra i maggiori produttori di armi, i dettami delle convenzioni di Oslo e di Ottawa, ratificate dopo 14 anni nel lontano 2011.
Il dispositivo – solo sette articoli di legge formulati in modo anche questo inusuale con periodi asciutti e chiari – viene inviato al Quirinale per la promulgazione. Ma il presidente della Repubblica, per la prima volta dall’inizio del suo mandato, lo rinvia alle Camere perché presenta “profili di evidente illegittimità costituzionale”. E a ben guardare, ora che l’indice di Mattarella ha richiamato l’attenzione di tutti sull’articolo 6, la svista (moltiplicata per due passaggi parlamentari, tra aula e commissioni, e per il numero dei gruppi che l’hanno esaminata e approvata) appare incredibile. E anche politicamente molto rilevante, perché nella categoria dei “salvaguardati” dalla norma bloccata dal Quirinale troviamo ancora una volta banchieri e finanzieri.
La proposta di legge introduce “il divieto totale al finanziamento di società in qualsiasi forma giuridica costituite, aventi sede in Italia o all’estero svolgano attività di costruzione, produzione, sviluppo, assemblaggio, riparazione, conservazione, impiego, utilizzo, immagazzinaggio, stoccaggio, detenzione, promozione, vendita, distribuzione, importazione, esportazione, trasferimento o trasporto delle mine anti-persona, delle munizioni e submunizioni cluster, di qualunque natura o composizione, o di parti di esse”. Il legislatore vieta anche la ricerca tecnologica, la fabbricazione, vendita e cessione, a qualsiasi titolo, esportazione, importazione e detenzione di munizioni e submunizioni cluster, “di qualunque natura o composizione, o di parti di esse”.
Il giusto furore iconoclasta contenuto nei primi 5 articoli del testo di legge contro aziende e persone che osino mettere in bilancio soldi da spendere per fabbricare e vendere mine anti-uomo “a grappolo”, si smonta come un uragano declassificato a tempesta in un bicchiere all’articolo 6 comma 2, al capitolo sanzioni. Che cosa rischiano i turpi finanziatori che sorridono davanti alle orribili mutilazioni provocate dalle mine cluster soprattutto sui corpi di donne e bambini? Solo multe. Le aziende che fanno da intermediari finanziari (Sim, banche, società di gestione, imprese di investimento, agenti di cambio, fondi pensione) rischiano da 150mila a un milione e mezzo di euro. Titolari e manager delle stesse da 50mila a 250mila euro. Pochino come deterrente, per un’industria che ha fatturato 31 miliardi di dollari negli ultimi 4 anni. Addirittura incostituzionale per Mattarella, che sottolinea come la norma in questione “violando l’articolo 117 della Carta, si pone in contrasto con le convenzioni di Oslo e di Ottawa che richiedono sanzioni penali per tutti i finanziatori degli ordigni vietati”. La normativa come abbiamo visto determinerebbe, secondo il Colle, “la depenalizzazione di alcune condotte oggi sanzionate penalmente”.
Un recente rapporto realizzato da Pax, la ex Pax Christi olandese, insieme al centro studi “Profundo”, ci spiega che il mercato di questo tipo di armamenti coinvolge 166 istituzioni finanziarie in 14 Paesi. Tuttavia, riferisce nella sua dichiarazione di voto alla Camera Milena Santerini del Centro democratico di Bruno Tabacci “ci sono anche, ed è molto positivo, 88 istituti finanziari che, in modo differente, in vario modo, vietano gli investimenti nel settore, e tra questi ci sono tre principali gruppi bancari italiani, Intesa San Paolo, UniCredit e Generali”. Appare però chiaro anche alla Santerini “che le banche non si sono ancora liberate del tutto da tutti i rapporti con la filiera delle mine anti-uomo” perché la filiera, si sa, “è lunga”.

Repubblica 29.10.17
Macron l’europeista e la saggezza perduta della sinistra
di Eugenio Scalfari

IL NOSTRO giornale di ieri ha pubblicato un ampio articolo di Jürgen Habermas, uscito pochi giorni fa su Der Spiegel, il cui titolo è: “Si può ancora fare politica contro le false idee sull’Europa”. E quali sono le false idee sull’Europa secondo Habermas? Quelle che emergono a Berlino nelle classi dirigenti e nella pubblica opinione: le istituzioni europee debbono restare così come sono; sovranismo delle Nazioni confederate, sulle quali prevale la forza della Germania che è il Paese più importante dal punto di vista geopolitico e da quello economico.
La Germania ha da tempo superato la sconfitta subita nella guerra mondiale che cominciò nell’autunno del 1939 e terminò nel ’45. Sono passati 72 anni da allora e il tempo corre con una velocità molto notevole. Perciò la sconfitta è stata dimenticata, le responsabilità della guerra sono anch’esse dimenticate.
Hitler di certo non è dimenticato, la strage dei campi nazisti nei quali furono uccisi milioni di donne, uomini, bimbi e vecchi, è sempre presente nella memoria dei tedeschi ma la Germania di oggi è un Paese diverso, certamente democratico; perciò non ha nulla a che vedere con ciò che avvenne quasi un secolo fa. Questo pensano tutti i tedeschi ed anche tutti gli europei e il mondo intero: la Germania d’oggi è un’altra e per fortuna è con quella che dobbiamo parlare.
C’È PERÒ un problema tutt’altro che secondario, che Habermas ha individuato e al quale ha dedicato gran parte del suo articolo. Il problema è Macron e il suo europeismo.
Finora l’europeismo non era un tema francese, al contrario. La Francia non è mai stata europeista, anzi è stata l’avversaria dell’europeismo. De Gaulle uscì perfino dalla Nato. In seguito, quando tutta l’Europa decise di darsi una Costituzione che avrebbe finalmente realizzato la Federazione analoga a quella degli Stati Uniti, con un presidente della Repubblica dotato di pieni poteri di governo, il compito di presiedere quel gruppo di lavoro fu affidato al francese Giscard d’Estaing, con vice presidente l’italiano Giuliano Amato. Una volta terminato il lavoro il documento fu inoltrato a tutti gli Stati membri dell’Unione europea per l’approvazione e quindi la messa in opera per realizzarla. Gli Stati l’approvarono salvo la Francia e l’Olanda che indissero un referendum in proposito e la Costituzione preparata dal quel gruppo di lavoro fu bocciata dal popolo francese e olandese. Naturalmente la Francia rimase isolata in Europa ma questo era l’umore dei suoi cittadini elettori.
Per rompere l’isolamento fu trovata una furbizia diplomatica: redigere un Trattato che avrebbe accolto gran parte dei temi contenuti nel progetto costituzionale sotto forma non di regole anzi esclusivamente di principi. Si chiamò il Trattato di Lisbona poiché era stato redatto nella capitale portoghese ed è tuttora vigente ma i principi non sono impositivi. Gli Stati dell’Unione, se vogliono, possono attuare quei principi, ciascuno a suo modo. Siamo quindi ben lontani da una Costituzione. Habermas si è innamorato delle proposte di Macron in materia. Macron si è presentato come europeista fin da quando si aprì la battaglia per la presidenza francese ma sembrava allora una delle tante dichiarazioni d’opinione d’un programma con il quale Macron riuscì ad eliminare al primo turno Marine Le Pen e il suo europeismo fu una delle carte che lo aiutò a vincere. Sembrava però che fosse appunto una specie di tema elettoralistico anche perché la Germania non era ancora arrivata alle proprie elezioni politiche e quando si parlava d’Europa federata Merkel non apriva bocca, non diceva né sì né no. Ma in questi giorni Macron ha ripreso la battaglia europea che anzi sembra diventata il suo principale tema di riferimento.
Habermas è anch’egli a favore dell’Europa federata tanto più oggi in quanto il suo Paese, sempre guidato da Merkel ma alleato e quindi condizionato da partiti antieuropei, rende il tema più che mai attuale e quindi è completamente allineato con Macron il quale a sua volta ha alle spalle un Paese che ha guidato l’Europa nella politica, nell’economia e nella cultura, dai tempi del Re Sole e poi di Napoleone I e Napoleone III. Le classi dirigenti di tutto il nostro continente avevano come lingua franca il francese e i valori dopo la grande Rivoluzione diffusi in tutto l’Occidente erano quelli che i francesi avevano definito: liberté, egalité, fraternité. Macron certamente sa che l’Europa d’oggi avrà come vertice la Francia e non la Germania e neppure la coppia dei due Paesi insieme.
L’Italia deve certamente far parte di questa campagna europeista ed è stata anche la politica europeista del Partito democratico da quando fu fondato da Prodi (l’Ulivo) poi da Veltroni (Partito democratico) e infine anche da Renzi quando trovava il tempo di occuparsi dell’Europa e che oggi, a dire il vero, non trova più.
Perciò, per quanto mi riguarda, dico anch’io con Habermas: evviva Macron.
***
Anche l’Italia come quasi tutte le altre nazioni europee sta migliorando la sua economia: il reddito, gli investimenti, i consumi, le esportazioni ed anche l’occupazione (precaria). Lo dice il nostro ministro delle Finanze, lo dice la Commissione europea e — quel che più importa — lo dice il presidente della Bce, Mario Draghi. Il miglioramento rispetto all’inizio della crisi nel 2008, e importato dalla vera catastrofe americana del 2007, è più lento degli altri Paesi ma c’è. Molti economisti dubitano che esso continui, è temporaneo ma forse tra qualche mese si arresterà. Personalmente non condivido questa tesi ma certo il governo non deve commettere errori che siano gravi e che capovolgano il ciclo. È difficile però che un Paese ingovernabile abbia un’economia in buona efficienza. Questa ipotesi di ingovernabilità dovrà essere superata. Come? Con alleanze abbastanza solide negoziate prima o dopo le imminenti elezioni. Ma la situazione è tale da rendere impossibile che avvengano prima: sarebbe un handicap elettorale per tutti. E tuttavia il quadro delle forze in campo parla chiaro e vale la pena di esaminarlo.
Cominciamo dai 5 Stelle. Sappiamo che per loro le alleanze non debbono farsi, sperano di vincere da soli ma certo non ottenendo il 51 per cento dei voti come è necessario sia alla Camera sia al Senato ma con l’obiettivo di essere comunque il partito vittorioso rispetto agli altri. Stando ai sondaggi che registrano la realtà attuale potrebbero superare tutti gli altri partiti realizzando tra il 30 e il 35 per cento e non è escluso che arrivino anche al 40 ma certo non al 51. Non fanno alleanze ma Di Maio ha trovato un modo per superare questo principio che non può e non deve almeno oggi essere abbandonato: ha già detto che se riusciranno ad essere loro a fare il governo avranno come ministri pochi provenienti dal Movimento e molti presi invece tra personalità che abbiano notevole competenza nel dicastero che saranno chiamati a gestire. Non è affatto escluso che questa trovata, abbastanza geniale, non nasconda anche un sotterfugio: i ministri più competenti possono esser presi da alcuni partiti che non hanno un’opposizione accanita contro i 5 Stelle ma possano però agganciare forze politiche minori. Una specie di alleanza non dichiarata ma effettuata. Ricorda Verdini. Per tramutare un’operazione del tipo in una alleanza sia pure indiretta è molto difficile trovare persone come Verdini. Lui è un santo e un demonio. Non se ne trovano in giro molti e dubito assai che quei pochi disposti all’alleanza indiretta con i 5 Stelle rappresentino partiti con un discreto numero di voti. In conclusione, nonostante la furbizia politica di Di Maio, i 5 Stelle potranno superare gli altri partiti ma non certo presiedere un governo.
Ed ora passiamo alla Lega di Salvini (probabilmente insieme a Meloni, la quale viene data tra i 4 e i 5 punti). Alla Lega viene attribuito tra il 14 e il 15 per cento più il 5 di Meloni si arriva al 20. Forza Italia è valutata attorno al 14-15 e perciò uniti insieme viaggiano verso il 35 per cento. Potrebbero anche arrivare al 40, più o meno come i 5 Stelle, ma anche loro ovviamente ben lontani dal 51.
La sinistra dissidente uscita dal Pd non è neppure unita. È composta da tre o quattro confraternite (non saprei come altro chiamarle per non usare la parolaccia schegge) che oscillano, se si unissero tutte insieme, tra il 10 e il 15 per cento. Sarebbe molto utile se, facendo valere la loro unione, e la possibilità che le percentuali di oggi siano leggermente più alte al momento delle elezioni, rientrassero nel partito, naturalmente come corrente molto bene individuabile. Senza porre inutili condizioni ma combattendo la loro battaglia interna di corrente e naturalmente esponendone i temi e le soluzioni sia per l’Italia sia per l’Europa poiché è indispensabile occuparsi anche dell’Unione, cosa che attualmente la sinistra dissidente non fa affatto.
Dubito molto che questa apertura avverrà, mentre credo che Renzi l’accoglierebbe. Durante la celebrazione del decennale dalla fondazione del Pd Renzi disse che concepiva un partito non chiuso ma aperto e forse alludeva a questa ipotesi. È anche vero che dopo quella giornata nella quale Veltroni fu chiamato padre del partito e quindi padre anche suo, Renzi è ritornato al “comando da solo” con tutti gli errori e le brutture che il “comando da solo” comporta. Tuttavia su questo tema di un rientro dei dissidenti potrebbe ritrovare un bernoccolo di saggezza politica.
La conclusione di questo esame di cifre politiche è purtroppo pessima: andiamo verso un Paese ingovernabile con i tre partiti maggiori che più o meno si equivalgono. Il Pd attuale è valutato tra il 25 e il 30 e quindi se non ci saranno novità o alleanze adeguate non sarà il primo ma il terzo partito, dopo la destra berlusconiana salviniana e i 5 Stelle grillini.
Ieri si è svolta a Napoli la conferenza programmatica del Pd. I programmi sono necessari e anzi indispensabili per poter essere attuati; ma se nessuno li attua ed anzi agisce al contrario di quanto previsto in quei documenti, i programmi diventano come il Trattato di Lisbona rispetto ad una Costituzione europea: affermano principi e valori e poi fanno esattamente il contrario.
Per questo mi ha dato una sensazione positiva l’intervento di Marco Minniti in quella riunione. Ha parlato di varie cose, di immigrati, sicurezza interna, Libia e della sua politica nei Paesi dove l’immigrazione è non un fenomeno di emergenza ma uno stato di fatto che durerà per moltissimi anni. Ma poi ha detto una frase che affrontava un problema di altro genere, con parole che implicitamente ponevano il tema del rafforzamento del partito e del governo e in qualche modo alludevano all’unificazione di tutta la sinistra. Ne riporto una breve frase ma il tema era diffuso in tutto il discorso: «Da Napoli deve partire una grande passione unitaria. La sinistra senza la sfida del governo non esiste, questo è il cuore del problema. Se uno si ritira, si mette di lato, la sinistra perde se stessa e il popolo della sinistra non lo capirebbe e non lo perdonerebbe. La sfida è quella di lavorare insieme per battere la destra e sconfiggere i populismi. Adesso ho finito, abbraccio Renzi e abbraccio Paolo (Gentiloni)».
Queste sono le parole dette da Minniti alla conferenza programmatica di Napoli. I programmi sono cartapesta, bisogna attuarli. Perciò datevi da fare.

il manifesto 29.10.17
Spagna, due minoranze sull’orlo del precipizio
Catalogna. La minaccia indipendentista è diventata il nemico perfetto di cui aveva bisogno il governo per continuare indisturbato il massacro sociale e ambientale e le sue politiche di corruzione. L’esile speranza di fermare questa corsa verso il precipizio è legata alla capacità di variare gli obiettivi e l’orientamento delle mobilitazioni
di Massimo Serafini, Marina Turi

A seguito della dichiarazione della Repubblica Catalana il consiglio comunale di Girona si è riunito e ha dichiarato il re Felipe VI persona non grata. Mentre il consiglio generale della Valle di Arán – diecimila abitanti che parlano occitano – si riunirà lunedì per decidere l’indipendenza dall’indipendenza, perché la maggioranza della valle vuole rimanere in Spagna.
Intanto Pablo Iglesias affida a tre tweet le sue considerazioni sulle dichiarazioni di Rajoy e la convocazione delle elezioni in Catalogna: 1) si deve garantire che il processo elettorale si svolga senza repressione e con il coinvolgimento di tutte le opzioni politiche presenti.
2) continueremo a difendere l’idea che la Catalogna resti in Spagna per contribuire ad un progetto di paese plurinazionale, solidale e fraterno. 3) continueremo a difendere il dialogo e la proposta di un referendum legale e concordato come migliore soluzione alla crisi catalana.
L’indipendenza è il bene. Insomma nulla di nuovo. Anche la sindaca Ada Colau non si stanca di ripetere che è un errore rinunciare a quell’80% a favore di un referendum concordato, per un 48% a favore dell’indipendenza. E dichiara di stare dalla parte di chi costruisce nuovi scenari di autogoverno che diano più democrazia, non meno.
Ripete che lei lavora per una femminilizzazione della politica che vuole l’empatia come pratica per costruire consensi in cui le diversità siano un valore aggiunto.
In dissonanza con le scelte prese da due minoranze che precipitano la Spagna al bordo di un abisso, proprio spaccando la convivenza tra le diversità.
L’avventura secessionista catalana per ora è un grande regalo a Rajoy, capo del partito politico più corrotto dell’Ue, ma che invoca sempre il rispetto della legge. E che la farà rispettare a qualsiasi costo, ripristinando il suo ordine e la sua legalità. E che nessuno si illuda, l’applicazione del 155 non si fermerà alla Catalogna, ma si estenderà ad altre autonomie, come già invocano dal Pp per le regioni di Euskadi, Navarra e Castilla-La Mancha.
Per riformare sì la costituzione del ’78, ma secondo il disegno che hanno in testa il Partito Popolare e le destre. Che potrebbe essere quello di incorporare e attuare anche l’articolo 116 che parla di poteri eccezionali e il coinvolgimento dei militari per garantire l’ordine costituzionale.
Un aiuto agli indipendentisti l’ha dato il Psoe. Poteva, appoggiando la piattaforma di Zaragoza, dare un corso diverso alle cose e sfiduciare il Pp e le destre, dando forza all’idea della Spagna plurinazionale attraverso un referendum concordato. Invece no, ma anche peggio.
Perché nella stessa seduta del congresso che, tra applausi e grida di giubilo, ha deciso di avviare l’applicazione del 155, è stata votata – con l’astensione dei socialisti, come da accordi – l’approvazione del trattato Ceta, l’accordo commerciale liberista tra la Ue e il Canada.
E se la ride Rajoy ora che la notizia dell’anno, l’implicazione del suo Pp nella più grande opera di corruzione europea, è stata eclissata dalla Repubblica Catalana e volutamente dimenticata dai principali mezzi di comunicazione.
La minaccia indipendentista è diventata il nemico perfetto di cui aveva bisogno il governo per continuare indisturbato il massacro sociale e ambientale e le sue politiche di corruzione. Politiche a favore delle loro vere patrie, quelle off-shore ed esentasse.
È indispensabile una nuova ondata di indignazione che non lasci le strade delle città a chi verrà mobilitato in difesa della Dui, cavalcando l’odio sociale contro i Borboni, o da chi lo farà in difesa della unità di Spagna, su cui non può che crescere la peggiore destra fascista.
L’esile speranza che ancora c’è di fermare questa corsa verso il precipizio è legata alla capacità di variare gli obiettivi e l’orientamento delle mobilitazioni. O se ne conquista l’egemonia, togliendola alle forze indipendentiste da un lato e alle destre dall’altro, o la sconfitta sarà inevitabile.
Spazio per riuscirci c’è. Si è visto nello sciopero generale, autoconvocato da una rete di organizzazioni sociali, sindacati, imprenditori e collettivi di base, per manifestare contro la repressione del referendum. C’è spazio per una mobilitazione per una Catalogna sovrana che si riconnetta con la Spagna del 15M che ha sempre gridato per la democrazia a Madrid, per cacciare gli autoritari e i corrotti dal palazzo della Moncloa.
Una opportunità per lottare contro la finanza illegale, l’applicazione selvaggia dell’articolo 155, contro i lacchè di banche europee che hanno distrutto la sanità e l’istruzione spingendo la Catalogna in una avventura senza legittimità democratica. Questa è la sfida per Unidos-Podemos e la sua rete di alleanze e per Sí que es pot, il partito di Ada Colau. Così le elezioni catalane potrebbero essere un boomerang per chi le ha imposte.

Repubblica 29.10.17
La paura della balcanizzazione che paralizza l’Unione europea
di Lucio Caracciolo

PERCHÉ la risposta degli Stati dell’Unione europea alla dichiarazione d’indipendenza della Repubblica di Catalogna è unanime, o quasi, nella difesa delle ragioni legali di Madrid? Per la ragione che se ne discutessero nei termini effettivi – uno scontro geopolitico, non una mera disputa giuridica – gli europei si dividerebbero. Come hanno fatto in ogni crisi che si rispetti, specie se di mezzo c’è l’indipendenza o meno di un territorio. Il caso classico, ma certo non unico, è quello jugoslavo, con Austria e Germania, insieme alla Santa Sede, schierate con i secessionisti sloveni e croati, resto del mondo (Francia in testa), almeno inizialmente per la “Jugoslavia unita e democratica”. Fino al caso limite del Kosovo, che alcuni Stati europei, Spagna in testa, rifiutano tuttora di riconoscere, perché in tal caso rischierebbero di legittimare i separatismi interni. Come nel caso catalano. I paradossali risultati di questo accecamento da autocensura geopolitica sono sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.
L’unico a distinguersi, finora, è stato il premier belga Charles Michel, che di separatismi interni ha qualche cognizione. Il quale ha esortato a trattare la questione per quel che è: politica, non solo legale. L’ondeggiante estremismo dei separatisti catalani ha contribuito ad inasprire la contesa, ambiguamente sfidando la costituzione del Regno. Manovra insopportabile per la Spagna. Ma è probabile che se il premier Mariano Rajoy avesse trattato per tempo il caso catalano per quello che realmente è – il rifiuto, sostenuto da una buona metà dei catalani, di restare uniti a uno Stato da cui ci si percepisce maltrattati – ovvero una vitale emergenza politica nazionale, non saremmo arrivati a un tale grado di scontro. Altrimenti non si capisce come mai nel giro di pochi anni un fenomeno radicato eppure piuttosto marginale come il secessionismo catalano abbia potuto assumere dimensioni di massa, specialmente fra i giovani. Fino a unire gruppi di centro-destra e di sinistra, anche estrema, divisi su tutto il resto.
Quando il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, dice che non vuole un’Europa divisa in 95 staterelli – affermazione notevole, in bocca a un lussemburghese – rivela il timore che nelle grandi cancellerie continentali silenzia la politica e scatena il pangiuridicismo: l’effetto domino. Quante Catalogne dormono in Europa e bisogna evitare di svegliare? Scozia, Fiandre, Baviera, magari il Veneto, e chissà quanti altri? Il fervore identitario, emerso nel Brexit inglese ed esploso nell’indipendentismo catalano può compromettere lo status quo continentale? Eppoi, di quale stabilità stiamo parlando, in un continente che nel corso dell’ultima generazione, dal crollo del Muro in poi, ha visto quasi raddoppiare, in pace (divorzio ceco-slovacco) o in guerra (dissoluzione dell’Urss e della Jugoslavia, spartizione di fatto della Moldova e dell’Ucraina), il numero dei suoi Stati?
Stiamo assistendo a una disintegrazione europea che la retorica europeista continua a ignorare, aggrappandosi alla favola del “processo di integrazione” che in realtà, come tutti i processi di cui non si vedono né il fine condiviso (perché non c’è) né la fine (inevitabile in ogni vicenda umana) rischia di rovesciarsi nell’opposto.
Conviene evitare due tentazioni opposte ma convergenti. La prima, corrente nelle cancellerie e negli apparati statali e comunitari, consiste nel mettere la testa sotto la sabbia. Fino al paradosso spagnolo, dove Madrid decide di commissariare una regione autonoma dove la presenza dello Stato è aleatoria, quasi inesistente. Per scelta della Spagna tutta: gli autonomismi, anche se concordati, si sa dove cominciano, non dove finiscono. Più che di commissariamento, si tratta di reconquista. Speriamo non violenta, ma non ci giureremmo.
La seconda sta nell’immaginare un effetto domino che non c’è, per ora. Finendone paralizzati. Determinismo geopolitico per cui da una secessione deve per forza derivare una sequenza di altre, che non sappiamo come affrontare. Con il risultato di autoparalizzarci nella protezione dello status quo, ovvero in una immaginaria pietrificazione legalistica della storia, rinunciando a trattare le rivendicazioni identitarie in sede politica e diplomatica. Anche ricentralizzando poteri talmente dispersi da minacciare l’efficienza delle nostre assai delegittimate liberaldemocrazie.
Juncker ha ragione. La balcanizzazione dell’Europa è inaccettabile. Difficilmente sarebbe pacifica. Discutiamo, senza tabù, di come evitarla. E impegniamoci a farlo in una logica di compromesso. Qui non sono in gioco interpretazioni del diritto costituzionale o, peggio, internazionale – quest’ultimo sempre manipolato o ignorato dagli Stati in base ai loro contingenti interessi. Su questo piano, espulsa la politica, introdotte manette e barricate, si finisce a sparare.
È in gioco l’assetto democratico e pacifico del nostro continente, a cominciare dalla grande democrazia spagnola, che per troppo tempo ha trattato i suoi nazionalismi interni (basco, catalano, in minor misura galiziano) da meri regionalismi. Il problema spagnolo è anche europeo. Chi pensa altrimenti scambia una disputa geopolitica per una causa legale. Di questo errore pagheremmo le conseguenze tutti: catalani, altri spagnoli, altri europei. È possibile che i leader dei maggiori paesi europei se ne rendano conto, prima che sia tardi?

Repubblica 29.10.17
Catalogna, la soluzione federale
di Nadia Urbinati

LA CRISI catalana ha registrato una serie impressionante di mutamenti di passo. Questo sembra dimostrare che gli attori in campo sono ad un tempo assolutamente certi e assolutamente incerti. Fermarsi in tempo sembra una lotta contro il tempo. Anche a causa della poca prudenza dimostrata dai protagonisti. A partire dal governo di Rajoy, che ha usato la mano pesante contro i catalani che si recavano ai seggi per il referendum. Il governo di Madrid si appella all’articolo 155 della Costituzione, che come l’articolo 37 di quella tedesca presiede alla difesa dell’unità federale, e che è applicabile in situazioni estreme, cioè a dire quando una Comunità Autonoma non adempie alle leggi ed attenta gravemente all’interesse generale della Spagna. Ma le forme di intervento sono decise dal governo e questo fa la differenza. Anche il governo catalano ha forzato la mano con una serie di decisioni che vanno verso la secessione; l’ultima il voto (a scrutinio segreto) per la dichiarazione di indipendenza.
Senza presumere di poter giudicare chi ha torto o ragione, un osservatore straniero puó tuttavia sollevare due temi, uno di merito e uno di metodo. Circa il merito, ci si puó chiedere che senso ha alzare nuove frontiere mentre proclamiamo lo Ius soli. L’Italia fa a tutt’oggi fatica ad approvare una legge blanda sul diritto di cittadinanza agli stranieri nati nel paese da genitori non italiani ma regolarmente residenti. In una regione che si fa Stato, questa fatica sarebbe ancora maggiore. Chiedere l’indipendenza per meglio sovrapporre nazione e sovranità rischia di creare uno stato più protettivo della sua indentità, quindi più disposto a escludere. I padri fondatori americani giustificarono il federalismo con l’idea di dar vita ad uno spazio geo-politico abbastanza ampio da evitare esclusioni identitarie; la libertà individuale, pensavano, è meglio protetta in uno spazio largo che in una piccola repubblica. Dunque, perché l’indipendenza invece della federalizzazione?
Questo è il problema che si pongono i catalani contrari alla radicalizzazione indipendentista. Si dirà: il caso catalano puó aprire le porte ad una nuova Unione Europea, federalista per davvero. L’utopia federalista non è facile da fermare. Ma il caso catalano è diverso, poiché non riguarda in prima battuta il federalismo ma nuove frontiere nazionali. Chiede una chiusura. E questo non puó piacere a chi crede nel federalismo come politica di libertà. Infine, la seconda questione, di metodo: il Parlamento catalano ha deciso il voto segreto per decretare l’indipendenza. È curioso che una dichiarazione cosí solenne sia adottata nell’anonimato. Come immaginarsi le indipendenze degli Stati decise con voto segreto? Difficile. Presumibilmente, i parlamentari non sono convinti che l’indipendenza sarà conquistata e quindi desiderano tutelarsi da probabili azioni represessive da parte del governo. Ma questo dimostra quanto la questione sia ingarbugliata: se i parlamentari catalani votano anonimamente perché temono l’azione dell’autorità spagnola è perché presumono un domani ancora spagnolo. A tanta radicalità negli atti formali non corrisponde altrettanta radicalità nelle convinzioni. Gli attori sono dubbiosi, avvertono il senso di una crisi che non sarà una passeggiata. E dunque, perché insistere in tanta radicalità? Perché non scalare marcia e iniziare le trattative per una soluzione federalista?

Repubblica 29.10.17
“Divorziati in patria, la lezione di Praga da non dimenticare”
1993: “Evitammo le tensione e poi ci siamo divisi tutto. persino le forze armate”
di Andrea Tarquini

«SONO passati quasi 25 anni. Ricordo ancora come noi slovacchi divorziammo in pace da Praga e dai cechi: tra élites democratiche, senza referendum, senza aizzare odi reciproci. Nel 2018 festeggeremo insieme i 25 anni del divorzio e i 100 anni della creazione consensuale della Cecoslovacchia, tempo di riflettere». Parla Pavol Demes, uomo- chiave slovacco dei negoziati per la scissione avvenuta nel gennaio 1993 e primo ministro degli Esteri slovacco.
Come riusciste a scegliere insieme?
«Dopo la restaurazione della democrazia nell’89 c’erano molti esempi negativi: Urss, Jugoslavia. Da noi la voglia di dividersi non era mossa da tensioni etniche, religiose, nazionali, di lingua. I cechi volevano più centralismo, noi più autonomia. Per fortuna le due nazioni slave occidentali scelsero nel consenso di unirsi nel 1918 e di dividersi. Primo, non organizzammo alcun referendum. Cominciammo a negoziare sulla ripartizione di poteri, alla fine concludemmo che era meglio dividersi».
E sceglieste il divorzio...
«Sì, tramite il Parlamento federale cecoslovacco che si autosciolse, niente dibattiti radicali di tensioni etniche: meglio fermarci in tempo, ci dicemmo. 10 milioni di cechi, 5 di slovacchi, dividemmo tutto equamente. Proprietà pubbliche, forze armate, amministrazione, bandiere. Persino l’inno nazionale che aveva due strofe in ceco e una in slovacco: ora abbiamo due belli inni nazionali diversi, li applaudiamo insieme chiunque vinca alle Olimpiadi».
Come riusciste a costruire un nuovo Stato?
«Col consenso, e ponendosi entrambi, noi e loro, l’integrazione in Europa e Occidente come priorità strategica. Non fu facile, anche in diplomazia, amministrazione, forze armate, c’erano persino tante coppie miste. Costruimmo due Stati restando amici, non due Stati fondati sull’odio reciproco. A Bratislava decidemmo di costruire il nuovo Stato affidandoci non solo ai politici, ma alla società civile, alle Ngo, alle Chiese, all’Accademia delle scienze, al Paese reale. Non a caso oggi la Slovacchia è il più europeista tra i Paesi di Viségrad (gli altri sono Polonia, Cechia e Ungheria, ndr) ».
Quali priorità per creare il nuovo Stato?
«Priorità numero uno: divenire parte della Ue e dell’Occidente democratico, tornare in Europa, partendo da zero con un divorzio trasparente e democratico, accettando tutte le regole della Ue e del mondo libero, costruendo in corsa insieme hardware e
software istituzionale e legale del nuovo Stato: non secondo tradizioni e mitologie nazionaliste, bensì coinvolgendovi la società civile per crearne la massa critica pro- Ue e pro-Nato, costitutiva della creazione del nuovo Stato».

Il Fatto 29.10.17
Anna Frank è un clandestino
di Furio Colombo

Vorrei avvertire i lettori. Questa non è una dichiarazione in più di indignazione e dolore per l’uso della faccia bambina di Anna Frank come materiale di uno spregevole gioco. Ciò che sto per scrivere riguarda l’Italia, non una offesa crudele e demente. Riguarda la crisi di un Paese travolto da pulsioni oscure e cattive che non sono il fascismo, anche se comprendono il fascismo e lo usano come motore o come occasionale bandiera. Riguarda coloro che stanno mostrando senza esitazione e, anzi, probabilmente con orgoglio, una grave deformazione morale.
È una illusione immaginare un cerchio isolato di ragazzi cattivi e stupidi che usano il volto di Anna Frank per un gioco alla portata di ciò che sanno e che sentono. È una illusione, anche per chi non fosse rozzo e disorientato sulla storia e sulla vita, come l’impresario sportivo Lotito, pensare che ti presenti, chiedi scusa, porti fiori e di questa ragazzata non se ne parla più. I ragazzi delle curve laziali, identici ai giovani e agli uomini di tutte le curve, sono altrettanto ottusi e sperduti, e non sono che una piccola parte di una folla allo sbando. Non ci sono migliori e peggiori. Sono così e basta. Così come? Abbastanza cattivi da trovarsi bene nei pressi del crimine che li protegge, dalla casa all’impiego. Abbastanza da costringere chi rappresenta ancora i partigiani, e chi è discendenza e memoria dei sopravvissuti alle leggi razziste, a trincerarsi in interni che non sono più l’Italia, ma consolati di una civiltà che per il momento ha abbandonato questo Paese. Nel frattempo un allegro sarcasmo razzista abita un po’ dovunque. E se lo trovi in così tanti giornali (detti “ di destra”, ma semplicemente “nazionali” e normalmente xenofobi) vuol dire che coloro che si rivoltano se Anna Frank viene usata come un cadaverino da prendere a calci quando hai voglia di fare uno scherzo, sono pochi. Se confrontate quello che è accaduto con le risposte, a volte volonterose, a volte colorite, più spesso puramente burocratiche, di voci autorevoli e di istituzioni un po’ infastidite, e l’estranea passività di quasi tutti, vi rendete conto che la folla immensa allo sbando, che è in questo momento l’Italia, continua la sua marcia zombie senza incontrare una guida o un ostacolo. Per tante ragioni che sappiamo, la Costituzione è rimasta apparentemente intatta. Ma due pilastri sono stati rimossi anche lasciando uguale la forma. La Repubblica non è più fondata sul lavoro, nessun lavoro. Il lavoro ha sciolto le file o è stato costretto a farlo da un disprezzo e da una malevolenza che circonda in modo ostile ogni protesta di coloro che sono in lotta e tensione contro un ex datore di lavoro, ma vengono spinti a battersi contro il lavoro di altri, mentre le fonti pubbliche e private che generavano lavoro se ne sono andate. La Repubblica non è più fondata sulla solidarietà, evocata, invocata o prescritta in almeno 20 punti chiave della nostra Carta. Dal crollo, tenacemente picconato da due lunghi governi Berlusconi e più o meno deliberatamente abbandonato da una ex sinistra che non voleva farsi trovare fuori moda. E così ti dicono che il lavoro (non l’impresa o l’istituzione) deve fare spazio ad altro lavoro, che spetta ai pensionati provvedere a ciò che manca agli altri pensionati (come se lavoro e pensioni fossero “privilegi” ad personam e non posizioni rigorosamente calcolate in modo matematico, come se le pensioni non fossero i tuoi soldi che l’ente pensionistico ha potuto investire per decenni). E ti spiegano che il diritto acquisito non esiste più perché niente è acquisito in tempi come questi, frantumando non solo la solidarietà fra cittadini (lo spazio libero viene occupato da insofferenza e indifferenza) ma anche fra i cittadini e lo stato “a cui non devi nulla perché ti ha tolto tutto”.
Questa danza macabra non riguarda la ricchezza, che sta altrove, non è inseguita o inquisita da nessuno e non è interessata a regolare nulla perché opera e incassa altrove. Resta il vuoto. E in questo vuoto si espande lo spazio della vendetta. Uno stesso popolo allo sbando vuole il diritto di sparare comunque, se qualcuno entra in casa (eventualmente sparare alla schiena del ladro che fugge). Vuole che i “clandestini” siano respinti in mare o in Libia perché portano malattie che non ci sono e rubano lavoro che nessuno vuole. Ti dicono che, se li lasci entrare, diventano, allo stesso tempo, i nuovi padroni e i nuovi schiavi. E allora perché un popolo allo sbando non dovrebbe cedere all’impulso di vendicarsi su Anna Frank? Anna Frank era ebrea, dunque c’erano delle buone ragioni che evidentemente si sono sentite dire a casa o a scuola. E si sarà sentito dire che, a quei tempi, la legge era salda e sicura e che “loro” le cose che dicevano le facevano, e chi governava usava il pugno di ferro. Vuol dire che allora ti sentivi qualcuno. Ecco che cosa produce il vuoto di un Paese senza cultura, senza morale, senza politica. Anna Frank è il nostro clandestino.

Il Fatto 29.10.17
“Famo sta sceneggiata”
La “sceneggiata” di Lotito e quella dei democratici
di Antonio Padellaro

L’unica cosa positiva in questa vicenda di antisemitismo e fascistume è che il “Diario” di Anna Frank, uno dei libri più venduti al mondo, oltre 30 milioni di copie, è rientrato nelle classifiche italiane. Leggerlo (rileggerlo) farà bene comunque. E forse, chissà, potrebbe anche illuminare la mente obnubilata di qualche ragazzotto in nero, incuriosito da una storia che, gli è stato detto da qualche caporione, non è mai avvenuta.
Resta poi, indelebile, la parola “sceneggiata” che pronunciata, o anche solo pensata, dal presidente della Lazio è offensiva ma tremendamente sincera. Esprime una finzione ma in fondo dice la verità. “Voce dal sen fuggita poi richiamar non vale”, potrebbe chiosare l’italianista Lotito se non fosse un celebrato latinista. E ci spiega quanto labile sia il confine tra il falso e l’autentico nella comunicazione invasiva in cui siamo immersi, come pesci nell’acqua sporca.
Per esempio, mai come adesso la politica non fa che sceneggiare se stessa improvvisando un copione ritagliato sulle necessità del momento, e dunque strutturalmente insincero. Non è una sceneggiata quando i ministri renziani accampano scuse risibili per non partecipare al Cdm che rinomina Ignazio Visco al vertice di Bankitalia? Così quando Matteo Renzi e Paolo Gentiloni poi si abbracciano con trasporto nei consessi del Pd non sceneggiano forse una ferrea unità smentita dai fatti? E che dire degli stessi dirigenti pidini quando esprimono sorpresa e stupore per le dimissioni dal partito del presidente Pietro Grasso? Il cui disagio per lo strappo violento della fiducia imposta dal governo sulla legge elettorale era noto perfino ai commessi di Palazzo Madama? Non staranno pensando anch’essi (quelli del Pd): famo sta sceneggiata?
Certo è impossibile giustificare i fascistelli di curva quando rivendicano il loro diritto a ignorare la storia biascicando idiozie negazioniste. Ma che pensare di certi custodi dei valori repubblicani che di fronte alle offese alla Shoah pensano di lavarsi la coscienza con qualche sceneggiata retorica, tipo la lettura negli stadi di brani di Anna Frank e di Primo Levi accolti dall’indifferenza generale? Quell’ipocrisia così fastidiosamente esibita non finisce per dare ragione agli odiatori della democrazia, ai maestri del “boia chi molla” autorizzati a dire ai loro promettenti allievi: vedete, quelli parlano di cose a cui neppure credono?
E dunque, in questa corsa verso il peggio, davvero il peggiore è il confuso Lotito che almeno sembra ammettere con se stesso che sta per compiere un gesto che non sente?
Quanto alla politica delle finzioni, si può dare torto a Denis Verdini, tanto vilipeso quanto indispensabile a tenere in piedi la maggioranza di quelli perbene, quando scrive a “Repubblica”: “Io potrei finire in un girone infernale, in tutti meno che nella bolgia degli ipocriti”?

Corriere 29.10.17
Il rischio nucleare
Quanto manca all’Ora X
di Franco Venturini

Una guerra tra Stati Uniti e Corea del Nord provocherebbe decine di migliaia se non centinaia di migliaia di morti, comporterebbe il pericolo di un intervento cinese, porterebbe in prima linea i trentamila soldati americani dislocati nella Corea del Sud, potrebbe rendere inevitabile il ricorso ad armi nucleari per la prima volta dopo Hiroshima e Nagasaki e modificherebbe per molto tempo gli equilibri dell’area e i cruciali rapporti tra Washington e Pechino. Per questo, malgrado i test missilistici e atomici di Pyongyang e la «guerra delle parole» tra Kim Jong-un e Donald Trump, un vero conflitto è stato ritenuto a lungo improbabile se non impossibile.
Ma il vento sta cambiando, per il peggio. Esperti qualificati e diplomatici coinvolti nella crisi, ai quali il Corriere ha avuto accesso in diverse capitali, concordano nel ritenere che il punto di non ritorno si stia avvicinando ad una velocità pari a quella dei progressi nord-coreani nella sperimentazione degli ICBM (missili intercontinentali) e nella messa a punto di testate nucleari miniaturizzate. In realtà nessuno vuole la guerra, spiegano i nostri interlocutori, e meno di tutti la vuole Kim Jong-un che conosce bene la debolezza del suo Paese e punta sulla minaccia nucleare soltanto per ottenere uno status capace di proteggerlo da rovesciamenti di regime patrocinati dagli Usa (o dalla Cina).
Ma tra non molto la tecnologia militare prevarrà sulle tattiche. Quando la Corea del Nord sarà effettivamente in grado di colpire con armi nucleari il territorio metropolitano degli Usa (e non soltanto Guam), l’America non potrà tollerare un simile rischio e «dovrà» attaccare le basi sotterranee che nascondono l’arsenale missilistico e atomico di Pyongyang.
Quanto manca a questa Ora X? Pochi mesi, forse meno. E le sanzioni economiche contro Pyongyang non saranno in grado di fermare l’orologio. È per questo che politici, esperti e diplomatici sono impegnati in una corsa contro il tempo che è diventata una «corsa contro la guerra» . Il tentativo, a buon punto almeno sulla carta, è quello di fissare i parametri di un possibile accordo negoziale di compromesso tra Washington e Pyongyang utilizzando i buoni uffici di altri Paesi e, forse, anche un dialogo diretto ancora avvolto nel mistero.
Il caso Tillerson
Il Segretario di Stato statunitense è in visita a Pechino, il 30 settembre scorso. Ai giornalisti, nella sorpresa generale, confida che gli Usa stanno sperimentando «canali di comunicazione multipli e diretti con Pyongyang». Canali che non passano dalla Cina. Il giorno dopo, il presidente Trump mette in rete un tweet nel quale elogia le buone intenzioni di Tillerson ma gli dice anche che sta perdendo tempo. L’ultimo capitolo è del 15 ottobre scorso: Rex Tillerson, scrive una agenzia internazionale, dichiara che Trump non crede che il dialogo diplomatico con Pyongyang sia tempo perso. Caos all’interno dell’Amministrazione, oppure contatti per ora inconfessabili? La seconda ipotesi è la più verosimile.
Il formato negoziale
Chi ci sta lavorando ritiene che un negoziato anti-guerra dovrebbe prendere la forma di una conferenza regionale che poi regionale non sarebbe. Corea del Nord, Corea del Sud, Giappone e Cina. Ma ovviamente anche gli Stati Uniti. E la Russia, che pur avendo soltanto un piccolo confine con la Corea del Nord vuole avere un ruolo nella crisi per diventare influente in Asia dopo esserlo diventata in Medio Oriente. E ancora l’Europa, che potrebbe aver facilitato i canali di cui parla Tillerson. Dove, non importa (forse in qualche collaudata sede europea, come Ginevra o Vienna). Purché si cominci in tempo per congelare eventuali propositi bellici.
Il compromesso
Naturalmente è la parte più delicata del progetto, anche perché nessuna delle due parti in conflitto (Usa e Corea del Nord) accetterebbe di perdere la faccia. Bisogna partire, dice chi se ne occupa, dalle esigenze minime e indispensabili. Per gli Usa, si tratta per prima cosa di escludere che i vettori nord-coreani possano raggiungere il territorio metropolitano. Ma anche Guam andrebbe protetta in un nuovo patto di sicurezza regionale, e anche la Corea del Sud, e il Giappone. Per Kim Jong-un la chiave è una garanzia credibile che metta al riparo se stesso e il suo regime da colpi bassi. E Pyongyang vuole incrementare la sua importanza regionale, così come vuole proseguire (perché questo accade già) nel miglioramento dell’economia. La Cina vuole sicurezza e stabilità, la Russia vuole esserci. Lo scambio, allora, potrebbe prendere questa forma. La Corea del Nord accetta di fermare la ricerca e i test degli ICBM, e di distruggere quelli esistenti. Gli Usa non sarebbero più raggiungibili. Pyongyang conserva però un arsenale nucleare regionale che già possiede e che ha già inciso sugli equilibri dell’area. Inoltre, a tutela di Guam, dei Paesi alleati degli Usa, ma anche a garanzia contro le paure di Kim Jong-un, viene concluso un trattato di sicurezza regionale che esclude l’uso della forza e i cambiamenti di regime dall’esterno. E cancella le sanzioni. Garanti anche militari del rispetto del patto sono Cina e Russia, oppure soltanto la Cina, oppure ancora Cina e Usa. La riunificazione coreana sarà incoraggiata. La presenza americana nel Sud sarà ridotta ma non eliminata. Il Giappone non disporrà di armi nucleari.
Incognite che restano
Ammesso che si arrivi a tanto, dovranno essere risolte alcune questioni «accessorie» ma fondamentali. Prima fra tutte quella delle verifiche. Come potranno gli Usa verificare che la minaccia degli ICBM non esista più? Forse dovrà accontentarsi delle ispezioni cinesi se Pyongyang le accetterà, oppure di quelle dell’Onu. Qualcuno a Washington non sarà contento. Ma in questo arduo cammino negoziale, che potrebbe anche non riuscire ad avanzare, ogni passo va paragonato all’ormai incombente pericolo di una guerra di certo catastrofica ma ancora oggi imprevedibile nella reale portata delle sue conseguenze umane e strategiche. Ora il rullo di tamburi comincia ad avere una alternativa di pace, e la novità non è di poco conto.

il manifesto 29.10.17
Fortini: «I poeti del Novecento» di un dialettico che credeva nella forma
Il centenario del poeta-critico. Dai Vociani a Saba, da Montale a Giudici: la monografia-antologia di Franco Fortini uscita nel ’77 (ora riproposta da Donzelli) campionava un secolo decisivo, mettendo a punto una posizione refrattaria alle mode
di Massimo Raffaeli

Quando nel marzo del 1977, in una collana di Laterza diretta da Carlo Muscetta, pubblica la monografia-antologia sul Novecento italiano Franco Fortini non è ancora nel senso comune Franco Fortini e cioè uno dei maggiori poeti del secolo. Ha sessant’anni e alle spalle raccolte cruciali (da Foglio di via, ’46, a Questo muro, ’73), è entrato negli «Oscar» Mondadori con le Poesie scelte (’73) a cura di un giovane fuoriclasse della critica, Pier Vincenzo Mengaldo, eppure la sua ricezione è sfuocata o oscurata da una immagine più aggettante, quella dell’ex redattore di «Politecnico» e poi collaboratore di «Quaderni Rossi» e «Quaderni Piacentini», del saggista di Dieci inverni (’57) e Verifica dei poteri (’65), del traduttore di Brecht ed Eluard, cattiva coscienza itinerante della sinistra italiana o, come pure fu detto, sua implacabile ombra di Banquo.
Soltanto negli anni successivi, fra l’eclissi del decennio antagonista e il principio di una nuova glaciazione politica e culturale, alla sua voce sarebbero stati riconosciuti i tratti della necessità e di una compiuta originalità.
Dunque è probabile che la stesura de I poeti del Novecento – che ora tornano (Donzelli «Saggi», pp. 294, € 28,00) a cura di uno studioso benemerito quale Donatello Santarone e l’annessa recensione che lo stesso Mengaldo pubblicò su «Nuovi Argomenti» nel ’79, – abbia avuto per lui tanto il valore di una complessiva ricapitolazione quanto della messa a punto di una posizione per proverbio refrattaria e minoritaria.
Rigetto delle tendenze
Intanto già nel titolo, quasi atono nella sua semplicità, c’è il rigetto di linee e tendenze che manu militari, fra Grande Stile e Avanguardia, si erano divise il secolo fino alla estrema unzione di Edoardo Sanguineti (Poesia italiana del Novecento, ’69) e in presenza di rare eccezioni (ad esempio Poesie e realtà ’45-’75, a firma di Giancarlo Majorino, che esce da Savelli solo nel settembre del ’77 ma di cui Fortini deve avere avuto senz’altro precedente notizia).
Scandito in cinque capitoli, per scorci storici e un’ampia campionatura, il secolo di Fortini ha forma di costellazione dove pulsano alcune stelle fisse: all’origine i «Vociani» e specialmente Rebora (oltre le ipoteche di Pascoli e d’Annunzio o, in minore, di Gozzano, la cui invadenza è limitata nella misura di vistosi antefatti); Umberto Saba, la cui centralità evade la consueta diade di vecchio/nuovo e piuttosto si ascrive, nei modi di una perpetua lacerazione/ricomposizione, al bisogno di recuperare una totalità umana che si sa perduta; Ungaretti e gli ermetici, attivi tra il fascismo e la guerra mondiale, qui letti come testimoni di una vera e propria età dell’afasia; i poeti definiti dell’esistenzialismo, a partire da Montale la cui opera (massime tra Le occasioni e La Bufera) si staglia, nel connubio di transitività/intransitività, come il massimo esempio ora di resistenza ora di omeopatia al Male secolare e perciò al male indotto da un ordine economico-politico che la sua poesia riceve come tabù e che infatti non può nominare se non nei modi stravolti di una simbologia infera: il contraltare, colui che invoca una parola umana non più dimidiata, si chiama per Fortini, e va da sé, Giacomo Noventa; infine le figure del passato prossimo o del presente, da Pasolini a Zanzotto , da Giudici a Pagliarani, su cui incombono i percorsi dei suoi più grandi coetanei (Luzi e, su tutti, Vittorio Sereni), in un capitolo il cui incunabolo sta nel saggio Le poesie italiane di questi anni uscito in «Menabò» nel ’60.
Il secolo poetico poligenetico
Santarone, nel suo scritto in postfazione, rende esplicita la mozione di Fortini, che se da un lato rifiuta la metafisica dell’assolutamente moderno per cui il «dopo» sovrasta sempre il «prima» (vedi il caso eloquente di Saba) dall’altro è consapevole della natura poligenetica e policentrica del secolo poetico, né oggi può apparire un caso che, uscita per i «Meridiani» nel novembre del ’78 e tra i suoi nomi primi l’autore di Questo muro, la grande antologia di Mengaldo (il cui ventennale rapporto con Fortini è ancora tutto da studiare) si intitolasse a sua volta Poeti italiani del Novecento, nel comune diniego delle «poetiche» più o meno secolarizzate o militarizzate che non sapessero tuttavia tradursi in «poesie».
Scrive Mengaldo nella recensione del ’79: «Non si tratta solo di deferenza, in Fortini, a un bisogno di pluralismo culturale, ma anche di consapevolezza della dialettica e tensione fra programmi e realizzazioni. (…) Fortini sa bene che ai programmi letterari, quale che sia il loro contenuto, magari eversivo, inerisce inevitabilmente qualcosa di affermativo dell’ordine esistente».
La totalità dell’umano
Quanto preme a Fortini, ed è all’origine della sua annosa sottovalutazione (lo si tacciò di petulante ideologo in coabitazione con un inveterato classicista), è la capacità di inverare una forma o meglio di testimoniare in una forma, per allegoria o profezia, la totalità dell’umano. Fosse anche per esprimere, nella coscienza della parzialità, la sua mancanza. È questa la lezione che gli viene dalle Scritture, da una lunga meditazione del marxismo, dai maestri più prossimi, Lukács prima ancora dei Francofortesi, con cui dialoga, a proposito di poesia, nel libro baricentrico della sua saggistica, Verifica dei poteri, adesso riproposto con una appassionata prefazione di Alberto Rollo (Il Saggiatore «La Cultura», pp. 360, € 24,00).
Vi sono contenuti alcuni testi celeberrimi, da «Astuti come colombe» a «Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo», le pagine su Pasternak, Proust, Kafka, Brecht, ma è sintomatico come ancora nel ’69, introducendone la seconda edizione, titolo La poesia ‘regressiva’ e il rifiuto della letteratura, sentisse l’esigenza di concentrarsi sulla nozione di poesia e sul concetto di forma.
Parlava allora a un pubblico fortemente ideologizzato, ai duri e puri della «pratica» rivoluzionaria o sedicente, a quanti, soprattutto giovani, ritenevano che tra la letteratura e la lotta di classe potessero soltanto intercorrere rapporti di evasione e/o di mistificazione. Parlava a tutti costoro ma parlava intanto a sé medesimo mentre veniva coniando l’immagine dell’uso formale della vita, vale a dire della poesia come gesto di riconciliazione spettrale tra vivi e morti, tra parti atrofiche e vive, tra mai-più e non-ancora, fra coscienza della parzialità ed esigenza di totalità nell’essere al mondo.
Insomma sentiva la poesia come anticipazione o allegoria o (questa è proprio la parola-chiave che gli viene da Dante via Auerbach) come figura del comunismo. Scrive a un certo punto, in maniera persino accorata: «Quando parlo di uso formale della vita intendo la possibilità di dare, più che un ordine, una intenzione alla propria esistenza; è l’intenzione a riordinare il passato e il presente. Tale proposta ha avuto nella storia dell’Occidente greco-cristiano e poi in quella protestante-borghese, le caratteristiche di un dover-essere, di tipo – da due secoli almeno – idealistico. Ma tutte le formulazioni che rifiutavano le etiche coscienziali, la salvazione cristiana o l’universalismo kantiano, anche proponevano la tramutazione di tutti i valori, finivano pur con un savoir vivre, con una proposta di vita. Quella comunista – quando parla del libero sviluppo di ognuno e di tutti – non fa eccezione».
Tutto questo si riassume in emblema nel verso che suggella, in Composita solvantur (’94), la parabola poetica di Franco Fortini: Proteggete le nostre verità.

Il Fatto 29.10.17
Il leader decaduto. “Sarà opposizione solo democratica”
Uomo solo senza comando
di Elena Marisol Brandolini

In questo momento in Catalogna si vive un po’ alla carta, nel senso che ciascuno decide, sulla base delle proprie preferenze politiche e ideali, in quale dimensione statuale collocarsi. Da quando il Parlamento catalano ha proclamato la Repubblica venerdì nel primo pomeriggio e successivamente sono stati pubblicati nel Boletín Oficial del Estado i decreti di applicazione dell’articolo 155 con la destituzione del governo della Generalitat, lo scioglimento del Parlamento e la convocazione di prossime elezioni, si vive in due realtà parallele, tra chi è convinto di trovarsi in uno Stato repubblicano indipendente e chi nella Comunità autonoma di origine costituzionale sotto commissariamento. L’unica cosa più o meno certa è che, per alcune ore, tra le 15 e 27 di venerdì in cui la presidente del Parlamento Forcadell dichiarava l’esito del voto sull’indipendenza e l’annuncio di Rajoy attorno alle 20 dei provvedimenti assunti dal suo governo, la Catalogna, che al mattino s’era svegliata nel regno di Spagna, sfoggiava dopo una repubblica nuova di zecca.
Questo effetto binario veniva ieri acuito dallo svolgersi di eventi simmetrici e non comunicanti, come la dichiarazione istituzionale di Puigdemont dalla sede della delegazione del govern di Girona, o le destituzioni dei direttori generali di alcuni dipartimenti e del capo dei Mossos d’Esquadra per effetto dell’applicazione del 155.
La dichiarazione trasmessa da TV3 in forma istituzionale, con sotto la qualifica di President de la Generalitat che ha fatto infuriare la Moncloa, è servita a Puigdemont per mostrare il suo rifiuto a riconoscersi destituito “perché sono i parlamenti che eleggono i presidenti”. Un discorso breve in cui ha chiamato alla “opposizione democratica al 155”, facendo appello a “continuare a lavorare per un paese libero” nella pace e nel civismo. Da domani Puigdemont potrebbe incorrere nell’arresto con l’accusa di “ribellione”.
Il governo catalano è stato riunito venerdì fino a sera, in attesa di conoscere le conseguenze concrete del 155 sull’amministrazione. Il messaggio diffuso più tardi era che il lunedì successivo ciascuno sarebbe tornato con normalità al proprio posto di lavoro. Tanto che il governo spagnolo ha già avvertito che i consiglieri che non accetteranno la loro destituzione, insistendo per continuare a esercitarla, incorreranno nel delitto di usurpazione di funzioni, con pene da 1 a 3 anni di prigione.
Sono oltre 140 gli alti funzionari e cariche pubbliche cessati nelle loro funzioni. Anche il maggiore dei Mossos d’Esquadra Josep Lluís Trapero che Rajoy non aveva nominato nella sua comunicazione, destituito in un secondo momento dal ministro degli Interni Zoido. La ragione ufficiale è la sua imputazione per delitto di sedizione per la manifestazione del 20 settembre davanti al dipartimento di Economia. Gli succede il suo secondo e uomo di sua fiducia, Ferrán Lopez.
Comincia intanto la riflessione tra gli indipendentisti e più in generale tra i sovranisti sull’opportunità o meno di presentarsi alle elezioni del 21 dicembre.
Oggi ci sarà una nuova manifestazione a Barcellona convocata da Societat Civil Catalana in difesa dell’unità della Spagna.

La Stampa 29.10.17
Martin Lutero
La purezza della fede in un mondo corrotto
Cinquecento anni fa il monaco tedesco negò l’autorità della Chiesa ma la sua Riforma si disperse nel settarismo
di Massimo Firpo

Non è storicamente accertato che Lutero, alla vigilia di Ognissanti del 1517, abbia affisso alla porta della chiesa del castello di Wittenberg le celebri tesi con cui condannava la vendita delle indulgenze.

Un testo in latino con cui sollecitava una discussione tra dotti teologi sui gravi errori impliciti nel credere che con un esborso in denaro si potesse cancellare non solo la pena, ma anche la colpa dei peccati, comprare quindi il perdono divino e addirittura far uscire dal purgatorio le anime dei propri cari. Una dottrina (e ancor più una prassi) aberrante, che trasformava la fede cristiana in un mercimonio e contrastava radicalmente con gli esiti cui era giunta la profonda crisi religiosa che aveva tormentato Lutero negli anni precedenti in cui, lungi dal placare le sue inquietudini religiose, l’ascesi monastica le aveva portate al parossismo.
Per quanto si sforzasse di essere un buon frate, infatti, il timore di dover essere infine giudicato dalla giustizia di Dio lo lasciava sgomento, nella consapevolezza che nulla di ciò che avrebbe potuto fare lo avrebbe reso degno di essere assolto da quella giustizia. Fu l’assidua meditazione delle lettere paoline che gli fece infine capire che la giustizia di cui parla la Bibbia non è quella con cui Dio onnipotente giudica gli uomini, contaminati dal peccato originale e quindi irrimediabilmente peccatori, ma quella che gratuitamente egli dona, «imputa» loro, purché abbiano fede nell’esclusivo valore salvifico del sacrificio della croce, credano cioè che solo la fede nella redenzione di Cristo possa renderli giusti agli occhi dell’Onnipotente.
Sola fides, soltanto la fede può salvare, non le opere, non i presunti e risibili meriti degli uomini, che non possono esistere davanti a Dio. Si comprende come la pratica delle indulgenze gli apparisse non solo scandalosa, ma anche tale da insinuare errori gravissimi tra i fedeli. Di qui la sua clamorosa protesta, che non sarebbe diventata una rivoluzione se i progressi della stampa non avessero consentito di diffondere in tutta la Germania migliaia di copie di quelle tesi incendiarie, subito tradotte in tedesco.
Un successo impressionante, che rivela il discredito in cui la Chiesa romana era sprofondata con le pratiche simoniache della curia e gli infiniti abusi, l’abissale ignoranza, l’endemica corruzione del clero e l’assenteismo pastorale di vescovi e parroci. La difesa di quelle tesi, e più in generale dei presupposti teologici su cui si basavano avrebbero condotto Lutero ad approfondire la sua riflessione teologica e a rendere sempre più netta la sua frattura con il papato, in cui finì con l’identificare e denunciare l’Anticristo.
Nel 1520 la pubblicazione dei testi più celebri di Lutero, La libertà del cristiano, La cattività babilonese della Chiesa e A
lla nobiltà cristiana di nazione tedesca, ebbe come conseguenza la sua condanna con la bolla Exsurge Domine, che egli diede alle fiamme sulla piazza di Wittenberg insieme con il codice di diritto canonico. L’anno dopo, convocato alla dieta di Worms, si rifiutò di ritrattare le sue dottrine, pronunciando al cospetto di Carlo V imperatore le celebri parole: «Qui sto io. Non posso fare diversamente». Messo al bando e scomunicato, dovette sparire dalla circolazione, nascosto dall’elettore di Sassonia in un castello, dove avviò la sua traduzione della Bibbia. Sarebbe morto nel 1546, a sessantaquattro anni, dopo aver scritto centinaia di lettere, opuscoli, trattati per difendere la sua dottrina e costruire una nuova Chiesa, dandone il merito solo alla parola di Dio cui egli si era limitato a dare voce: «Dio ha fatto tutto questo, mentre io bevevo la birra a Wittenberg», affermerà poco prima di morire.
Insieme con lui e dopo di lui sarebbero venuti altri riformatori, Zwingli a Zurigo e Calvino a Ginevra, gli anabattisti, le sette radicali di vario orientamento, gli antitrinitari, i sociniani, i puritani, i quaccheri, i metodisti ecc. Lutero aveva pensato di annunciare la vera fede basata solo sull’autentica parola di Dio (sola Scriptura), ma il fronte protestante non tardò a dividersi e disgregarsi. Fu lui a rompere per primo la millenaria unità della christianitas medievale e a dar vita a un cristianesimo plurale. La stessa Chiesa romana, sia pure con grande ritardo, avrebbe tratto nuove energie proprio dalla reazione contro la Riforma. Ne sarebbe scaturito un «secolo di ferro» di dispute, di crudeli lotte intestine, di guerre sanguinose, di atroci persecuzioni, incapaci tuttavia di debellare quella pluralità di sette e confessioni. Sia pure molto faticosamente, la tolleranza avrebbe finito con l’imporsi, e ciò proprio grazie alla solitaria e coraggiosa protesta di Lutero che mai avrebbe voluto l’affermazione di quel cristianesimo plurale, diventato infine pluralista.
Ennesima conferma, se mai ce ne fosse bisogno, di quell’eterogenesi dei fini che sembra talora configurarsi come una legge inesorabile della storia.

La Stampa 29.10.17
La forza delle idee protestanti moltiplicata dal potere della stampa
di Mario Baudino

I pezzi più preziosi, oltre che fortemente simbolici, sono un ritratto di Martin Lutero a opera di Cranach il vecchio, oltre alle xilografie di Dürer: quella della Grande passione e le 15 dell’Apocalisse, provenienti in entrambi i casi dalle raccolte della Biblioteca Nazionale torinese. Ma la mostra Lutero, la Riforma, l’Italia che si apre martedì proprio alla Nazionale (fino al 30 novembre) rappresenta, al di là del valore artistico o museale dei singoli elementi, uno spaccato straordinario della Riforma e della sua rapida penetrazione a mezzo stampa al di qua delle Alpi. Tra opere originali - soprattutto libri -, riproduzioni e ricerche iconografiche racconta una storia che ancora oggi è largamente in ombra.
Senza l’invenzione di Gutenberg forse non ci sarebbe stata riforma, come osserva Massimo Firpo in questa pagina, ma solo uno dei tanti episodi di «eresia» e ribellione. E senza l’impetuoso sviluppo dell’industria editoriale, con centro Venezia, forse non ci sarebbero stati i riformatori italiani; in ogni caso non i magnifici libri qui esposti, una formidabile collezione quasi tutta proveniente da un privato torinese, oltre a tre rare edizioni del Savonarola fornite dalla libreria antiquaria Pregliasco. Il rapporto tra l’esagitato frate fiorentino e la riforma protestante pare remoto, ma le edizioni dei suoi sermoni fanno parte di un settore dedicato al contesto del sedicesimo secolo nel quale, tra profeti, eroi, apocalittici e invasati, si creò un clima culturale che preparava Lutero.
Le vere scoperte per il non specialista saranno però i volumi, altrettanto rari e di pregio, di pensatori come Pietro Martire Vermigli o del nobile canavesano Celio Secondo Curione che, come spiega in una delle ricchissime schede il professor Paolo Salvetto, «già nel 1523 leggeva i libri di Lutero, Melantone e Zwingli», cioè dei massimi pensatori della Riforma, e fu come molti altri - per esempio Francesco Negri, di Bassano del Grappa - costretto all’esilio. Questi riformati italiani si ritrovarono però tacciati a loro volta di eresia, anche nei paesi protestanti; nessun rifugio, nemmeno la lontana Polonia, meta ultimo di Bernardino Ochino e in generale del movimento italiano che contestava il dogma della Trinità, era davvero sicuro. E attraverso le loro storie travagliate, si intuisce il primo cammino dell’idea di tolleranza.
C’è poi una parte della mostra dedicata alla pubblicistica più popolare, con le immagini ferocemente satiriche verso il Papa di Roma, e soprattutto agli artisti: non solo Michelangelo, di cui è nota l’attenzione alle dottrine eterodosse dello spagnolo Juan De Valdés, e che veniva apertamente accusato per i suoi nudi di «porcherie luterane»; ma anche Lorenzo Lotto. Lo spiegano bene le immagini del San Girolamo penitente che, invece di battersi il petto con una pietra, come nell’iconografia ufficiale, la abbandona a terra concentrandosi sul crocifisso: perché, come predicava Lutero, è la fede e non le opere o il pentimento ad aprire le porte del cielo.

La Stampa 29.10.17
Di Vico nella selva della disuguaglianza
di Rita Italiano

L’agile saggio di Dario Di Vico Nel Paese dei disuguali (Egea, 168 pp., € 16) traccia una mappa delle inquietudini della nostra contemporaneità aggrovigliata. Di Vico, giornalista del Corriere della Sera, insegue la disuguaglianza in un viaggio nella contraddizione. L’Italia dove un bambino su quattro vive in povertà, l’ascensore sociale è fermo da un pezzo, la sinistra è «anzianista», il localismo bancario è alla fine, il Mezzogiorno ospita un’ industria che funziona ma perde «figli e talenti». Per dirla con Xi Jinping: «l’economia globale è il grande oceano da cui non si può sfuggire». Tutto viene letto in uno scenario vasto: ceto medio occidentale infragilito; classe operaia parcellizzata («aristocratici del lavoro 4.0», «fordisti» e «proletariato dei servizi»), in crisi identitaria prima che rappresentativa, vulnerabile alle sirene populiste (da Madame Le Pen a Beppe Grillo) ; gig e sharing economy; ossessione salutista e bulimia; milanesi occupate in settori chiave e contadine romene che lavorano nelle campagne intorno a Vittoria subendo abusi e sfruttamento; fattorini Deliveroo che, una pedalata dopo l’altra, mettono in forse molte acquisizioni del diritto del lavoro. Una giungla dell’ oggi nella quale il lettore viene guidato con mano sicura.

La Stampa 29.10.17
Carlo Rubbia
“La rivoluzione russa? Per la scienza non fu un progresso”
“I totalitarismi non hanno aiutato la ricerca. L’uomo si emancipa attraverso la conoscenza”
intervista di Francesca Paci

Convincere Carlo Rubbia a parlare di scienza e politica a cento anni dalla rivoluzione d’ottobre è impresa da giurati di Oslo. Maniche di camicia, calzini rossi come le bretelle, sguardo divertito, lo scienziato premio Nobel per la Fisica nonché senatore a vita ci accoglie nello studio a Palazzo Giustiniani dov’è appena arrivato dal suo Cern di Ginevra. È nato nel 1934 e ha visto passare dottori Stranamore di varia caratura e arringatori di piazze più o meno democratiche. Quello che lo interessa però è aver conosciuto la pars costruens del secolo breve, Enrico Fermi, Niels Bohr, Richard Feynman.
La rivoluzione d’ottobre è poco più anziana di lei. La sentiva nell’aria?
«Ero un bambino durante il II conflitto mondiale, la Russia era un mondo sconosciuto, Hitler urlava alla radio, il centro della politica era l’Europa. Poi ho studiato e alla fine degli Anni 50 mi muovevo in un mondo diverso dal passato. L’Europa doveva riprendersi dalle macerie di una guerra da 80 milioni di vittime, tra cui venti milioni di russi».
Erano anni di ricostruzione ma anche d’impegno. Non ha mai avvicinato la politica?
«M’interessavano la scienza, gli sviluppi futuri, la ricerca. Ero saturato dalle scoperte scientifiche. Seguivo quanto accadeva nel mondo, certo. Ma un conto è la conoscenza, un altro la partecipazione».
C’era la guerra fredda, anche la galassia scientifica era schierata. Nel 1969 i fisici del Pci guidati da Marcello Cini denunciarono come imperialista lo sbarco americano sulla luna. Lei che posizione aveva?
«Cini era professore a Roma e faceva parte di un gruppo con certe idee ma non erano la maggioranza. Mi chiedo sempre perché la comunità scientifica debba uscire dal suo ambito e spingersi altrove. Andare sulla Luna fu un’avventura scientifica e tecnologica importante. Da questo punto di vista la guerra fredda fu perfino utile alla scienza, fu uno stimolo alla competizione. Oggi, rispetto alle generazioni precedenti, non abbiamo più il desiderio di scoprire cosa ci sia oltre lo sguardo, la luna, Marte. Chi ne parla? La ricerca spaziale contemporanea è indirizzata ai satelliti, alle telecomunicazioni».
La guerra fredda fu positiva per la scienza?
«La competizione tra il sistema americano e quello sovietico ha permesso un’accelerazione dei programmi scientifici e tecnologici che ha funzionato da alternativa al confronto militare».
La scienza può essere neutra rispetto alla politica, l’etica, la società?
«La scienza non funziona così, cerca i segnali della natura e li guarda da lontano, procede tra errori e diverse alternative. La ricerca scientifica comporta tanti sbagli».
C’erano artisti a sostenere la rivoluzione bolscevica, c’erano scienziati. Quelli di loro che si sono poi trovati sotto Stalin non dovevano porsi domande?
«Sono elementi non rappresentativi della scienza, quelli venuti fuori con Stalin non erano scienziati. I dittatori non scelgono le menti migliori. Stalin, come Hitler, ha convissuto con tante attività tra cui la scienza. Adesso, lo so, mi parlerà delle armi atomiche: ma il nucleare è una piccola cosa rispetto a tutte le altre scoperte scientifiche dell’epoca, a partire dal Dna. Anche il pur importante sbarco sulla luna è una goccia nell’oceano emerso in quel periodo, a restare è ciò che cambia il mondo: lo studio del Dna cura le malattie e resta».
Scienza e democrazia camminano insieme o possono procedere separatamente?
«I totalitarismi rappresentano tanti problemi ma non vedo connessioni tra totalitarismi e scoperte. Certo ci sono ancora contesti non democratici, molti scienziati affrontano problemi politici e trovano difficoltà nei loro studi. Oggi però si procede tutti insieme e in contemporanea in tanti Paesi diversi, la dittatura in un singolo Paese non blocca il progresso. Piuttosto succede che la mancanza di libertà sposti le energie altrove, quando l’America era più aperta dell’Urss ha funzionato da polo attrattivo e le scienze americane sono risultate di maggior efficacia e successo. Ma anche questo è cambiato, in Russia oggi c’è più stabilità e democrazia».
Qual è il marchio del ’900, il proletariato di Lenin, il totalitarismo, la Guerra Fredda?
«Alla mia nascita sulla terra c’era un terzo della gente di oggi. Se il mondo, dall’origine dei tempi, ha visto tra i 50 e i 100 miliardi di persone nel solo ’900 siamo arrivati a 8 miliardi, un decimo del totale della storia dell’uomo. Non significa che meno persone facessero meno bene, ma è indicativo per il futuro. Quando un bambino del 1917 avrà 80 anni non avrà assistito all’espansione demografica a cui ho assistito io, siamo già troppi, non potremo continuare a moltiplicarci. Il ’900 è stato il secolo in cui la mia generazione, che grazie alla scienza e alla tecnologia ha imparato a morire meno e vivere meglio, ha avuto la libertà di avanzare e usare le risorse».
Cosa resta dell’utopia del 1917 e del sogno di emancipare l’uomo con la politica?
«Resta la Storia. L’uomo si emancipa con la scienza, la tecnologia e la conoscenza».

La Stampa 29.10.17
Achim Borchardt-Hume  responsabile della Tate Modern di Londra
“Picasso, un genio che non smetteva mai di cercare”
Responsabile Mostre alla Tate Modern di Londra
intervista di Alain Elkann

Incontro Achim Borchardt-Hume alla Tate Modern di Londra, dove ricopre l’incarico di Responsabile delle mostre e dei programmi. E’ l’anniversario della nascita di Pablo Picasso, il 25 ottobre 1881. Achim è il curatore di The
EY exhibition: Picasso 1932 - Love, fame, tragedy in cartellone alla Tate Modern dall’8 marzo al 9 settembre 2018. «Non è una retrospettiva - spiega - ma un modo per gettare uno sguardo più ravvicinato all’opera di Picasso».
Ma non ce ne sono già tante di mostre dedicate a Picasso nel mondo?
«Molte hanno una “e” nel titolo. Come “Picasso e il Mediterraneo”, Picasso... e qualcosa. Viene scelta una categoria attraverso cui inquadrarlo».
Perché il 1932 è stato un anno così produttivo per Picasso?
«E’ stato un momento in cui si è trovato ad affrontare problemi molto comuni. Nel 1931 aveva compiuto 50 anni. Per la maggior parte degli uomini è un passaggio cruciale, un momento per chiedersi a che punto sono arrivati e dove vogliono andare. Era molto famoso, a metà della carriera, ma i critici dibattevano se fosse ormai da relegare nel passato o se avesse ancora qualcosa da dire. Era ricco, aveva successo, ma aveva perso il contatto con i suoi amici artisti che non potevano permettersi il suo stile di vita. E tutto questo in un momento in cui il mondo sprofondava nella Grande Depressione, la crisi del ’29, con il mercato dell’arte al collasso, ovunque i segni di un crescente nazionalismo e l’Europa sull’orlo del disastro».
Erano questi i motivi della prima importante retrospettiva dedicata a lui?
«Picasso si interroga su molti temi: cosa significa essere un artista. Cosa significa essere un uomo di mezza età e creare opere davvero nuove e significative? Come collocarsi rispetto alle frange più rivoluzionarie del momento, come il surrealismo? Come confrontarsi con Matisse, un altro gigante che aveva avuto la sua retrospettiva nel 1931? Lo fa decidendo di curare personalmente l’esposizione, al contrario di Matisse che aveva lasciato ogni decisione ai suoi intermediari».
E la sua vita personale?
«In quel momento aveva due relazioni, una rispettabile vita familiare con la moglie Olga Khokhlova, che dalla fine degli Anni 10 e per gran parte degli Anni 20 fu la sua musa, ma era legato anche a una donna di 28 anni più giovane, Marie-Thérèse Walter. E questo gli ispira il bisogno, l’urgenza di reinventarsi, di ricominciare da capo».
E come racconta quell’anno cruciale?
«All’inizio è in un momento molto egocentrico, tutto preso dalla sua famiglia, ma anche dalla relazione con Marie-Thérèse Walter, e molto coinvolto nella realizzazione dei capolavori che poi avrebbero fatto parte della retrospettiva in programma per l’estate. Poi, una volta aperta la retrospettiva, diventa più sperimentale. Il suo lavoro cambia in modo evidente, acquista un tono e un’atmosfera più cupi e alla fine dell’anno, direi, comincia a trapelare il grande quadro del mondo».
Cosa c’è di nuovo nel 1932?
«L’erotismo e la sensualità. I suoi dipinti diventano molto più sensuali, con dei colori e una fluidità senza precedenti; è in atto una vera lotta per iniettare nuova vita nei quadri».
Perché Picasso vuole avere il totale controllo della retrospettiva?
«Non vuole che la sua opera venga etichettata: cubismo, periodo blu, periodo rosa, stile classico, surrealista. Mescola tutto, toglie ogni informazione sulle date. Dice: tutto questo sono io, adesso, non mi relegherete nel passato, sono un artista contemporaneo. Ne scaturisce un appassionato dibattito: lo psicanalista Carl Jung sostiene che con ogni evidenza Picasso soffre di problemi mentali e mostra sintomi simili a quelli dei suoi pazienti. Un’osservazione particolarmente sinistra se si pensa che solo un anno dopo, nel 1933, l’Arte degenerata, così la definirono i nazisti, divenne in Germania un assioma politico. Per contro un artista come Paul Klee disse che Picasso era il più grande sulla piazza, senza rivali».
Secondo lei cosa fa di Picasso un artista così speciale?
«Sapeva assumersi dei rischi, in modo quasi unico. Quando ha conquistato un ruolo ecco che fa qualcosa di completamente nuovo. E lo fa più volte. Nel 1932 raggiunge per la prima volta il momento in cui, grazie a quella mostra retrospettiva, ha davvero la vita di fronte. Ne parla. Ed è come se guardasse alla sua vita dieci anni dopo la sua morte.
La doppia vita, con la moglie e con l’amante per lui era motivo di stress?
«Penso fosse un equilibrio precario. Dalle ricerche di archivio sappiamo che con la famiglia passava molto più tempo di quanto si possa pensare. Stava molto con Olga. Marie-Thérèse era un segreto di cui nessuno era a conoscenza. Trent’anni dopo Francoise Gilot dice che Marie-Thérèse era il sogno, Olga la realtà. E lui doveva fare i conti con la realtà di essere sposato e padre di famiglia».
Era irrequieto?
«Era approdato a Parigi molto giovane e ci aveva vissuto sempre da straniero. Vuole essere riconosciuto dal sistema e avere successo, e ci riesce, conquista denaro, benessere, rispetto. Insomma, ottiene tutto, eppure non gli basta».
Aveva paura di perdere il suo talento?
«Era sempre alla ricerca. Se dovessi descrivere Picasso con una sola frase direi: è un artista che non smette mai di cercare».
Traduzione di Carla Reschia

La Stampa 29.10.17
Weinstein, le accuse di Annabella Sciorra e Daryl Hannah

A marzo l’attrice Annabella Sciorra, 57 anni, protagonista del film Jungle Fever di Spike Lee e della serie tv I Soprano, aveva negato al giornalista del New Yorker Ronan Farrow di essere stata mai molestata da Harvey Weinstein. Un paio di settimane fa, dopo che lo scandalo è esploso e Farrow ha pubblicato l’articolo in cui anche Asia Argento denunciava le violenza subite, l’ha richiamato, gli ha raccontato di aver dormito a lungo con una mazza da baseball vicino al letto, di essere stata violentata da Weinstein negli Anni 90 e poi più volte molestata e minacciata. Da 20 anni - gli ha detto Sciorra - volevo raccontare questa storia, ma avevo paura.
Anche l’attrice Daryl Hannah, che molti ricordano per Splash - Una sirena a Manhattan e altri per le relazione con John John Kennedy, ha raccontato a Farrow due episodi di aggressione a fondo sessuale da parte di Weinstein, legati alle anteprime di Kill Bill 1 e 2, i film di Quentin Tarantino (prodotti da Weinstein) che lei ha interpretato nel 2003 e 2004.
Hannah ha detto di aver parlato immediatamente a colleghi e a gente del cinema di quanto le era accaduto. «Ma quello che dicevo non aveva alcuna importanza. Non importa se sei un’attrice famosa, se hai vent’anni oppure quaranta, se parli oppure, nessuno ci crede. Anzi, peggio: non solo non ci credono. Ci rimproverano, ci criticano, ci danno la colpa».
Sciorra e Hannah hanno avuto carriere lunghe, con alti e molti bassi, ed entrambe lasciano intendere abbastanza esplicitamente (più Hannah che Sciorra) che Weinstein possa averle danneggiate in seguito ai loro rifiuti o alle loro fughe: una dice di aver cambiato hotel per sfuggirgli, l’altra di essere scappata dall’uscita posteriore dell’Eden Roc a Cap d’Antibes.
Farrow rivela che per mesi gli uomini di Weinstein hanno condotto un’indagine mascherata da inchiesta giornalistica per capire chi stava rivelando i segreti del potente produttore e accusa parte della stampa italiana (Libero, Vittorio Feltri e Selvaggia Lucarelli) di aver attaccato Asia Argento per il suo racconto. «Sapevo che sarebbe stato difficile - dice lei - ma non immaginavo che sarei stata disprezzata, messa alla gogna e denigrata nel mio Paese. In molti casi da altre donne!». [p. n.]

Corriere 29.10.17
Ma Weinstein non è #tuttigliuomini concentriamoci su chi ha sbagliato
di Giusi Fasano

Nessuna persona sensata potrà mai sostenere che gli uomini siano tutti porci. Infatti nessuno l’ha mai detto, né prima né dopo il caso Weinstein. Sì, è vero. Una tale ovvietà meriterebbe il premio al pensiero banale, se esistesse. Ma evidentemente l’idea del binomio uomo = porco può essere scambiata per verità se su quell’equazione si finisce col ragionare per giorni. Tutto legittimo, certo (o forse). Ma il dettaglio fastidioso è che chi sostiene questa versione del dibattito è partito — o partita — da un assunto inesistente, e cioè dal fatto che (proprio dopo il caso Weinstein) sia l’isteria collettiva delle donne a produrre il modello uomo = porco. Che sia in corso una sorta di risveglio delle coscienze femminili pronte a far la guerra al genere maschile per un nonnulla. Sbagliato.
Prima di tutto semplicemente perché non è così. Non ci sono fasi inquisitorie né processi al maschio. Non c’è un esercito di femmine che cova rivalse liberatorie. Chi lo vede ce l’ha schierato nella sua testa, non davanti agli occhi. E poi perché l’argomento «gli uomini sono tutti porci» non ha nessun senso. Nessuno. Per di più è pericoloso perché rischia di depotenziare situazioni nelle quali invece lui è davvero un molestatore e perché, in generale, azzera e banalizza tutto. Sarebbe come dire «la colpa è di tutti» perché non sia di nessuno.
Partiamo dalle nostre esperienze personali: sappiamo benissimo che #nonsonotuttiporci. Non lo sono gli uomini rispettosi con i quali conviviamo ogni giorno (e sono la stragrande maggioranza), non lo sono quelli che non sanno nemmeno che cosa sia una molestia, figuriamoci uno stupro. Metterli sullo stesso piano di chi fa leva sul proprio ruolo e sul proprio potere per ottenere favori sessuali è un’offesa al genere maschile prima ancora di essere una mossa insensata. E quell’equazione — uomo = porco — non fa bene a nessuno, uomo o donna che sia.

Corriere 29.10.17
l’italia è multiculturale, ecco cosa dicono i numeri
di Roberto Sommella

I l caso dell’uomo che vuole i migranti a casa sua e per questo è osteggiato nell’isola di cui è sindaco, offre l’occasione per capire se Ventotene, in tempi di guerra culla del Manifesto omonimo e oggi ospite della Scuola di cittadinanza della Nuova Europa, sia diventata insieme all’Italia intera insofferente. O peggio, razzista. Temi come l’accoglienza e l’integrazione vanno di pari passo con la recrudescenza dei nazionalismi e la protezione dell’identità, come se le prime fossero in antitesi con i secondi o addirittura alimentassero esse stesse la paura dello straniero alle porte. La società italiana, da molto prima che si cominciasse a dibattere dello Ius soli, o che ci si interrogasse sulla Brexit e la Catalogna, è invece cambiata da tempo. Mentre Mohammad diventava il nome più popolare di William in Gran Bretagna, i nuovi imprenditori iscritti alla Camera di commercio di Milano dal nome arabo avevano già superato i mitici Brambilla. È stato un percorso articolato, a volte complesso, denso di pericoli, iniziato in un camion stipato di esuli al valico con l’Austria,oppure su un barcone della prima ora proveniente dall’Egitto. Ma ormai si è compiuto. Le ultimissime statistiche sui flussi lavorativi e scolastici fissano ormai su carta quello che è stato un racconto d’avventura contemporanea.
Dal Rapporto sugli stranieri e il mercato del lavoro in Italia, emerge come l’incremento dell’occupazione valga anche per i non italiani. In particolare, l’aumento è stato nel 2016 superiore alle 19mila unità nel caso dei cittadini Ue (+2,4%), di 22.758 unità nel caso dei cittadini non Ue (+1,4%), di 250mila unità per gli occupati italiani (+1,2%). Nel 2016, il surplus del saldo migratorio è stato 135 mila unità. Giusto qualcosa in più degli italiani che invece hanno lasciato il paese nello stesso anno, in gran parte giovani. Qualcuno potrebbe usare questi dati per argomentare il collegamento tra immigrazione e disoccupazione giovanile, ma sbaglierebbe. I primi, gli stranieri, non hanno tolto il posto ai secondi, gli italiani. E i dati che seguono lo dimostrano.
L’incidenza percentuale sul totale degli occupati dei lavoratori esteri, comunitari e non, è effettivamente passata dal 6,3% del 2007 al 10,5% del 2016, ma con rilevanti differenze settoriali. Si tratta di un lavoratore su dieci, una percentuale importante, ma non evidenzia un tasso di sostituzione: immigrati contro abitanti. Questa incidenza aumenta infatti se si prendono in considerazione l’Agricoltura, dove la forza lavoro straniera pesa per il 16,6% del totale, il Commercio, dove si è passati dal 3,7%, rilevato nel 2007, al 7,2% del totale degli occupati nel 2016, e i Servizi, in cui la presenza estera è salita dal 5,9% al 10,7%. Sono numeri che danno un volto a tutti coloro che ogni giorno incontriamo nei cantieri, nei negozi sempre aperti, lungo i campi coltivati del Sud, nel nostro bagno in ristrutturazione. La sensazione, basterebbe un sondaggio per capirlo, è che si accontentino di posti che noi riteniamo a torto o a ragione desueti, visto che lasciano il nostro paese persone che molto probabilmente non lavorerebbero in campagna, in un drugstore o come muratore, avendo conseguito lauree in fisica, biologia, ingegneria, lettere.
La nostra società è però mutata anche alla base, quella da cui discende tutto. La scuola è piena di apolidi in attesa di cittadinanza ma che riempiono da anni (anni) le aule che senza di loro sarebbero mezze vuote, a causa dell’endemica natalità a tasso zero. L’ultimo Rapporto del Ministero dell’Istruzione sull’integrazione, certifica come quasi uno studente su dieci in Italia sia straniero, sperando di non dover usare per molto questo termine. Dal 1995 al 2016 questi stranieri che parlano in romanesco o nella lingua del Boccaccio, sono passati da 50.322 a 815.000, una vera esplosione demografica. In tutto, il 9,2% del totale. Nel 1983 erano solo 6.000. Da qualche anno gli scolari di origine migratoria rappresentano quindi la componente dinamica del sistema scolastico, che contribuisce con la sua crescita a contenere la flessione della popolazione scolastica complessiva, derivante dal costante calo degli studenti italiani. Esattamente quello che accade per i contributi pensionistici degli immigrati, che permettono l’equilibrio dei conti previdenziali. Senza questi italiani in pectore avremmo meno lavoratori, meno studenti, meno pensioni.
Questi numeri, anzi, queste persone, dimostrano come la nostra comunità, tra mille ostacoli e nuovi pregiudizi, sia già aperta. Come le radici mantengono salda la quercia nelle tempeste, la consapevolezza di questa multiculturalità può renderci più forti. Tutti.

Il Sole Domenica 29.10.17
Michelangelo, grande e irrisolto
di Giulio Busi

Un nuovo profilo dell’artista: un’esistenza rabbiosa, a volte
meschina, di tanto in tanto grande. Grandissima è invece l’arte, irata anch’essa, ma eroica
Ammirato da quasi tutti, strapagato da chi può permetterselo, straodiato da chi non riesce a emularlo, “il divino Michelangelo” impersona, già per i suoi contemporanei, il modello da imitare, il rivale da battere, la guida da venerare. Ha un caratteraccio, non si fida di nessuno, è attaccatissimo al soldo. Ma può esser anche generoso, modesto, affettuoso. Michelangelo è il primo artista che entra, ancor vivo, nel mito. Con lui comincia la modernità: l’arte s’impossessa della vita, la consuma, la redime.
La sua esistenza è rabbiosa, a volte meschina, di tanto in tanto grande. Grandissima è l’arte, irata anch’essa, eroica. Fiamma che sale obliqua, brucia quel che trova. Fiamma lucente del giorno, e fiamma notturna, compassionevole.
I suoi grandi biografi cinquecenteschi, Giorgio Vasari e Ascanio Condivi, in competizione acerrima l’uno con l’altro, fanno la gara per consacrarlo nell’empireo artistico. Senza maestri, senza rivali, senza amici. La solitudine è l’alone che l’accompagna fin da subito, lo protegge, l’innalza. È talmente inarrivabile che può permettersi il lusso di appartarsi, esser scostante, asociale. Salvo decidere di attrarre e incantare chi gli vada a genio, se e quando vuole.
Preferisce gli umili ai gran signori, anche se sa mettere soggezione persino ai papi. Nei momenti di orgoglio, e sono molti, non vuol esser chiamato scultore o pittore. Si considera un cittadino di nobili natali, prestato all’arte, costretto controvoglia a penare con scalpelli e pennello. Non è una facciata, questa del decoro e della rispettabilità sociale. È nato da una famiglia antica e impoverita, e risalire la china, guadagnare, metter da parte, comprare, investire è una delle missioni della sua esistenza. Quando muore, ha ammassato una fortuna immensa. Nella sua casa malandata, gli eredi trovano una somma strabiliante in contanti, equivalente a quasi 30 chili d’oro.
Una vita così sarebbe facile da raccontare. Troppo facile. Fate la somma di tutti i suoi giorni, delle lettere, delle poesie – moltissime e mai pubblicate in vita. Aggiungete il fulgore delle statue, l’azzardo degli affreschi, le architetture senza paragone. Sommate quel che potete e vedete, e ancora Michelangelo non l’avrete trovato.
È meglio dirselo adesso, prima di cominciarla, questa vita-storia. Per tutto il libro, avremo a che fare con un fuggitivo.
Michelangelo cercherà di scapparci, pagina dopo pagina. Si nasconderà, come faceva, nella realtà, dietro i muri posticci, levati attorno ai suoi capolavori. Costruiti, tutte le volte che è possibile, per scolpire o dipingere in pace, al riparo dagli sguardi di papi e di cittadini, di maestri e d’incompetenti, di amici e di clienti. Se si confida con qualcuno, lo fa con sospetto, tra mille cautele. Scomparirà tra le sue poesie, corrette e ricorrette fino allo stremo, versi tormentati, rigirati, cancellati, tra disegni, abbozzi, note, un oceano di carte, di ripensamenti, di sconforti e d’entusiasmi. Sarà difficile sapere dove sia veramente, cosa lo angusti, per chi s’infiammi.
Michelangelo vince anche se lascia a mezzo. Quando porta a compimento suscita meraviglia, e ancor più fa scuola con il suo non finito. Non finita la creazione artistica, e soffertamente incompiuto l’uomo. «A me non finito», scrive in un suo sonetto, facendo di sé stesso lo specchio dell’incompletezza umana. È lì, sulla soglia tra comprensione e dubbio, tra perfezione e difetto, che riusciremo a incontrarlo. Non a lungo, però, perché Michelangelo è schivo. È la sua opera che parla. Per tutti, per chi vuole ascoltarla, per chi la può capire, e anche per gli svogliati e gli sbadati.
Michelangelo dietro il muro è anche questo. Un uomo che si fa schermo delle piccolezze quotidiane, sciorina scialbe preoccupazioni contabili, lui ormai così ricco. E nello stesso giorno in cui annota affari, debiti e crediti, costringe la pietra a farsi corpo, volto, braccia, spasimo, come non ha ancora osato nessuno. Se è così, se piccolo, persino meschino, e grande, grandissimo, non si possono districare, se polvere della pietra, fatica di stendere il colore e invenzione senza limiti sono unite, mescolate, indistinguibili, se Michelangelo è taccagno e genio sullo stesso foglio, in un sol giorno, dovremo abituarci a guardare meglio, aguzzare l’ingegno e non dar retta a chi vorrebbe mettere la materia d’un lato, in compagnia del solito corteo di bassezze - soldi, masserizie, cave, scalpelli, sudori - e tenere poi in serbo, al sicuro, spirito, arte pura, genio, che non si contaminino, per carità.
Forse la nostra scoperta, ricompensa di tanto attendere, è che piccolo e grande sono, in Michelangelo, due modi per dire la stessa cosa. Qualche volta – oltre che schivo, l’uomo può esser dispettoso – anche il grande è espediente per eclissarsi, sfuggirci, lasciarci con un palmo di naso. Ne volete la prova? Cercatelo nel sublime, vedete che fatica farete a scovarlo e, soprattutto, a tenerlo fermo. Si dice che sia platonico, anzi neoplatonico secondo la moda di Firenze, segnato per sempre dall’aria rarefatta che si respirava attorno a Lorenzo il Magnifico, il suo primo, inarrivabile protettore. Michelangelo spregiator del corpo, teso a uscire dal carcere della vita, a incielarsi.
Come la mettiamo, allora, con quei suoi nudi eloquenti, provocanti, con la fisicità imperiosa che sa cavar dal marmo, che fa sprigionare dagli affreschi? Pittore di carne, di desiderio, di sensualità. «L’inventor delle porcherie […] Michelangniolo Buonarruoto», lo chiama, nel 1549, un avversario, bigotto e scandalizzato. La verità è che lui, il divino e divinamente imprendibile, si diverte a confonderci, non ne può fare a meno. Quando credi d’averlo messo alle strette, ti disegna un ghigno, scolpisce un ebbro, colora una Sibilla, e la fuga ricomincia. Vuoi una Madonna in là con gli anni? Te la scolpisce ragazzina. Ti aspetti un Cristo emaciato? Ti sorprende con un atleta che si è strappato dalla croce, e l’ha ridotta a pezzi, tanto è forte.
A volte sembrerebbe tutta sobrietà e misticismo, avversario dei papi guerrieri e dei Medici corruttori. Un savonaroliano di ferro, insomma, per sempre segnato dalle prediche del frate, ossuto e visionario, che aveva ascoltato da giovane a Firenze. È vero che ad allievi e seguaci del domenicano Michelangelo sarà vicino negli anni della maturità, e che una profonda vena religiosa corre nella sua opera, ma mentre Savonarola sale, domina e poi precipita nel rogo, si guarda bene dal restargli al fianco. In quei tempi è a Roma, al servizio dei nemici giurati dell’inflessibile fustigatore della nuova Babilonia, e sembra star benone in compagnia di cardinali e curiali.
Ricordatevi del limite, della soglia. C’è un punto in cui Michelangelo ha un piede nel piccolo, nel quotidiano, nell’affanno, nel desiderio. L’altro piede tocca il vuoto, sollevato, incerto se sostenersi o cadere.
Lì, con un po’ di fortuna, potremo parlargli. È una posizione scomoda, difficile, precaria. Appunto per questo, è l’unica possibile.

Il Sole Domenica 29.10.17
«Edipo re», il giallo perfetto
Omero, Sofocle e Virgilio raccontano bellezze e debolezze dell’animo umano intramontabili proprio come i classici
La forza e la pietà: l’Iliade
La conoscenza e la sofferenza: l’Edipo re
di Piero Boitani

La scena si apre di notte, quando Priamo, contro l’avviso di tutti, si decide ad attraversare la pianura che separa Troia dal campo greco per andare a riscattare il corpo del figlio. Il vecchio è solo con l’auriga, ma viene ben presto raggiunto da Ermes, che Zeus ha inviato in suo aiuto. Il dio guida Priamo all’accampamento nemico, dandogli consigli preziosi sul modo in cui rivolgersi ad Achille. E Priamo entra all’improvviso nella tenda di colui che gli ha ucciso tanti figli, lo supplica nel nome del padre di lui, Peleo, bacia la mano che ha ammazzato Ettore. Achille, che ha appena terminato di mangiare, e che in un primo momento sussulta, piange ricordando il padre e Patroclo; Priamo piange il suo Ettore. La comunanza tra uomini viene infine ristabilita: nel pianto. Achille si alza di scatto, solleva per la mano il vecchio, lo invita a sedere con lui e si lancia in un discorso sugli affanni in mezzo ai quali gli dèi costringono gli uomini a vivere. Poi esce, chiama le ancelle e fa lavare e rivestire il corpo di Ettore, infine lo adagia lui stesso sopra la bara e, rompendo in lamenti per Patroclo, ritorna nella tenda. Invita allora Priamo a mangiare con lui, sostenendo che si era ricordata del cibo persino Niobe, cui Apollo aveva ucciso ben dodici figli.
Alla fine del pasto, ormai sazi, i due si guardano e si ammirano, in quella che è l’estrema pausa del poema: Priamo nota quanto Achille sia «grande e bello, proprio uguale agli dèi»; Achille osserva il «nobile aspetto» di Priamo e ascolta le sue parole.
Un grande stupore, una profonda meraviglia si impadronisce di entrambi mentre si guardano, come se adesso, dopo la morte, venisse il momento della scoperta dell’altro e tale scoperta consistesse in primo luogo nel rinvenimento della bellezza in un essere umano. Perché l’Iliade, poema della forza e della pietà, è anche il canto della bellezza.
Prima che a Priamo sia permesso di coricarsi, Achille gli domanda quanti giorni di tregua sarebbero necessari per la celebrazione dei funerali. Una volta a letto, però, il vecchio è risvegliato da Ermes, che gli consiglia di ripartire subito per Troia con il corpo del figlio. Priamo obbedisce e rientra in città. Il resto del libro XXIV è preso dalle esequie di Ettore, che l’ultimo verso del poema riassume: «Davano così sepoltura ad Ettore domatore di cavalli».
È necessaria la morte perché l’uomo venga restituito a se stesso e riconosca la bellezza dell’altro uomo. È necessario il pianto perché Priamo possa essere anche Peleo e Achille divenga per un attimo Ettore, perché l’eroe della forza sia anche quello della resistenza – perché Ettore possa avere onore di pianti finché il sole risplenderà su le sciagure umane.
Come giallo, come ricostruzione di un delitto che è parricidio e incesto, l’Edipo re di Sofocle è fantastico: forse il miglior giallo che sia mai stato scritto, dotato di un meccanismo a orologeria che non lascia tregua sino all’eclatante ribaltamento conclusivo. Edipo vuole conoscere il suo génos, ma quando giunge a conoscerlo, scopre di essere figlio di un uomo che egli ha ucciso e di una donna, la madre, con la quale si è congiunto e ha generato dei figli. La conoscenza che ha acquisito si rivela una tragedia. Edipo si acceca per non veder più il mondo nel quale ha commesso tanto male.
Il problema, per noi moderni, risiede però in una domanda essenziale: è colpevole Edipo di avere commesso questi orrori? Egli stesso sosterrà nel dramma successivo della serie tebana di Sofocle, l’Edipo a Colono, che non sapeva nulla, e quindi non era colpevole. Ogni evento gli sarebbe stato imposto dalla combinazione di Fato e Tyche, la sorte. In realtà, per i Greci Edipo è colpevole, ma non più e non meno di ciascun essere umano. Perché ogni essere umano è soggetto alla fallibilità: non alla colpa individuale nel senso cristiano, e quindi non al peccato, ma alla possibilità di errare e cadere: alla fallibilità. Edipo ha commesso una hamartía, cioè un colpevole errore. Ma la parola hamartía, che nel greco classico vuol dire «errore», nel greco dei Cristiani significa «peccato».
Tra i due concetti c’è una bella differenza, perché il peccato si commette scientemente (come quando Adamo ed Eva mangiano il frutto che è stato loro espressamente proibito da Dio), mentre la colpa può essere appunto attribuita a qualcuno senza che egli ne sia cosciente o responsabile fino in fondo. Edipo, appunto, non sapeva che l’uomo che uccideva fosse il padre, né che la donna con la quale si congiungeva fosse la madre, e anzi ha fatto tutto il possibile per evitare di compiere entrambe le cose. Tuttavia, Edipo è colpevole, profondamente colpevole, come lo sono tutti gli essere umani. Potremmo dire che su di lui grava una «colpa originale» – che non vorrei chiamare «peccato originale» per evitare confusione con un ambito differente – una colpa originale che riguarda tutti noi. Tutti noi che vogliamo conoscere le nostre origini, il nostro spérma e il nostro génos per mezzo della ragione e della scienza. Tutti noi che abbiamo rubato il fuoco insieme a Prometeo, o che da lui lo abbiamo ricevuto.
L’invenzione di Roma: l’Eneide
Virgilio, il maggior poeta di Roma, comprende la straordinaria forza d’attrazione che la politica romana di accoglienza e tolleranza esercita sugli altri popoli. Con l’Eneide, egli compone per Augusto il grande poema epico di Roma: la prima metà, che narra l’errare di Enea, ispirata dall’Odissea; la seconda, nella quale Enea affronta la guerra per la conquista del Lazio, modellata sull’Iliade. Al centro del poema, Virgilio colloca il libro VI, nel quale celebra una vera e propria apoteosi di Roma, e in particolare della gens Giulia cui Augusto apparteneva.
Guidato dalla Sibilla di Cuma, Enea, come Ulisse prima di lui, scende agli inferi. Incontra il nocchiero Caronte, una folla di morti insepolti (tra i quali il suo timoniere Palinuro), passa l’Acheronte, Cerbero, Minosse, i suicidi, i Campi del Pianto – dove si trovano relegati coloro che soffrono per amore, e tra essi Didone, che a Enea rifiuta addirittura di parlare. Le vittime gloriose della guerra, troiane e greche, si affollano attorno a lui. Poi, evitato l’ingresso nel Tartaro, Enea e la Sibilla giungono ai Campi Elisi, sede dei beati. Il poeta Museo conduce Enea dal padre, Anchise.
Nel colloquio che segue, Anchise, rispondendo a una domanda del figlio, illustra in primo luogo lo stato e i mutamenti delle anime, poi lo conduce in cima a un’altura dalla quale può vederle tutte. «Ora», annuncia, «ti svelerò con parole quale gloria si riserbi / alla prole dardania, quali discendenti dall’italica / gente siano sul punto di sorgere, anime illustri / e che formeranno la nostra gloria, e ti ammaestrerò sul tuo fato». Ecco, allora, pararsi dinanzi a Enea una prima schiera di figure che incarnano la leggenda di Roma, dai discendenti immediati – Silvio, Proca e Numitore – sino al fondatore Romolo e, d’un balzo, a Giulio Cesare e Augusto.
L’esaltazione di Augusto è al centro del Trionfo di Roma pronunciato da Anchise. Dopo di lui, la voce percorre la storia della città ritornando ai successori di Romolo sino alla fine della monarchia, e discendendo lungo i secoli della repubblica sino a giungere a Marco Claudio Marcello, figlio adottivo e genero di Augusto, erede poi morto del Principato. Proprio prima di soffermarsi su Marcello, Anchise proclama apertamente l’ideologia alla quale Roma deve ispirarsi: «Foggeranno altri con maggiore eleganza spirante bronzo, / credo di certo, e trarranno dal marmo vivi volti, / patrocineranno meglio le cause, e seguiranno con il compasso / i percorsi del cielo e prediranno il corso degli astri: / tu ricorda, o romano, di dominare le genti; / queste saranno le tue arti, stabilire norme alla pace, / risparmiare i sottomessi e debellare i superbi».
I Greci saranno scultori, oratori e astronomi migliori dei Romani, ma questi ultimi dovranno governare i popoli, «stabilire norme alla pace», parcere subiectis et debellare superbos. Risparmiare chi si sottomette: assimilarlo, farlo cittadino romano. Sconfiggere, sterminare, punire chi resiste.
I Romani assolsero questo duplice compito in maniera egregia. Offrirono al mondo un ordine imponendo un sistema legale altamente sviluppato e costruendo per secoli, in tutta Europa, Medio Oriente e Africa settentrionale, strade, ponti, acquedotti, terme, teatri: in maniera mai eguagliata prima, o dopo, sino all’epoca moderna.

Il Sole Domenica 29.10.17
Dal medioevo al rinascimento
Caccia alle streghe e al pensiero antico
di Armando Torno

La stregoneria appartiene alla storia dell’umanità non meno dell’arte o della religione. Questo pensiero, scritto da Giuseppe Faggin all’inizio del libro che dedicò a Le streghe (Longanesi, 1959), induce a riflettere sul ruolo avuto da fanatismo e violenza nella storia, ma anche sulla legalizzazione che ebbero nelle diverse epoche con guerre o persecuzioni. Oltre gli eccessi e gli orrori della caccia alle streghe, essa rivela una delle innumerevoli metamorfosi del male. L’osservazione ricordata da Faggin, profondo conoscitore del pensiero classico e dei mistici, si potrebbe accostare a un passo che Bertrand Russell lasciò nel saggio Scienza e religione. «Verso la fine – ricorda il logico e matematico gallese - del XVI secolo, Flade, rettore dell’università di Treviri, nonché supremo giudice della corte elettorale, dopo aver condannato un numero indefinito di streghe, iniziò a pensare che forse le loro confessioni fossero dovute al desiderio di evitare la tortura della ruota, e di conseguenza si dimostrò restio a condannarle. Fu accusato di essersi venduto a Satana e sottoposto alle stesse torture che aveva inflitto in precedenza alle sue vittime. Come loro, confessò la propria colpa, e nel 1589 fu prima strangolato e poi bruciato».
Vicende e pensieri simili vengono alla mente con il ritorno di un classico testo del Cinquecento, dedicato alla “Strix”, alla “Strega”. L’autore, Gianfrancesco Pico della Mirandola, nipote del celebre Giovanni e a sua volta erudito e filosofo degno di attenzione, pubblicò il libro dopo che nei primi mesi del 1523 le terre di Mirandola e Concordia furono sconvolte da una lotta anti-stregonesca che portò al rogo sette uomini e tre donne.
Questo conte, poi assassinato dal nipote Galeotto nel 1533 assieme all’ultimogenito Alberto (di 14 anni), diede alle stampe proprio nel 1523 l’edizione latina della “Strix” e nell’anno successivo usciva una traduzione, con modifiche e semplificazioni, a cura dell’inquisitore domenicano Leandro Alberti. Per un testo critico degno di tal nome occorre attendere il 2007, allorché Alfredo Perifano lo cura per Brepols. Ora Lucia Pappalardo, basandosi su quest’ultimo lavoro, ne offre una nuova versione (con il latino a fronte), un ottimo apparato di note e una vasta introduzione che illustra tra l’altro il profilo filosofico di Gianfrancesco, notizie sul sabba delle streghe nel Rinascimento e le concezioni demonologiche allora circolanti. Il libro, il cui titolo completo suona Strix sive de ludificatione daemonum (La strega o sull’inganno dei demoni, oppure Strega o delle illusioni del diavolo), è una giustificazione di condanne ed esecuzioni di cui l’autore fu testimone.
Lo stesso Perifano, d’altra parte, ha notato che questo piccolo testo, scritto in forma di dialogo, «si colloca nel quadro della codificazione inquisitoriale definita dal Malleus maleficarum», il famigerato trattato del 1487, noto in volgare come Il martello delle streghe, opera dei domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer; anzi si potrebbe addirittura intendere l’operetta come una trasposizione dialogica del vasto manuale antistregonesco.
Va comunque notato che la Strix del signore di Mirandola consente di meglio focalizzare quei legami che corsero tra la caccia alle streghe e taluni temi del pensiero rinascimentale che, come osserva Lucia Pappalardo, vanno dalla crisi di alcune verità del mondo greco trasmesse dal medioevo al ritorno dello scetticismo. È questo il percorso che egli compie: attacca Aristotele e utilizza le opere di Sesto Empirico (pare sia stato il primo moderno a farlo) per sfiduciare il pensiero antico, convinto che la fede cristiana non possa basarsi su di esso. Gianfrancesco, non a caso, fu seguace di Savonarola (ne scrisse una Vita apologetica), chiese riforme per i costumi e per la disciplina ecclesiastica. In questo percorso c’è spazio per la lotta al demonio; e quindi anche per credere all’esistenza delle streghe e combatterle.
Non si creda un caso isolato. Mentre la scienza sperimentale muoveva i primi passi e si cominciò a guardare il cielo con gli occhi di Copernico, nel 1563 - per fare qualche esempio del dibattito allora in corso - il medico olandese Johann Weyer pubblicava il De praestigiis daemonum per provare che le streghe non hanno alcun potere reale, ma nel 1580 il giurista e filosofo politico Jean Bodin chiedeva che costui fosse bruciato sul rogo. E nel 1589 il gesuita fiammingo Martin Delrio, nelle sue Disquisitiones magicae promuoveva un ritorno al Malleus: consigliava però, bontà sua, di utilizzare con più moderazione la tortura per estorcere le confessioni.
Lucia Pappalardo, La Strega (Strix) di Gianfrancesco Pico. Introduzione, testo, traduzione e commento , Città Nuova Editrice, Roma, pagg. 518, € 35

Il Sole Domenica 29.10.17
Arte e scienza /1
Punto, linea e neuroni
Il Nobel Eric Kandel affronta con rigore il problema di come e dove il cervello crei e «senta» un’opera d’arte
di Arnaldo Benini

Nella voce Aesthetics della XIV edizione dell’Encyclopaedia Britannica del 1929 Benedetto Croce sostiene che l’arte, la poesia, sono determinate da due elementi, «un complesso d’immagini e un sentimento che lo anima», dove «il sentimento si è tutto convertito in immagini, ed è un sentimento contemplato». (La voce uscì lo stesso anno in Italia, in un’edizione dapprima fuori commercio, col titolo Aestetica in nuce). Dopo aver chiarito ciò che distingue la categoria dell’arte da quelle della filosofia, della storia, dalla scienza naturale, dell’immaginazione, del sentimento nell’immediatezza dell’esperienza, della didascalia e oratoria e dell’azione pratica, Croce sottolinea che «la categoria dell’arte, come ogni altra categoria, presuppone, a volta a volta, tutte le altre [...]è condizionata da tutte e pur condiziona tutte».
Non si sa se Eric Kandel, uno dei massimi neuroscienziati contemporanei, premio Nobel nel 2000 per le ricerche sui meccanismi della memoria, conosca gli scritti crociani d’estetica. Fatto si è che in questo libro, magistrale per chiarezza e padronanza di cultura vastissima, Kandel affronta, col rigore del riduzionismo scientifico, il problema di come e dove il cervello crei e “senta” un’opera d’arte, secondo l’indicazione crociana che l’arte è creata e sentita dal sentimento. Se noi siamo ciò che il cervello ci fa essere, le neuroscienze cognitive, studiando i meccanismi della mente, s’occupano di tutti gli aspetti della vita, e quindi anche della creazione e percezione dell’arte. Le neuroscienze ne cercano la fonte nel cervello.
Neuroscienze ed estetica, studiando l’una il cervello che crea e sente l’opera d’arte e l’altra la fenomenologia emotiva dell’evento artistico, si pongono domande e obiettivi comuni. Il riduzionismo delle neuroscienze, spiega Kandel, cerca i meccanismi nervosi grazie ai quali l’esperienza di un’opera d’arte trascende la percezione quotidiana e, per riprendere Croce, suscita il sentimento dell’emozione intensa ed esclusiva dell’esperienza artistica. La sorpresa della congruenza dell’estetica e del riduzionismo delle neuroscienze è grande. «Gli approcci riduzionisti degli scienziati e degli artisti» ribadisce Kandel «sono analoghi»: entrambi mirano alle basi, ai meccanismi nervosi che creano la poesia e la fanno sentire come evento lirico.
Il sentimento è opera dei centri dell’affettività e dell’emotività nel sistema limbico. L’analogia fra il pensiero di Croce e la metodologia di Kandel sembra forzata e cervellotica, ma la lettura parallela dei due testi convince del contrario: provare per credere. Kandel prende in considerazione l’arte astratta a partire da William Turner, Cezanne, Monet, Kandinsky, Schönberg, soffermandosi poi su Piet Mondrian e sugli espressionisti astratti della scuola di New York Willem de Kooning, Jackson Pollock, Mark Rothko e Morris Louis, dei quali (specie di Rothko) legge diverse opere con acutezza. «Gli scienziati» spiega Kandel, «usano il riduzionismo per risolvere un problema complesso, mentre gli artisti astratti lo sfruttano per suscitare una nuova risposta percettiva ed emotiva». Riducendo le immagini a forme, linee, colori e luce, l’arte astratta dà maggior peso alle emozioni e all’immaginazione perché crea un’atmosfera senza figure. Kandinsky, che pur aveva dipinto meravigliosi piccoli quadri panoramici, sosteneva che forma e colore muovono il cuore di chi guarda. Le neuroscienze dimostrano che i centri nervosi della visione dei colori nella corteccia temporale inferiore sono intensamente collegati alle aree dell’affettività e dell’emotività, che condizionano il comportamento e la sensibilità.
Per Kandel uno dei primi pittori radicalmente riduzionista è Piet Mondrian, che creò immagini di linee pure e colori e di forme geometriche semplici senza riferimenti naturali. Nella loro apparente elementarità, suscitano un’emozione lirica straordinaria. La neurofisiologia ha dimostrato che le cellule dei centri visivi che reagiscono alla linea costituiscono la base di rappresentazioni complesse. Mondrian riduceva l’espressione alla radice della percezione visiva. I pittori astratti, invece di raffigurare un’immagine realistica, si concentrano su una o su poche sue componenti esplorandole in un modo nuovo. È, ribadisce Kandel, il riduzionismo dell’arte. Kandel paragona La Tempesta nel porto di Calais di Turner del 1802, sostanzialmente figurativa, con la Tempesta di neve al largo di Harbour’s Mouth del 1842, dove la mancanza di elementi figurativi suscita associazioni emotive d’immensa potenza. Il ritratto di un individuo con poche pennellate può essere più espressivo della persona stessa, perché esprime la profondità della sua natura. Henri Matisse diceva che ci si avvicina di più a una serenità gioiosa «se semplifichiamo pensieri e figure»: basti pensare alla felice e meravigliosa eleganza delle sue figure in movimento, anche se è una lumaca.
Ogni processo percettivo, emotivo, mentale o motorio si basa, sintetizza Kandel, «su gruppi distinti di circuiti neuronali specializzati localizzati secondo una disposizione gerarchica ordinata in regioni specifiche del cervello. [...]Le strutture cerebrali sono anatomicamente e funzionalmente legate l’una all’altra e quindi non possono essere separate fisicamente», a conferma della convinzione di Croce che la categoria dell’arte, pur nella sua unicità, condiziona tutte le altre categoria della coscienza e ne è condizionata. Il filosofo che non sapeva nulla di scienza e ignorava l’arte astratta e il neuroscienziato arrivano con assoluta congruenza a chiarire la natura della poesia. George Steiner, nel suo ultimo libro, parla della volgarità di considerare le opere d’arte un prodotto della poltiglia del cervello. Antico, tenace e assurdo pregiudizio, che il libro di Kandel contribuisce a eliminare. Esso arricchisce l’esperienza di quel che l’arte ci fa vivere riassumendo quel che si sa circa i meccanismi nervosi dell’esperienza artistica, sia del farla che del percepirla. I dati della scienza coincidono con l’interpretazione lirica dell’arte. Quando indagano con sapienza e misura l’origine delle cose, le due culture si fondono.
ajb@bluewin.ch
Eric R. Kandel, Arte e Neuroscienze. Le due culture a confronto , Cortina, Milano, pagg. 234, € 26

Il Sole Domenica 29.10.17
Rivoluzione bolscevica
E Russell incontrò Lenin
«Stato e rivoluzione» rappresenta il tradimento degli ideali socialdemocratici. Il filosofo inglese fu tra i primi a capirlo
di Mario Ricciardi

Nel maggio del 1920 una delega zione di “osservatori imparziali”, messa insieme dal Governo Britannico su richiesta dei sindacati, arriva a San Pietroburgo con l’incarico di studiare le condizioni economiche, politiche e sociali del paese a meno di tre anni dalla rivoluzione bolscevica. Tra i delegati c’è anche il matematico e filosofo Bertrand Russell. Già noto per i suoi importanti studi sulla logica e i fondamenti della matematica, Russell era una figura di primo piano nella vita politica britannica, impegnato da anni in difesa di cause “radicali” – dal controllo delle nascite al voto per le donne, fino al pacifismo nel corso della Prima Guerra Mondiale – egli aveva aderito di recente al socialismo pluralista teorizzato da G.D.H. Cole. Le sue convinzioni politiche progressiste lo spinsero a usare la propria influenza negli ambienti del Governo – in fondo era pur sempre il fratello del Conte Russell, membro della House of Lords – per ottenere l’invito a unirsi alla delegazione. Ecco perché, dopo qualche giorno dall’arrivo in Russia, troviamo il filosofo a tu per tu con il capo dei Bolscevichi, uno degli uomini più temuti e odiati al mondo, Vladimir Il’ic Ul’janov, detto Lenin.
Di questo incontro, che avviene nello studio del leader politico, Russell ci ha lasciato un memorabile resoconto, pubblicato poche settimane dopo nel suo libro The Practice and Theory of Bolshevism. Apprendiamo che un interprete è presente, ma che rimane per lo più in silenzio perché l’inglese di Lenin è buono. Nella stanza, arredata in modo spartano, i due discutono di politica internazionale, dei risultati ottenuti dai Bolscevichi, in particolare per quel che riguarda l’elettrificazione dell’industria, dell’opposizione dei contadini – nei confronti dei quali Lenin non manifesta grande simpatia – e delle prospettive di una rivoluzione proletaria nel Regno Unito.
Anche quando emergono disaccordi, il tono rimane cordiale. Lenin ride spesso. Russell trova queste risate dapprima amichevoli e rincuoranti, tuttavia, mano a mano che la conversazione procede, esse assumono un tono sinistro. Russell è tra i primi, seguito da una lunga schiera di intellettuali progressisti europei e statunitensi, a riconsiderare la propria iniziale simpatia nei confronti della rivoluzione bolscevica, sottolineandone gli esiti totalitari. Si distingue tuttavia dalla grande maggioranza dei critici per la rapidità con cui giunge alle proprie conclusioni negative, e perché un ruolo non secondario nella formulazione del suo giudizio ha l’aver incontrato di persona Lenin.
Oggi, a distanza di cento anni dalla presa del Palazzo d’Inverno, è molto difficile non farsi condizionare dal peso di questa tradizione negativa, e da ciò che sappiamo del fallimento del regime sovietico. La pubblicazione di una nuova edizione critica di Stato e rivoluzione di Lenin ci offre comunque un’opportunità di grande interesse: provare per un momento a sospendere il giudizio, per ritornare alle origini. Lenin, infatti, scrive questo lavoro, uno dei più letti e discussi tra i suoi contributi, nell’estate del 1917, a poche settimane dagli eventi che condurranno alla presa del potere da parte dei Bolscevichi. La stesura dell’ultimo capitolo, si legge nel poscritto del 30 novembre, viene rimandata.
Fare l’esperienza della rivoluzione, afferma Lenin, è più piacevole e utile che scriverne (possiamo immaginare che dopo aver affidato al foglio questa battuta Lenin si sia lasciato andare a una risata come quelle descritte da Russell). Non c’è dubbio che il tema fondamentale del saggio, come ha scritto Lucio Colletti, è la rivoluzione come «atto distruttivo e violento». Questo, in realtà, è un punto d’arrivo della sua riflessione. Dapprima Lenin ritiene che il compito del proletariato in Russia sia portare a termine una rivoluzione democratica, nell’ambito di una rivoluzione socialista europea. C’è, in tale opinione, l’eco del dibattito sulle condizioni sociali arretrate in cui si trova la Russia dei primi del secolo scorso, che non soddisfano i requisiti descritti da Marx nelle sue riflessioni sul crollo del Capitalismo.
In questa fase, Lenin sembra avere ancora una concezione “gradualista” della rivoluzione, l’avversario è Bucharin. Ben presto, tuttavia, la situazione politica si evolve, e il capo dei Bolscevichi si convince che sono maturate le condizioni per osare di più. In questa mutata prospettiva, egli comincia a redigere le note che diventeranno, dopo un percorso editoriale ricostruito in questa edizione nel saggio introduttivo di Tamás Krausz, Stato e rivoluzione.
Richiamando gli scritti di Marx e Engels sulla Comune di Parigi del 1871, Lenin indica gli aspetti centrali del processo di distruzione violenta dello Stato che costituisce l’obiettivo della rivoluzione: l’introduzione del mandato imperativo, la revocabilità permanente dei funzionari, il superamento della rappresentanza parlamentare che deve essere sostituita da un organo esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Una forma radicale di democrazia diretta che attui il sogno dell’autogoverno dei produttori. Per realizzarla, Lenin deve mettere nell’angolo i compagni che vorrebbero seguire la strada parlamentare. Di qui la feroce polemica con Kautsky che lo impegna per buona parte del capitolo conclusivo.
Due anni dopo la visita di Russell a Lenin, un ragazzino di dodici anni, la cui famiglia si è da poco trasferita nel Regno Unito per sottrarsi alle violenze seguite alla rivoluzione bolscevica, scrive un breve racconto basato su un episodio di cui forse era stato testimone oculare quando ancora viveva a San Pietroburgo. Narra l’uccisione, da parte di un tal Kunnegiesser, esponente della piccola nobiltà locale, di Moise Solomonovich Uritsky, un funzionario della Cheka. Nel firmare le condanne a morte, leggiamo in questo breve componimento, Uritsky si rifaceva al motto che aveva assunto come guida nella sua azione politica: «il fine giustifica i mezzi». L’assalto al cielo dei Bolscevichi aveva provocato la discesa agli inferi di una parte dei russi. Molti anni dopo, quel giovane rifugiato, il cui nome era Isaiah Berlin, lo ricordava ancora con un brivido d’orrore.
Vladimir Il’ic Lenin, Stato e rivoluzione , a cura di Tamás Krausz, Donzelli, Roma 2017, pagg. 222, € 25

Il Sole Domenica 29.10.17
Insieme per la rivoluzione
Benito e Vladimir Il’ic in birreria
di Emilio Gentile

Nel marzo 1904, grazie ad Angelica Balabanoff, il probabile incontro di Lenin e Mussolini a Ginevra con i socialisti che celebravano l’anniversario della Comune
Che vi sia stato un incontro fra Lenin e Mussolini non è la fantasiosa ipotesi di una storia immaginaria.
La circostanza dell’incontro si presentò realmente quando l’uno e l’altro vivevano in Svizzera. All’inizio del 1904, Lenin e Mussolini abitavano entrambi a Ginevra. Il russo vi si era trasferito da Londra l’anno precedente, ma a Londra era tornato per il secondo congresso del partito socialdemocratico russo. Era rientrato a Ginevra nel gennaio del 1904. Anche il giovane migrante italiano vi giunse il 30 gennaio, dopo aver girovagato nei due anni precedenti per vari cantoni svizzeri.
Lenin aveva trentaquattro anni. Da quindici anni militava nel movimento marxista, da quattro anni aveva lasciato la Russia e dopo due anni trascorsi a Londra, si era trasferito a Ginevra, dov’erano altri compagni bolscevichi. Mussolini aveva ventuno anni, da tre anni era iscritto al partito socialista italiano, e proprio nella confederazione elvetica, dove era emigrato nel luglio del 1902, aveva iniziato l’attività politica come giornalista, propagandista e agitatore fra i lavoratori italiani emigrati.
Molti socialisti russi e italiani vivevano allora in Svizzera. Talvolta si riunivano con i socialisti della confederazione elvetica e di altri Paesi europei per conferenze o per convegni politici. A Ginevra, abituale luogo d’incontro era il Café Brasserie E. Handwerk, in Avenue du Mail 4. Con la denominazione “Brasserie de l’Univers” , dove si vendeva a “Bier de l’Avenir”, come era vistosamente scritto nella pubblicità all’esterno, il caffè sembrava appropriato a ospitare nella sua grande sala coloro che volevano realizzare una rivoluzione proletaria universale sotto il sole dell’avvenire.
Mussolini rimase a Ginevra fino al 17 aprile, allorché fu espulso dal cantone, dopo essere stato arrestato per aver falsificato la data di scadenza del passaporto. Il giovane emigrato si guadagnava da vivere dando lezioni di italiano e scrivendo articoli per i giornali socialisti. «Lottavo col disagio economico. Passavo le mie ore libere nella Biblioteca universitaria di Ginevra, dove fortificai la mia cultura filosofica e storica», ricorderà Mussolini in una breve autobiografia scritta nel 1912.
Anche Lenin frequentava assiduamente la Biblioteca universitaria. Dal registro della sala di lettura, risulta che nel gennaio del 1904 si interessò alla storia della filosofia, ma da febbraio ad aprile il suo nome non appare nel registro. Vi appare invece, per molti giorni da marzo ad aprile, quello di Mussolini.
Negli anni del regime fascista, il duce parlò spesso di Lenin, e accennò alla possibilità di averlo incontrato e conosciuto in Svizzera. Il maggior biografo di Mussolini, Renzo De Felice, dopo aver valutato i vari ricordi mussoliniani e la documentazione disponibile nel 1965, concludeva: «È molto improbabile che si siano anche solo incontrati». Eppure, qualche spiraglio sulla probabilità dell’incontro fra i due rivoluzionari marxisti nel 1904, è rimasto aperto.
Nell’autobiografia giovanile, Mussolini racconta che fin dall’inizio del soggiorno in Svizzera, fece «alcune conoscenze nella colonia russa. Con alcune mi legai con vincoli di viva amicizia». Fra le sue conoscenze nella colonia russa vi era anche Angelica Balabanoff, una marxista che aveva studiato in Italia, aveva frequentato i corsi di Antonio Labriola all’Università di Roma, e militava nel Partito socialista italiano. Durante il soggiorno di Mussolini in Svizzera, la Balabanoff contribuì molto alla sua formazione intellettuale e politica, introducendolo allo studio del marxismo. Con la sua collaborazione, il giovane tradusse in italiano il libro di Karl Kautsky Am Tage nach der sozialen Revolution. Insieme parteciparono a varie riunione di socialisti. Nelle sue memorie, Angelica racconta di aver incontrato in Svizzera, per la prima volta, sia Lenin che Mussolini.
Per celebrare l’anniversario della Comune, era consuetudine dei socialisti ginevrini invitare a una grande manifestazione pubblica i compagni degli altri cantoni e degli altri Paesi europei, che vivevano in Svizzera. Il 18 marzo 1904 la celebrazione si svolse nella sala della birreria Handwerk. Alla tribuna si avvicendarono vari oratori. Il 23 marzo «Le Peuple de Genève», giornale socialista, riferiva: «Il discorso per gli italiani fu pronunciato dal compagno Mussolini, il quale, con forte eloquenza, ha fatto il processo ai detrattori della Comune di Parigi e ha tracciato il cammino che la classe operaia deve seguire per assicurarsi le libertà necessarie alla sua completa emancipazione».
Lo stesso Mussolini, in una corrispondenza pubblicata il 27 marzo 1904 su «Avanguardia Socialista», diede la notizia della celebrazione ginevrina: «Il 18 marzo venne degnamente ricordato dai gruppi socialisti di Ginevra. All’Handwerk la solita folla cosmopolita. Parlò in tedesco il Wyss, in francese il Tomet, in italiano il vostro corrispondente. Varie società cantavano inni rivoluzionari. Vi furono proiezioni luminose, riuscitissime, illustranti i principali episodi della Comune. Noi fraternizzammo coi russi i quali rispondevano ai nostri inni col grido di “Viva il Proletariato italiano, Viva il Socialismo!”. La compagna Angelica dott. Balabanoff, insieme con la compagna Maria Giudice, hanno deciso la pubblicazione di un giornale di propaganda socialista per le donne dal titolo: “Su, compagne!”».
Fra i russi presenti nella birreria vi era probabilmente Lenin. Infatti, nelle sue opere è pubblicata una serie di appunti sulla Comune di Parigi, scritti prima del 22 marzo 1904. Ci sono poi testimonianze che confermerebbero la sua presenza nella birreria Handwerk il 18 marzo. Vladimir Adoratski, compagno bolscevico e storico sovietico del marxismo, ha affermato di aver sentito per la prima volta parlare Lenin «in una riunione consacrata alla memoria della Comune di Parigi il 9 (22) marzo 1904, che si svolse in una delle sale pubbliche di Ginevra, alla Handwerk».
Pertanto, Lenin avrebbe potuto essere fra i russi che fraternizzarono con Mussolini e gli italiani inneggiando al socialismo. Del resto, il capo del bolscevismo amava unirsi a cantare gli inni rivoluzionari. Un compagno che aveva condiviso con lui l’esilio in Siberia e che viveva in Svizzera nel 1904, ha raccontato che «Vladimir Il’i? portava nelle nostre esibizioni vocali una passione e una verve particolari», preferiva ordinare quel che si doveva cantare e iniziava «con la sua voce in qualche modo rauca e stonata, che può essere descritta solo come un incrocio tra un baritono, un basso e un tenore»; e quando «gli sembrava che gli altri non mettessero enfasi a sufficienza su passaggi più coinvolgenti della canzone, agitava il pugno energicamente, battendo il ritmo con il piede», e con la sua voce «tendeva a sovrastare quella di tutti gli altri».
Comunque, che ci sia stato o no l’incontro fra Lenin e Mussolini nel 1904, è storicamente certo che nel decennio fra il 1904 e il 1914, il russo e l’italiano, all’insaputa l’uno dell’altro, percorsero politicamente vie quasi parallele, che si divaricarono bruscamente nell’ottobre del 1914, per continuare successivamente lungo percorsi diametralmente opposti, anzi contrapposti, in una guerra a morte fra nemici inconciliabili.
Questo testo è un’anticipazione
di un brano tratto dal nuovo libro
di Emilio Gentile, Mussolini contro Lenin , Laterza, Roma-Bari, pagg. 272, € 16.
Sarà in libreria dal 9 novembre

Il Sole Domenica 29.10.17
Anno luterano
La santa moglie di Lutero
L’epistolario intimo di Martin con la consorte Katharina von Bora. E uno scritto di Zwingli inviato al riformatore
di Gianfranco Ravasi

Martedì prossimo saranno trascorsi cinque secoli da quel mercoledì 31 ottobre 1517, vigilia di Ognissanti, quando – secondo una tradizione dai contorni forse leggendari – Martin Lutero affisse alla porta della cappella del castello di Wittenberg le celebri 95 Tesi, considerate come la matrice della Riforma protestante. In questo anno “luterano” a più riprese abbiamo selezionato testi connessi alla svolta che visse la cristianità in quel secolo, per altro esaltante dal punto di vista della cultura umanistica. Questa volta abbiamo scelto di proporre una trilogia bibliografica piuttosto originale, a partire dal primo testo che offre le 21 lettere a noi giunte del più fitto epistolario che Lutero indirizzò alla sua amata Katharina von Bora, una monaca cisterciense che fuggì di nascosto con altre undici consorelle dal convento, affascinata dal messaggio di questo frate agostiniano ribelle.
Restio a sposarsi, Lutero alla fine cedette e il 13 giugno 1525 si univa a Katharina che allora aveva 26 anni, 16 in meno del suo sposo, dal quale ebbe tre figlie (Elisabeth, Magdalene, Margarete) e tre maschietti (Hans, Martin, Paul). La lettura delle lettere – indirizzate alla donna dai lineamenti massicci, analoghi a quelli del suo sposo, entrambi immortalati dai ritratti del grande Luca Cranach nel 1529 – è deliziosa a livello umano e rilevante sul piano storico-documentario. L’amore appassionato ma anche l’ammirazione intellettuale per la sua Käthe emerge già nella suggestiva sequenza degli appellativi usati che vanno dal «Signore» (sic!) accompagnato dal più solenne epiteto «dottoressa, predicatrice» fino alla «mia diletta signora della casa», «moglie santa e preoccupata» per la salute del marito (così nell’ultima lettera, quattro giorni prima della morte di Lutero, datata 14 febbraio 1546).
Ma accanto ad altri aggettivi teneri come «amabile, cara, gentile, dottissima», ci sono alcuni appellativi sorprendenti come «birraia» perché era abile nel preparare questa bevanda secondo un metodo probabilmente imparato in monastero, sulla scia delle antiche tradizioni che spesso permangono ancor oggi in vari conventi. Oppure la interpella come «giardiniera» perché coltivava orti e giardini, e persino come «ricca signora» per la tenuta di Zühlsdorf acquistata per lei dallo stesso Lutero da un cognato della donna. Sconcertante può sembrare l’appellativo «Signora del mercato delle scrofe» a causa di un frutteto che Martino aveva donato a Katharina e che era noto proprio come “il giardino del mercato delle scrofe”... Naturalmente lasciamo al lettore di gustare l’intimità di questo dialogo epistolare che intreccia spiritualità e concretezza quotidiana («Non trascurare le more di gelso... far decantare il vino... fare le finestre nel nuovo tetto e nelle pareti... ti mando delle trote...» e così via).
Importanti sono soprattutto le note storiche, i fremiti di tenerezza per i figli (Elisabeth morirà a otto mesi e Magdalene a 13 anni), l’avversione umorale per gli ebrei e le polemiche teologiche. A quest’ultimo proposito è da segnalare nella prima lettera del 1529 un attacco a Zwingli, il riformatore svizzero che negava la presenza reale di Cristo nell’eucaristia d’intesa con un altro teologo, Ecolampadio che la riteneva solo «segno del corpo di Cristo». Lutero, che in questo si rivela ancora “cattolico”, non ha esitazioni: «Penso che Dio li abbia resi ciechi». Questa nota ci permette di passare al secondo volume della nostra trilogia. L’editrice Claudiana ha, infatti, deciso di inaugurare una collana di “opere scelte” di Huldrych Zwingli, nato nella Svizzera orientale nel 1484, parroco cattolico avvicinatosi alla Riforma dopo una profonda crisi spirituale nel 1519.
Ebbene, la prima opera di questa collana è il saggio teologico Amica exegesis che Zwingli compose nel 1527: si tratta proprio di una replica “amichevole” che egli indirizza a Lutero che l’aveva attaccato con veemenza sulla questione eucaristica. La sua è un’argomentazione sostanzialmente biblica, basata su una minuziosa esegesi del Nuovo Testamento e in particolare del Vangelo di Giovanni, perché in esso si legge – all’interno del discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao sul «pane di vita» – che «è lo Spirito che dà la vita, mentre la carne non serve a nulla» (6,63). La conclusione generale che Zwingli trae è radicalmente diversa dalla dottrina cattolica e luterana: Cristo non è presente nel pane e nel vino della cena eucaristica, bensì nell’assemblea dei credenti, che sono il suo vero “corpo” vivente nel tempo. Il dettato è molto caloroso e interpella direttamente Lutero del quale si intuisce l’ardore polemico che Zwingli rintuzza in modo pungente, talora venato di ironia, ma anche rispettoso del genio dell’avversario “dottissimo” ma invincibile nella sua ostinazione.
Nel 1523 Zwingli aveva convinto i magistrati di Zurigo ad adottare 67 testi (Schlussreden) per una riforma religiosa che superava in radicalismo quella di Lutero, promuovendo un cristianesimo austero, essenziale e spoglio di elementi sacrali. Berna, Basilea e Sciaffusa lo seguirono, mentre la dura reazione dei cantoni cattolici generò uno scontro bellico nel quale il riformatore trovò la morte l’11 ottobre 1531. Il suo vessillo ideale sarebbe stato raccolto dal calvinismo che alla fine assorbì il movimento zwingliano. Parlavamo di radicalità ed essenzialità spirituale. In un certo senso possiamo assegnare queste caratteristiche anche al terzo soggetto che introduciamo: sono le cosiddette Assemblee di Dio che incarnano un “pentecostalismo” di genesi americana, ma espanso in altri continenti e quindi anche in Italia. È considerato come una sorta di “risveglio” all’interno del protestantesimo storico, un “revival” spirituale che ora tre autori studiano nel suo manifestarsi storico soprattutto nella nostra storia repubblicana.
Sorte nel 1914 a Hot Springs come un network, le Assemblee di Dio sono poi divenute una “denominazione” con una sua identità che si ramifica in diverse comunità nazionali autonome per un totale di 67 milioni di fedeli. In Italia, dopo la persecuzione fascista, si sono costituite con un riconoscimento giuridico e con un’Intesa di Stato, dotandosi di varie sedi, di un istituto di formazione, di opere di assistenza e associando circa 150.000 fedeli. Un volume ne ricostruisce ora la vicenda storica sulla base anche della documentazione archivistica delle singole comunità disseminate nel nostro paese, soprattutto nel Meridione, ricomponendo anche la rete delle relazioni internazionali e di quelle con lo Stato italiano a partire dalla Costituente. A quest’ultimo riguardo è significativa l’introduzione della nozione di libertà di culto che permise al movimento pentecostale di uscire alla luce del sole. Rilevante fu l’opera di un deputato che avrebbe attraversato a lungo la storia repubblicana, l’on. Luigi Preti (1914-2009): fu lui a far sopprimere il riferimento alle limitazioni per l’esercizio del culto non cattolico. Una storia, certo, di minoranze che hanno però una loro presenza spirituale e sociale viva nel mosaico della nostra comunità nazionale.
Martin Lutero, Lettere a Katharina von Bora , a cura di Reinhard Dithmar, Claudiana, Torino, pagg. 72, € 8,50
Huldrych Zwingli, Amica esegesi, a cura di Ermanno Genre, traduzione dal latino di Marco Zambon, Claudiana, Torino, pagg. 451, € 45
Dayana Di Iorio, Salvatore Esposito, Alessandro Iovino, Liberi per servire. Le Assemblee di Dio nella storia repubblicana , EUN (Editrice Uomini Nuovi), Marchirolo (Varese),
pagg. 238, € 15
Si veda anche: Lutero, Opere scelte. 16. Da monaco a marito. Due scritti sul matrimonio (1522 e 1530), a cura di Paolo Ricca, Claudiana, Torino, pagg. 284, € 19,50