Il Fatto 30.10.17
Fascismo social, la risacca nera del web
Il network a portata di click
Gli screenshot di alcune tra le migliaia e migliaia di pagine Facebook censite da “Patria indipendente”, sito web legato all’Anpi
Curve e piazze. Vessilli nazisti nella curva Nord della Lazio
Commemorazione di Mussolini a Predappio
di Davide Milosa
“Addio cara Fiorenza, cara amica ausiliaria della Rsi, sempre gentile, quando di passaggio a Verona ci si vedeva per un caffè alla Bauli, negli ultimi anni infaticabile guida a Villa Carpena dove mi aveva fatto incontrare Romano Mussolini… Abbruniamo i labari!”. E ancora: “Sono stato onorato di averti conosciuta. Adesso andrai la dove c’è il nostro Dux! A Noi sorella!”.
Repubblica sociale e nostalgia. Il Duce, il fascio, il ricordo della Fiorenza Ferrini, morta nella casa di Mussolini, solo pochi mesi fa. Via così, dunque. Si ricomincia. Altro tema: il nemico. I partigiani, la sinistra. Niente corone sulle tombe repubblichine. Una miccia per l’odio e per la revisione storica distorta: “Propongo di andare sulle tombe dei partigiani pluripregiudicati per omicidio dopo la guerra e affiggere un foglio con scritto i delitti commessi”. Rilancia tale Nino Cacciottoli: “Bastardi senza patria e onore che andavano ancora a uccidere anni dopo la guerra. Odiano con un odio che dura 70 anni”. La foto di una donna presa per i capelli biondi, stretto il volto tra le mani dei partigiani. Memoria parziale. Di nuovo fiato alla tromba dell’odio. Scrive Franco Dradi: “La faccia dei partigiani dice tutto di loro. La nostra cosiddetta Repubblica è fondata sul sangue di innocenti e ragazzi d’onore che questa immondizia ha vigliaccamente versato. Se esiste un inferno, è lì che finiranno assieme alla loro genia malata”.
Nostalgia e attualità. Anna Frank, la figurina all’Olimpico, la maglia giallorossa della Roma. Attacco antisemita. Indignazione ovunque. Giusta, condivisa. “Laziale e fascista” tira dritto e scrive: “Quasi quasi ci scappa la lacrimuccia? Che dite? Ma indignati di cosa? E di cosa ci si deve scusare. Ma la facessero finita. Rassegnatevi”.
Da sociale a social. È il fascismo che dilaga in Rete. Facebook è la chiave, la piattaforma ideale per fare proseliti, ricordare, proporre, tentare di agganciare. Pagine nere dentro una risacca che monta come uno tsunami. Che aumentano di mese in mese. Sessanta, settanta alla volta. Qualcuno si è messo a contarle, analizzarle, catalogarle. Ne è uscito un quadro inedito, mai visto. Merito di Giovanni Baldini e del suo staff. Del sito Patria Indipendente e dell’Anpi. “Abbiamo censito oltre 3.000 pagine – spiega Baldini –, contiamo, entro dicembre, quando chiuderemo la ricerca, di superare le 4.300”. Dati e informazioni finiscono in un maxi-grafico. In realtà una grande nebulosa navigabile, dove le pagine Facebook stanno collegate le une con le altre. Non tutte e così si formano altre piccole nebulose. Ogni cerchio un link. Ogni colore una categoria: dai nostalgici agli identitari, dai gruppi Rac (Rock Against Comunism) a Lealtà e Azione, dal Movimento Patria Nostra fino alla galassia dell’associazionismo dove i temi sociali sono solo il paravento per portare avanti la propaganda neo-fascista.
Più il cerchio è grande, più appare autorevole. Il metro di misura sono soprattutto i like in entrata alla pagina. Le pagine che “si piacciano” sono collegate da una linea. Va da sé che Casapound e Forza Nuova attraggano il maggior numero di consensi. “L’idea – prosegue Baldini – è stata quella di andare alla ricerca di coloro che dopo la svolta di Fiuggi del 1995 non hanno seguito Alleanza Nazionale”. L’Msi scompare. Chi resta? Dove va? Con chi? La galassia neofascista così si polverizza in tante piccole monadi. Spesso in lotta tra loro. Mai unite, il più delle volte divise. Perché, si sa, a tutti piace fare il Duce a nessuno il gregario.
E così si scopre che tutto il Blocco studentesco (declinato per città) sta nella sfera di Casapound. E un dato emerge netto. Lo spiega sempre Baldini: “Casapound sta progressivamente cannibalizzando Forza Nuova e si prepara, a tutti gli effetti, a raccogliere il testimone lasciato dall’Msi nel 1995”.
E così l’appello parte dalla pagina “Boia chi molla”. “L’Italia – si legge – ha bisogno di noi. Uniamoci e risolviamo la situazione”. E dunque ecco l’attualità declinata alla maniera neo-fascista. Dallo Ius Soli all’immigrazione alla nuova legge di Emanuele Fiano (il ddl sulla propaganda fascista), lui figlio di Nedo che ad Auschwitz ci passò, perse la famiglia, e riuscì a sopravvivere. Tema questo dibattuto su molte pagine. Fiano “il talebano”. Giuseppe Noce dalla pagina “Benito Mussolini” avverte il politico del Pd: “La guerra è finita caro Fiano, non ricordare sempre le stesse cose anzi bisogna togliere i campi di concentramento che li avete lasciati per ricordare l’Olocausto basta. Le cose brutte vanno tolte sono baracche che fanno male invece ne avete fatto dei luoghi di pellegrinaggio”. Mario e Patrizia Curatolo rilanciano: “Figlio de na… anche se cerchi di cancellare qualsiasi scritta o scultura appartenenti al fascio ricordati che saranno indelebili nel cuore di ognuno di noi appartenente al fascio viva il Duce”.
La tematica gender è un altro filo comune. La famiglia è quella tradizionale. Una pagina dedicata a Evita Peron posta volantini “l’unica famiglia è quella naturale”. Associazionismo si diceva. Temi buoni come l’ecologia. Come “La foresta che avanza” che, però, spende tempo e risorse per chiedere di ripristinare la scritta Dux sul Monte Giano, cancellata da un incendio dell’agosto scorso. Mentre Den, ovvero “Destra estrema nazionale”, non spreca parola, ma posta immagini di pistole infilate nei pantaloni per sostenere la legittima difesa. Per Augusto Bunker il motto è: “Saluto romano orgoglio cristiano”.
Il gruppo rock Hobbit si occupa di Ius Soli e davanti alla presidente della Camera Laura Boldrini che sostiene lo sciopero della fame pur di far passare la legge, risponde con un appello: “Proponiamo ai nostri seguaci di inviarci la descrizione dei piatti tipici della vostra città in nome della nostra sacra identità”. Che poi il gruppo Hobbit, tra rock e politica, fa anche del gran merchandising. Magliette e scritte “Ardite schiere, bandiere nere”.
Identitari si diceva, contro lo Ius Soli, andare a pensare il contrario sarebbe sciocco. Ecco allora “Niemals”, emporio legionario. Felpe in vendita e un messaggio chiaro. “Questo è uno strumento di autofinanziamento militante per testimoniare la nostra visione del mondo. Lealtà, coraggio, onore: questa la sfida”.
La pagina “Progetto enclave” vuole che l’Europa si svegli. “Europe awake: nella Vandea o nella trincea delle Ardenne, a Salò oppure a Berlino in fiamme. Da Derry a Belfast risorge l’aurora, dal piombo degli anni Settanta risorge l’Europa”. Identità e passato. Volti criminali abbigliati da eroi. Erich Priebke “e il suo abominio giudiziario”. La vera storia promette la pagina “Virtute e Canoscenza”, “non perdetevi l’occasione di conoscere il Capitano!”. Ettore Muti, morto nel 1943 (sepolto al Campo X del Cimitero Maggiore di Milano assieme ad altri 921 repubblichini) nel cui nome nacque la Legione Muti, che torturò tanti innocenti in via Rovello. “Onore a Ettore Muti – si legge su Rdvis – il suo coraggio e la sua vita ci siano quotidianamente di esempio”. E poi Achille Starace, segretario del Partito nazionale fascista “grande figura d’italiano, un vero eroe”.
Ma c’è altro, oltre al visibile. Un doppio livello, l’inganno, il paravento dell’anti-politica, del populismo declinato al degrado. Il bersaglio è l’immigrato. Di questo si occupa un ricerca parallela, sempre giocata su Facebook e portata avanti dall’Osservatorio democratico sulle nuove destre diretto da Saverio Ferrari. Tutto si alimenta di fake news e numeri sugli sbarchi fuori da ogni logica. Una delle pagine più seguite è “Dimissioni e tutti a casa”. L’immigrato viene chiamato, ironicamente, “risorsa”. Si legge: “Nuova risorsa tenta di rubare un bus e manda all’ospedale un carabiniere e quattro guardie giurate”. Stessa pagina, qui Iolanda Ciasca si rivolge direttamente all’assessore milanese Pierfrancesco Majorino: “Noi italiani vorremmo che vi accadesse qualche cosa di una di quelle che succede a noi comuni mortali senza scorta. Gli stranieri scopriranno il vero motivo per il quale li accogliete: per i soldi!”. E ancora: “Nessuno può fermare la migrazione della fauna. Ve lo volete mettere in testa voi cacciatori? Libertà per la beccaccia africana”. Stessi motivi di razzismo in altre pagine come “Piove governo ladro” o in “Militanza fascista 2” che se la prende con don Biancalani, il prete di Vicofaro (Pistoia) diventato famoso per aver portato un gruppo di migranti in piscina e attaccato da Forza Nuova. Scrive tal Bruna: “Stronzo aiuta gli italiani, anzi vai in Africa, lì ti mettono a 90 gradi”.
Territorio e identità deviata. “Difendi la tua città”, le cosiddette pagine del “gentismo”. “Sei di Pavia”, ad esempio. “L’odio non potrà mai scalfire la purezza del nostro amore”. Citando il testo del gruppo Rac Ddt: “Basta una canzone, basta un bottiglia. Quante braccia tese, è la tua famiglia”.
Nelle ricerca di Giovanni Baldini le pagine dei gruppi musicali sono circa 122. Soli neri e simboli nazisti, white power, odio e aryan rock. Come quello dei veneti Katastrof che inneggiano a Priebke: “Tu sei rimasto fedele all’ideale supremo. Sarai sempre esempio per la bianca gioventù!”.
Di tutto e di più nella nebulosa dei neo-fascisti italiani. Legati dalla nostalgia, nascosti dentro l’odio populista per il diverso.
Una marea nera che non arretra. Ma resta divisa al suo interno. Ultimo esempio, la marcetta ridicola del 28 ottobre. Annunciata da Forza Nuova e da Roberto Fiore poi ritirata. Cosa che non è piaciuta a Maurizio Boccacci, ex Fuan ed ex Avanguardia Nazionale che in una lettera scrive: “Caro Fiore chi vuol combattere veramente il sistema non mendica benevolenza ma scende in strada e lo combatte così è sempre stato! Le lotte fatte nelle borgate sono state fatte senza alcun permesso, certo pagando, ma infiammando quel popolo che ci vedeva marciare e lottare”. Insomma, se da un lato Facebook fotografa un preoccupante magma nero in aumento che si alimenta di fake news e antisemitismo a buon mercato, fissando anche nuove direzioni, dall’altro la realtà della politica riconduce il neo-fascismo italiano a semplici schiamazzi tra pochi.
Il Fatto 30.10.17
Carl Gustav Jung
“Disturbi mentali di massa”
Il desiderio di ritirarsi dal mondo: la nuova peste del XXI secolo
di Luigi Zoja
Quando già era molto anziano, Carl Gustav Jung concesse una delle sue sorprendenti interviste a un interlocutore ancora più sorprendente: il famoso geografo svizzero Hans Carol. La domanda che questi gli presentò era una sola: L’uomo e il suo ambiente. La risposta di Jung iniziò criticando l’alienazione nei lavori moderni. Correva l’anno 1950 e nessuno immaginava l’avvento del turismo di massa: eppure, come conseguenza della insoddisfazione Jung non previde un rivolgimento sociale, ma folle in movimento che si spostano per “cercare una compensazione altrove”; mentre la suggestionabilità e la emozionabilità di questi itineranti sarebbe aumentata “geometricamente, con l’aumentare del numero delle persone coinvolte”. Pur non prevedendo la motorizzazione di massa o i voli low cost, Jung intravedeva l’esplosione di questo bisogno, collegato a “disturbi mentali di massa”.
Vale la pena di partire da tali affermazioni forti: Vittorio Lingiardi è fra i maggiori seguaci di Jung in Italia, e il suo libro Mindscapes (Raffaello Cortina) identifica nel paesaggio un fondamentale punto d’arrivo della psicoanalisi. Se dai greci deriviamo in buona parte gli archetipi (e la stessa parola archetipo) dovremmo far attenzione a non dimenticarci che per loro il bene costituiva una qualità etica ed estetica (kalokagathia, bello e buono) unica e non separabile. Cosa che tendono a dimenticare architetti e pianificatori quando ci offrono prodotti il cui fine è la funzionalità, mentre il “respiro di sollievo” dell’occhio che guarda cose di cui potrebbe godere rimane solo un optional. L’immersione estetica è una necessità primaria della psiche. Lingiardi approfondisce questa prospettiva anche attraverso un fertile incontro con le neuroscienze.
Malgrado nella immaginazione popolare la psicoanalisi sia rinchiusa nella intimità dei colloqui terapeuta-paziente, fra mura e tendaggi che attutiscono le visioni e i rumori esterni, il paesaggio ne è parte costitutiva. Esso è infatti essenziale ai processi di immaginazione: indipendentemente dal fatto che il soggetto viaggi o sia un sedentario. Questo terreno comune tra ambiente e psiche è ben sintetizzato nel neologismo Mindscapes: ciò che si sposta non sono necessariamente i nostri piedi, ma l’orientamento di una percezione, interna ed esterna.
Nel XXI Secolo la nuova, devastante psicopatologia che analisti e terapeuti devono affrontare è costituita dalla “sindrome di ritiro”: la chiusura al mondo che, anche in senso letterale, travolge gli elementi più insicuri delle giovani generazioni (studiati inizialmente in Giappone – dove ormai sono due milioni – da Tamaki Saito e in Italia da Gustavo Pietropolli Charmet). Soprattutto se abituati a un abuso di Internet e di contatti virtuali, questi gruppi si chiudono in casa rinunciando prima allo studio, poi al lavoro. Ciò rappresenta lo stadio finale dello storico “ritiro delle proiezioni psichiche” dall’ambiente circostante.
Agli albori della umanità, fra le tribù animiste, la psiche del soggetto quasi non è personale, viene condivisa con l’anima dell’ambiente: per questo egli può dire che il giaguaro è suo fratello, o che lui stesso riceve una ferita se si taglierà quell’albero. Lo stato “partecipativo” rispetto a ciò che ci circonda diminuisce poi con la storia e con il “disincanto del mondo” (Max Weber). Oggi solo in certe condizioni – l’innamoramento, la creazione artistica – ci si sente ancora cosa unica con qualcosa di esterno, persona o oggetto. Gli stati estremi di rinuncia alla comunione psichica con ciò che circonda non corrispondono, però, al raggiungimento di un sano laicismo e di una più estesa razionalità, ma a nuove patologie: un congelamento post-affettivo, o addirittura a una ricomparsa di convinzioni magiche, travestite da mondo virtuale che sostituisce la realtà.
Sotto la sua gradevole sembianza di passeggiata estetica, scorgiamo qui la profondità del capitolo che Lingiardi dedica alla irrinunciabilità della esperienza paesistica: non semplice ricettacolo delle proiezioni e dei sentimenti che il soggetto vi riversa, ma in buona parte loro origine. Essa costituisce la naturale, primaria e gratuita terapia contro le sindromi di ritiro. Non potremo mai – come tentano di fare i giovani “ritirati” – chiudere definitivamente fuori dalla nostra stanza le brutture circostanti: anche se vogliamo ignorarla, l’esperienza di tale stanza dipende dalla sua posizione nel mondo e dal suo orientamento.
Repubblica 30.10.17
Quei terroristi in cerca di una santificazione
di Massimo Recalcati
Cosa spinge a dare e a darsi la morte? Perché credere che il sacrificio della vita dia diritto alla salvezza? Un saggio di Marco Belpoliti
In questa raccolta di brevi articoli dal titolo Chi sono i terroristi suicidi (Guanda), Marco Belpoliti scava nel campo osceno e inquietante del fenomeno del terrorismo islamico. La domanda di fondo che lo guida non è affatto scontata. In essa risuona drammaticamente l’interrogazione posta di fronte all’atrocità della barbarie totalitaria della Shoah: come è stato possibile? Perché lo hanno fatto? E, soprattutto, questi assassini crudeli, spietati, privi appunto di ogni forma di pietas, sono ancora uomini? Fanno ancora parte della razza umana? È questa una delle chiavi di lettura che unifica più in generale il lavoro intellettuale di Belpoliti, studioso di letteratura, con quello dell’osservatore critico dei fenomeni della violenza estremista come si realizza in almeno altri due suoi contributi importanti; prima fra tutte la monumentale biografia dedicata a Primo Levi ( Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda 2015) e, in secondo luogo, la sua riflessione sulla stagione del terrorismo in Italia ( L’età dell’estremismo, Guanda 2013).
Un primo snodo cruciale di questo libro riguarda il rapporto tra la vocazione sacrificale e omicida dei terroristi e la loro giovinezza. Sì perché non dovremmo mai dimenticare che sono ragazzi, giovani, talvolta bambini, vite che non hanno ancora raggiunto l’età adulta, che non hanno ancora costituito una famiglia, quelle che si martirizzano uccidendo e uccidendosi nel nome della Causa. Non si tratta di un semplice cliché sociologico che dovrebbe acquietare le nostre coscienze del tipo: «Sono giovani e non sanno quello che fanno». Tutt’altro: Belpoliti non rinuncia a porre questo tema scabroso perché sa bene che esso riguarda da vicino le nostre vite. Per un verso la giovinezza è sempre spaesata, smarrita, in cerca di sicurezze che non trova. Per questa ragione il miraggio offerto dalla radicalizzazione riconduce, come mostra bene lo psicoanalista francese di origini mussulmane Beslama, alla necessità di radicarsi, di trovare un’identità solida. Belpoliti sa bene che la nostalgia dell’identità, del suolo, della radice ha animato i fantasmi più terrificanti del totalitarismo novecentesco che il suo Primo Levi ha descritto con lucida disperazione. Ma — insiste la domanda — i giovani cercano la libertà o la sicurezza che li esenti dal suo rischio? Vanno verso la libertà o fuggono dalla libertà? Ripeto, non è affatto una domanda scontata. La libertà contiene sempre delle insidie. Lo spirito del terrorismo si fonda sulla rinuncia delle insidie della libertà e su di una piena sottomissione. Nondimeno in questa sottomissione cieca alla Causa si manifesterebbe la loro suprema libertà. È il punto che accomuna il giovane terrorista all’anoressica: l’assoggettamento ad un Ideale inflessibile è la forma più alta della libertà. Ma, ragiona Belpoliti, non è proprio di questo Ideale assoluto — dell’Ideale assoluto della Causa — ciò di cui avvertiamo in Occidente la mancanza? Lo spirito del terrorista trova nel tra tran ordinario e senza desiderio delle nostre vite il suo contrario o il rovescio di una stessa medaglia? Non è forse solo la passione per un ideale che può renderci “sanamente eccessivi” e svegliarci dal sonno del conformismo?
Una seconda traccia proposta dal libro è quella del rapporto con la morte proprio dei giovani terroristi. Qui si gioca una terribile astuzia che Belpoliti evoca attraverso Camus: sacrificare la vita per una Causa comporta il diritto alla propria salvezza. È un fantasma tremendo che appartiene ad ogni forma patologica della religiosità sacrificale. Il rimborso che attende chi sacrifica la propria vita è sempre sovrabbondante: se questa vita non è nulla, l’altra, quella ottenuta nell’aldilà, dovrebbe finalmente realizzarla pienamente. La volontà di uccidere di questi giovani, nota Belpoliti, si mescola alla loro volontà di morire. È la dinamica del martirio che però, in questo caso, implica sempre la morte di vittime innocenti. Ma uccidere vittime innocenti mentre ci si uccide è la manifestazione di una insufficienza narcisistica o è una sua folle amplificazione? Davvero il terrorista è servo della sua Causa o non piuttosto colui che si serve della Causa per trasformare la propria vita da una nullità insignificante in quella di un eroico giustiziere inviato da Dio? I terroristi islamici sono degli sradicati o figure che coltivano un “ideale incrollabile di superiorità?”.
La santificazione islamica del martirio, diversamente da quella cristiana, esige la lotta attiva e militante contro l’infedele. Non si limita alla consegna passiva di se stessi al sacrificio. Per Belpoliti la spinta suicidaria non può essere compresa se non all’interno di un “paradigma vittimario”: diventare una vittima, sacrificarsi alla Causa, nobilita la propria vita di fronte agli occhi della propria comunità di appartenenza. La morte non è più ciò che limita la nostra vita ricordandoci la nostra estrema insufficienza e vulnerabilità, ma diventa l’occasione per la sua massima esaltazione. La morte diventa, paradossalmente, una “prova di amore di sé”, un “rapporto diretto con Dio” che “realizza una sorta di godimento assoluto”.
IL LIBRO Marco Belpoliti, Chi sono i terroristi suicidi (Guanda, pagg. 128, euro 12)
Repubblica 30.10.17
Lo spazio che crea i ricordi
L’italiano Flavio Donato “Ecco dove nasce il libretto d’istruzioni del nostro cervello”
“Abbiamo scoperto i neuroni che assemblano la memoria”
Le cellule neurali non sono tutte uguali. C’è una gerarchia Abbiamo capito chi le guida, dando il tempo a tutte le altre
L’ambizione di ricreare in silico alcune funzioni del cervello umano è un obiettivo meno lontano di quello che pensiamo
di Elena Dusi
ROMA. Ieri c’è stata la prima nevicata abbondante, con le ore di luce ridotte a una manciata. «Un clima fantastico per lavorare» ride Flavio Donato, 34 anni, laurea in biotecnologie a Roma, dottorato a Basilea e oggi un lavoro da ricercatore post-doc all’università di Trondheim. «Sono al quarto anno in Norvegia e mi trovo bene». La rotta verso l’estremo nord lo ha portato accanto ai coniugi Edvard e May-Britt Moser, Nobel per la medicina nel 2014 con la scoperta del “gps del cervello”. Il giorno dopo aver vinto il premio Eppendorf&Science per la neurobiologia, Donato ha tutte le ragioni per essere soddisfatto. Come scrive nel saggio su Science che gli è valso il primo premio, il suo lavoro ha a che fare con la vicina di casa Ikea. Consiste infatti nel trovare le istruzioni di assemblaggio di una scatola molto speciale: il cervello. «Abbiamo un gruppo di componenti, i neuroni, che devono essere assemblati in modo preciso per svolgere una funzione» spiega Donato. «Noi vorremmo capire dove nasce il libretto delle istruzioni».
Studiare le istruzioni del cervello intero è forse, al momento, un obiettivo troppo ambizioso. Donato si è concentrato su un singolo “scaffale” del mobile: quel circuito cerebrale che ha portato a casa Moser il Nobel più nordico della storia. Si tratta di una rete formata da due aree che si chiamano corteccia entorinale e ippocampo. «È il network di neuroni che permette al cervello di crearsi una mappa dello spazio in cui vive, un contenitore in cui collocare i ricordi e pianificare le azioni future. È grazie a questa struttura che ricordiamo dove abbiamo parcheggiato la macchina la mattina e pianifichiamo il tragitto per riprenderla la sera. Ed è lei, guarda caso, ad essere attaccata per prima dalla proteina tau che causa l’Alzheimer».
Dell’area che ci permette di rappresentare lo spazio Donato ha studiato le regole di “montaggio”. Ha spiegato cioè come questo circuito di neuroni si forma, si dispone e si attiva nelle prime fasi della vita. «Abbiamo osservato i topi fino all’età di un mese», che corrisponde all’adolescenza negli esseri umani. «Più che un libretto delle istruzioni, abbiamo trovato un direttore d’orchestra. Fra i neuroni infatti esiste una gerarchia. Noi abbiamo capito chi li guida, dando il tempo a tutti gli altri. Sono le cosiddette cellule stellate, che inviano segnali agli altri neuroni per spingerli a maturare, formare reti e connessioni ». Dal momento che nell’infanzia - la fase in cui le cellule stellate sono più attive - la plasticità del cervello è massima, comprendere lo spartito dei direttori d’orchestra avrebbe la sua importanza anche per quegli adulti che la sera non ricordano dove hanno lasciato l’auto. «Un giorno - guarda in avanti Donato - potremmo forse pensare di far tornare plastico anche il cervello dell’adulto».
A sentire parlare di cervelli che assomigliano a scaffali, in realtà, viene subito da pensare al riduzionismo e alla similitudine fra cervello naturale e artificiale. «Semplicemente, l’idea dei mobili Ikea mi sembrava efficace» spiega Donato. «Per pubblicare il saggio su Science mi avevano raccomandato di scrivere come se dovessi far capire a mia nonna. Spiegare in modo chiaro è una delle funzioni più importanti del nostro lavoro. Le polemiche sui vaccini in Italia ci ricordano quanto sia importante che il mondo accademico riesca a informare correttamente la società». Il tema del cervello, conferma il giovane neuroscienziato, «è diventato centrale nel dibattito pubblico, non solo per l’incidenza delle malattie, ma anche per lo sviluppo di reti neurali ibride, intelligenza artificiale e realtà virtuale». Realtà virtuale, tra l’altro, che è stata usata in alcuni esperimenti sui topolini a Trondheim. «Anche per ricreare - spiega Donato situazioni fisicamente impossibili, come l’assenza di gravità o la mancanza di confini fra gli oggetti, e di capire quali elementi sono davvero essenziali per rappresentare dello spazio». Ma a furia di smontare neuroni e decodificare istruzioni di assemblaggio, è all’obiettivo di un’intelligenza artificiale più efficiente di quella umana che si ambisce? «Più efficiente magari no, ma l’ambizione di ricreare in silico alcune funzioni del cervello umano è molto sentita nel nostro ambiente. A mio parere, è un obiettivo meno lontano di quel che pensiamo».
Flavio Donato ha appena vinto il premio Eppendorf&Science dedicato alle promesse della neurobiologia mondiale. Lavora da 4 anni al Politecnico di Trondheim, in Norvegia. Ha 34 anni, si è laureato a Roma in biotecnologie, poi ha proseguito con
Repubblica 30.10.17
No a politica e religione per i giovani è l’era delle passioni tiepide
Italiani sempre più incapaci di accettare le responsabilità della vita adulta
La vecchiaia è l’unica paura comune e la gioventù dura fino a 52 anni
Osservatorio Demos-Coop: si assottigliano le differenze tra generazioni e cresce la dipendenza dalla famiglia
Gli obiettivi più urgenti dei ventenni di oggi sono fare carriera e diventare autonomi Il crollo dell’interesse per la fede è il segnale più evidente del disincanto diffuso
di Ilvo Diamanti
PARAFRASANDO il titolo di un noto libro, potremmo dire che viviamo in un’epoca di “passioni tiepide”. Non “tristi”, come quelle evocate da Miguel Benasayag e Gérard Schmit nel loro saggio (pubblicato nel 2004 da Feltrinelli). Piuttosto: “disincantate”. Interpretate con realismo. In particolare dai giovani. Abituati a proiettare il futuro nel loro sguardo. E a orientare il nostro. Perché i giovani “sono” il futuro.
È l’immagine suggerita dal sondaggio dell’Osservatorio di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi e proposto oggi su Repubblica.
D’altronde, la società, e soprattutto i giovani, si sono abituati al clima di sfiducia che grava su di noi. Ormai da troppi anni. Così, lo attraversano senza troppa paura. In particolare, i “giovani-adulti” (secondo i demografi), la “generazione del millennio”, secondo l’Istat.
Insomma, coloro che hanno fra 25 e 36 anni e stanno a metà fra giovinezza ed età adulta. E cumulano l’insicurezza di chi ha di fronte un futuro carico di incognite e la sicurezza di chi i problemi del futuro ha iniziato a sperimentarli. È la metafora di una società che non accetta di invecchiare. Dove tanti, quasi tutti, vorrebbero restare “per sempre giovani”. A costo di protrarre all’infinito le incertezze degli adolescenti. È un aspetto che avevamo già osservato altre volte, in passato. Ma oggi si ripropone, in modo, se possibile, più marcato. La giovinezza, secondo gli italiani, si allunga sempre più. Quanto più gli anni passano. Fra coloro che non superano i 36 anni, la giovinezza finisce poco più avanti: a 42 anni. Poi, via via che gli anni passano, anche la giovinezza si allunga. Fino a 62 anni, per coloro che hanno superato 71 anni. La “generazione della ricostruzione”. Parallelamente, si allontana anche la soglia della vecchiaia. Tanto che, secondo i più anziani, pardon, i “meno giovani”, si diventa “vecchi” solo dopo aver compiuto 80 anni. Non è una novità. La nostalgia della giovinezza spinge a negare la vecchiaia. E induce ad accettare di essere vecchi… solo dopo la morte. Eppure, ogni volta mi stupisco. Non riesco a farmene una ragione. La vecchiaia come dis-valore: significa negare l’importanza dell’esperienza. La maturità. D’altra parte, l’età adulta si restringe sempre di più. Così, la nostra biografia accosta e oppone gioventù e vecchiaia. Una accanto all’altra. E riduce l’età adulta a un passaggio rapido. Quasi occasionale. “Diventare grandi”, una promessa attesa, quando ero bambino, oggi appare quasi una minaccia. Al più ci è concessa la condizione di “adulti con riserva” (per citare un bel libro di Edmondo Berselli). Le fratture generazionali, così, appaiono meno evidenti e meno marcate di un tempo. Io stesso, alla fine degli anni Novanta, avevo definito i giovani una “Generazione invisibile” (Ed. Il Sole 24ore, 1999). Per sottolineare la progressiva marginalità dei giovani, ma, ancor più, la loro coerenza con gli orientamenti degli… adulti. Meglio, dei genitori. Al punto da non coglierne più le distanze. Cioè: le specificità generazionali. D’altronde, gli anni delle contestazioni sociali, ma prima ancora, familiari — dei figli contro i genitori — erano lontani. In seguito, non si sono più riproposte. Anzi: i genitori, la famiglia, sono divenuti l’appiglio che permette ai figli di condurre la loro transizione infinita all’età adulta. Si spiega soprattutto così l’importanza attribuita dai più giovani ai rapporti con la famiglia. Ma soprattutto all’indipendenza e all’autonomia. Tre su quattro, fra quanti hanno fino a 24 anni, li considerano molto importanti. Nel 2003 erano poco più di uno su due. Segno evidente che il sostegno della famiglia è necessario, ma, al tempo stesso, aumenta, la domanda di in-dipendenza. Di crescere e auto- realizzarsi. Di affermarsi e “fare carriera”. Obiettivo ambìto dal 41% dei più giovani: quasi 10 punti in più rispetto ai primi anni 2000. Una speranza che, per essere realizza- ta, li spinge a guardare — e andare — altrove. I più giovani, insieme ai giovani-adulti, i millennials, sono la generazione della rete, la generazione più globalizzata. Abituati a comunicare a distanza. E a orientarsi verso “altrove”, sostenuti dai genitori. E dai nonni. Per questo non riescono a sfuggire al senso di solitudine, che grava su tutta la società. Certo, i giovani-più-giovani sono sostenuti e aiutati da reti amicali più fitte. Ma i loro fratelli maggiori, i giovani-adulti, la “generazione del millennio”, ne soffrono più degli altri. Nel sondaggio di Demos-Coop, il 39% di essi, quasi 4 su 10, ammettono di “sentirsi soli”. D’altra parte, internet e i social media permettono di restare sempre in contatto con gli altri. Gli amici. Ma sei tu, davanti al tuo schermo. Da solo. Oppure in mezzo agli altri. A comunicare. Da solo. Con il tuo smartphone.
Così, le passioni non diventano “tristi”, ma più tiepide. Perché le stesse “fedi” sbiadiscono. E si perdono. La politica: non interessa più quasi a nessuno. Anche fra i più giovani. Presso i quali la componente che considera importante la politica non va oltre il 14%. Poco sopra alla media generale. Sono lontani i tempi della “contestazione”. La stessa “generazione dell’impegno” — del ’68 — appare disillusa. Elisa Lello, in una ricerca pubblicata alcuni anni fa, ha parlato di una “triste gioventù”, (Maggioli, 2015). Insomma, non c’è più fede. Soprattutto fra i più giovani. Lo ha spiegato Franco Garelli, studioso delle religioni giustamente ri-conosciuto, in un testo dal titolo esplicito: “Piccoli atei crescono” (Il Mulino, 2016). L’indagine di Demos- Coop lo conferma, visto che la religione è ritenuta importante solo dal 7% della “generazione della rete”. Un quarto, rispetto alla popolazione nell’insieme. Meno di un terzo rispetto al 2003.
In altri termini, “non c’è più religione”. Soprattutto fra i più giovani. Così, diventa difficile provare “passioni”. Accese e perfino tristi. Prevale il disincanto. E le passioni si raffreddano. Divengono tiepide. Eppure conviene “credere” nei giovani. Perché, comunque, più di tutti gli altri, “credono” nell’Europa. Perché sono il nostro futuro. E più di tutti gli altri, “credono” nel futuro.
Repubblica 30.10.17
Il vero confine sta nella familiarità con il digitale
di Luigi Ceccarini
Più sfiduciati i quarantenni a cui la crisi ha tolto le prospettive di carriera
Le generazioni sono diverse e dinamiche. Non è una novità e l’indagine Demos-Coop l’ha confermato rilevando orientamenti verso l’orizzonte di vita, il futuro, l’incertezza. È interessante non solo la differenza tra le generazioni – persone che sono cresciute in fasi storiche differenti - ma anche dentro le generazioni. Una cesura importante è tuttavia la distanza tra giovani e adulti. La ricerca evidenzia questa distinzione: i primi socializzati al tempo di Internet e del mondo globale, i secondi impegnati nella difficile gestione della vita quotidiana.
Rispetto ai primi si rilevano differenze tra i più giovani, la generazione della Rete, ventenni cresciuti durante l’era digitale, e quella dei trentenni: la generazione del millennio. Questa è cresciuta con l’Europa, come valore e come speranza, ma è anche quella che più risente della crisi economica. La disoccupazione ne caratterizza il profilo. Se stanno terminando gli studi non prefigurano grandi prospettive. Ritengono di appartenere a una generazione con scarse opportunità (29%). Per questo si accomunano con le generazioni successive, per la disillusione nel futuro che vedono incerto e rischioso (55%). Si sentono i più soli nel panorama delle generazioni (39%).
I giovani della Rete, anche per l’età, non pensano ancora concretamente al futuro e allo sbocco lavorativo: vi ripongono però un certo entusiasmo (45% vs 29%). L’aspirazione a una carriera di successo è un riferimento importante e (ritenuto) possibile. Sono i più fiduciosi nell’Europa (47%) e nella globalizzazione (51%). È, inoltre, una generazione senza religione (7%). Ma aperta al mondo e cosciente di dover muoversi in un mercato globale. L’estero come luogo di lavoro è parte della loro prospettiva (70%).
Gli adulti, secondo l’indagine Demos-Coop, si distinguono in modo netto dalla generazione giovanile considerata nel suo assieme. Questo si rileva a partire dalla generazione della transizione, cioè i quarantenni, cresciuti tra la fine del blocco sovietico e l’allargamento a Est dell’Ue. Sono i primi ad aver conosciuto e subito le conseguenze della crisi economica mondiale, con i riflessi su quantità e qualità del lavoro. Tra loro vi sono componenti scolarizzate e occupate, ma anche disoccupati con difficoltà nel ricollocarsi. Hanno perso il sogno della carriera di successo. Come le altre generazioni di adulti fanno osservare differenze negli orientamenti rispetto ai giovani: (s)fiducia nella globalizzazione 24% e nell’Europa 31%. Sono più incerti nel futuro, anche degli anziani (56% vs 44%).
Repubblica 30.10.17
La stagione della non politica
di Michele Ainis
IN PRINCIPIO c’era la politica, gonfia di sentimenti. Poi l’antipolitica, con i suoi risentimenti. Ora si è aperta la stagione della non politica, dove l’insofferenza è diventata indifferenza, distacco collettivo rispetto alle imprese dei politici. È questa l’eredità della XVII legislatura: aperta all’insegna dei furori contro ogni casta, si chiude lasciandoci casti d’ogni furore.
Le turbolenze che hanno accompagnato il Rosatellum ne offrono la prova più eloquente. Giacché lo scontro — aspro, drammatico, impetuoso — si è consumato tutto all’interno del Palazzo, senza infiammare gli italiani, senza trascinarli sul campo di battaglia. Quante persone sono accorse alle manifestazioni indette da Grillo e da Bersani, mentre il Parlamento votava la nuova legge elettorale? Poche centinaia. Nel 2002, per difendere l’articolo 18, Cofferati ne portò in piazza tre milioni. Sempre in quell’anno, s’imbastivano raduni danzanti, saltellanti: i girotondi. E in 15 mila sfilavano in corteo sotto la pioggia, come accadde a Firenze con la “marcia dei professori”.
Altri tempi, altre tempre. Agli inizi del terzo millennio, era ancora accesa la scintilla che nel 1948 spinse quattro milioni d’italiani a iscriversi ai partiti del Fronte popolare (Pci e Psi), che ancora nel 1990 generava due milioni di tessere per la Democrazia cristiana. Dopo di che, un po’ alla volta, quell’energia civile si è tramutata in apatia. E il quinquennio della legislatura ormai agli sgoccioli ha sancito il divorzio finale tra popolo e Palazzo. Nel 2013 il Pd contava 539 mila iscritti; adesso ne dichiara 405 mila, un quarto di meno. A sua volta, nel 2016 la nuova Forza Italia sommava 165 mila tesserati, quando nel 2007 la vecchia formazione aveva superato quota 400 mila. Mentre i 5 Stelle viaggiano con 170 mila iscritti, pur essendo il primo partito italiano.
No, la politica non è più capace d’intrigarci, di smuovere il nostro appetito. E infatti pratichiamo il digiuno elettorale. Il Parlamento in carica fu votato senza il concorso di 11 milioni d’elettori, un record. Ma a ogni elezione un nuovo record straccia quello precedente, perché ogni volta cresce l’astensione. Succederà anche alle prossime consultazioni siciliane, stando alle previsioni: secondo Demopolis il 52% del corpo elettorale non si presenterà alle urne. Come del resto avvenne nel 2015 in Toscana e nelle Marche. Com’è avvenuto alle comunali del 2017, dove l’affluenza si è fermata al 46%.
Tu dici: è il ritiro della delega, è la crisi della democrazia rappresentativa, un fenomeno che s’osserva in tutto il mondo. Ma allora dovrebbero trarne slancio gli istituti di democrazia diretta, insieme alla democrazia digitale che s’affaccia all’orizzonte. Viceversa in Italia gli ultimi referendum abrogativi ad aver superato il quorum furono quelli sull’acqua pubblica, nel 2011. Mentre il 22 ottobre scorso nella Regione più dinamica e moderna del Paese — la Lombardia — un referendum a voto elettronico, e con un messaggio subliminale che prometteva più quattrini, è stato disertato da 2 elettori su 3.
Insomma, la politica ci è venuta a noia. Non è più al centro dei nostri discorsi, dei nostri pensieri. Possiamo azzuffarci con gli amici per un gol, non per un voto. E i talk show politici hanno meno pubblico delle televendite. Un unico programma ci sveglia dal letargo: quando appare sugli schermi un condottiero solitario, ritto sul suo cavallo bianco. In questo caso ne accompagniamo le fortune, ne condividiamo le sventure. Com’è accaduto a Renzi, durante la parabola di questa legislatura.
Nel 2014 c’era un moto di simpatia nei suoi confronti, che gli recò un formidabile successo alle europee; due anni dopo lui era già antipatico, e il referendum costituzionale fu un formidabile insuccesso. Ma in entrambe le occasioni l’affluenza al voto s’attestò sul 60%, un picco che non si è più ripetuto. Merito delle specifiche questioni sottoposte agli elettori? No, merito di Renzi. Nel 2014, mentre si riempivano le urne alle europee, in Emilia crollava la partecipazione alle elezioni regionali (37%); nel 2016, l’anno del referendum costituzionale votato dal 65% degli italiani, rimase a secco il referendum sulle trivellazioni in mare, con un misero 31% di votanti.
Da qui un doppio problema per la democrazia italiana, perché nessun sistema democratico può reggersi senza un popolo che ne spartisca le vicende, e perché in democrazia il popolo si rispecchia nei molti, non nell’uno. Ma da qui il soccorso d’una regola non scritta degli ordinamenti costituzionali: quando s’allenta il controllo popolare, al contempo si rafforzano i controlli di legalità, e dunque cresce il peso dei garanti. Nei giorni in cui Mattarella s’accinge a promulgare la legge elettorale, il silenzio degli astanti quantomeno può permettergli di lavorare in pace.
Il Sole 30.10.17
Statali, alla scuola il conto maggiore della crisi
Dal 2010 buste paga reali scese del 12,8% - In controtendenza le Authority (+7,6%) e Palazzo Chigi
di Gianni Trovati
Dal 2010 lo stipendio medio reale nella scuola ha perso il 12,4% del proprio potere d’acquisto, e quello dei tecnici dell’università ha lasciato per strada l’11,8%. Nello stesso periodo, la busta paga tipo nelle Autorità indipendenti (Antitrust, Privacy, Energia eccetera) è cresciuta del 7,6%, negli enti pubblici come l’eterno abolendo Cnel o DigitPa (oggi agenzia per l’Italia digitale) è aumentata del 7% mentre Palazzo Chigi non segna impennate, ma riesce comunque a difendersi dal carovita: e a conservare il +23,5% raggranellato prima della crisi. Insomma: nella pubblica amministrazione la cultura non paga, l’autonomia sì.
I censimenti dell’Aran, l’agenzia che rappresenta la Pa come datore di lavoro, sull’evoluzione degli stipendi negli uffici pubblici offrono un termometro concreto per misurare gli effetti della crisi di finanza pubblica nei diversi rami della nostra amministrazione. All’appuntamento con il rinnovo dei contratti, bloccato dal 2010, imposto dalla Corte costituzionale nel luglio 2015, celebrato dall’accordo governo-sindacati nel novembre 2016 e ora finanziato dalla manovra che questa settimana inizia il proprio cammino al Senato, arriva insomma una pubblica amministrazione solo apparentemente monolitica.
Ora i tavoli sono aperti e i soldi sono in arrivo. Il pubblico impiego è l’unico settore a ricevere dalla legge di bilancio un finanziamento aggiuntivo scritto in miliardi (1,7) e non in milioni. Il super-assegno, che unito ai soldi messi da parte nelle ultime due leggi di bilancio porta a 2,85 miliardi l’accantonamento complessivo dedicato al tema, non basterà a placare tutti i maldipancia, perché Regioni ed enti locali dovranno trovare nei propri bilanci una somma quasi analoga per i dipendenti propri e della sanità. Ma ora bisogna passare ai fatti. E non sarà semplice.
Il rinnovo deve chiudere una sorta di “era glaciale”, che oltre ai contratti nazionali ha bloccato gli stipendi individuali e limitato al minimo i rinnovi degli organici. Ma il lungo inverno ha avuto effetti diversi da settore a settore. Dove il blocco delle buste paga individuali è stato totale, senza sconti, il potere d’acquisto del dipendente-medio è sceso in modo più secco, spinto al ribasso anche dai pensionamenti che hanno fatto uscire dal sistema gli stipendi cresciuti con l’anzianità, sostituendoli con (pochi) neo-assunti privi di scatti.
Ma in altre aree il freddo non si è sentito più di tanto, come mostra l’incrocio fra le retribuzioni medie e l’inflazione del periodo. Scuola, Regioni, enti locali, ministeri, sanità ed enti di ricerca hanno pagato alla crisi un prezzo più o meno pesante, mentre in generale è andata molto meglio alle aree più piccole, da centinaia di dipendenti e spesso coperte dallo scudo efficace dell’autonomia. La regola ha funzionato splendidamente nelle Authority, in alcuni enti pubblici minori, ma anche sul territorio. Nei monitoraggi Aran pubblicati in pagina il dato non c’è, ma i conti della Ragioneria (che mostrano la media complessiva per settore senza distinguere dipendenti e dirigenti) offrono sul punto un numero chiaro: nell’Italia ordinaria lo stipendio medio di Regioni ed enti locali si ferma a 29.057 euro lordi all’anno, dove l’Autonomia è “speciale” diventa speciale anche la busta paga: 35.345 euro, cioè il 21,6% in più.
Le trattative per i rinnovi contrattuali si dovranno occupare anche di queste vite parallele fra i comparti, a partire dal caso della scuola: il settore di gran lunga più numeroso all’interno della pubblica amministrazione, che ha pagato il pegno maggiore alle misure anti-crisi. Nel tentativo di tamponare le buste paga leggere degli insegnanti è stata creata la carta del docente, con il bonus da 500 euro all’anno per acquistare libri, software o partecipare a corsi di formazione. Anche il destino di questo strumento si incrocia però con il rinnovo contrattuale: nella scuola la riscrittura delle intese nazionali costa 1,6 miliardi, e la ricerca di risorse guarda in tutte le direzioni, compreso il bonus e i 200 milioni da distribuire in base al “merito”. A scuola è atteso anche il primo passo che avvicinerà gli stipendi dei presidi a quelli degli altri dirigenti pubblici, con un aumento che entro il 2020 dovrebbe arrivare a 400 euro (come anticipato sul Sole 24 Ore del 18 ottobre) e che fa storcere il naso agli insegnanti.
Un altro tema bollente per il tavolo dei contratti, dopo che il governo si è finora opposto all’idea di concentrare tutto sui contratti, per una ragione politica ma anche per un motivo tecnico. Se assorbisse bonus e premi, il nuovo contratto finirebbe per dare meno degli 85 euro lordi promessi dall’intesa, replicando nella scuola il caso 80 euro.
Il Fatto 30.10.17
“L’allarme di Grasso è grave. Il Colle valuti bene se firmare”
Il magistrato e l’iter del Rosatellum: il Presidente del Senato ha parlato di “comportamenti che imbarazzano le istituzioni”
di Sandra Amurri
“Se dopo l’approvazione del Senato la promulgazione della legge elettorale da parte del Presidente della Repubblica appariva scontata, oggi, stante il giudizio sulla stessa che ha accompagnato le dimissioni dal Pd del Presidente del Senato Piero Grasso, non sembra esserlo più”. “…Assisto a comportamenti che imbarazzano le istituzioni e ne minano la credibilità e l’indipendenza”. A spiegarne le ragioni è Otello Lupacchini, magistrato di lungo corso ed esperienza che va dalla Banda della Magliana agli omicidi del giudice Mario Amato, del banchiere Roberto Calvi, del professor Massimo D’Antona, alla strage di Bologna. Oggi è Procuratore Generale di Catanzaro.
Dottor Lupacchini, Mattarella, rispondendo alla domanda di un ragazzo della delegazione di studenti delle scuole superiori al Quirinale su cosa fa quando le arriva una legge che non le piace ha detto: ”Non contano le mie idee perché non è a me che la Costituzione affida il compito di fare le regole con le leggi…” avendo io piuttosto “l’obbligo di firmare, perché guai se ognuno pensasse che le proprie idee personali prevalgono sulle regole dettate dalla Costituzione”. Però, ha aggiunto “C’è solo un caso in cui posso – anzi devo – non firmare: quando arrivano leggi o atti amministrativi che contrastano palesemente, in maniera chiara, con la Costituzione”. Ecco, dottor Lupacchini, esiste la possibilità che il giudizio tranchant del Presidente del Senato possa evocare un contrasto con la Costituzione?
A norma dell’art. 73 della Costituzione, le leggi “sono promulgate dal Presidente della Repubblica”, dopo aver esercitato sulle stesse un controllo non puramente formale. Che, infatti, controllo e promulgazione siano “due” attività distinte lo dimostra il fatto che il Presidente della Repubblica, sempre a norma del citato articolo 73 può rinviare il testo alle Camere, alle quali con messaggio motivato chiede una nuova deliberazione. È ovvio che il Presidente non abbia alcun obbligo di rinviare alle Camere con messaggio motivato la legge elettorale appena approvata, magari piegandosi alla sola pressione della piazza. Egli dovrebbe, tuttavia, esercitare il potere di veto sospensivo se, al controllo, emergesse che la legge contrasta con la Costituzione e/o che i contenuti della legge stessa possono turbare l’equilibrato funzionamento delle istituzioni”.
Ma “comportamenti che imbarazzano le istituzioni e ne minano la credibilità e l’indipendenza” come dichiara Grasso, potrebbero costituire un turbamento, dell’equilibrato funzionamento delle istituzioni?
Non ho titolo per interpretare il messaggio veicolato dalle parole del Senatore Grasso. Ritengo, però, che, proprio di fronte al suo giudizio pesantemente critico, espresso, credo, quale presidente del Senato, il controllo preventivo del Capo dello Stato dovrà essere, se possibile, ancor più penetrante. In ogni caso, il Presidente della Repubblica dovrà verificare se la nuova legge elettorale sia rispettosa dei principi esigibili dalle reiterate declaratorie di illegittimità di quelle che l’hanno preceduta: non vi è, infatti, il tempo per ottenere la correzione degli eventuali vizi mediante il ricorso alla Consulta, sicché, proprio per effetto della “prorogatio” delle Camere, quantunque elette con regole successivamente dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, si potrebbe assistere ancora una volta alla sopravvivenza, di fatto sino a scadenza naturale, di un Parlamento potenzialmente illegittimo. In ogni caso, considerata l’ampia maggioranza con cui la legge elettorale è stata approvata, non sarebbe un dramma se il Presidente della Repubblica la rimandasse alle Camere: vi sarebbe tutto il tempo, prima della scadenza naturale della legislatura, per riapprovarla modificata.
Il Fatto 30.10.17
Massimo Mucchetti
“Questo Pd è pericoloso, serve un nuovo segretario”
Il senatore dem non ha votato la fiducia sul Rosatellum. Ora chiede ai big del partito di pensare al “dopo Renzi”
intervista di Stefano Feltri
Massimo Mucchetti, lei è uno dei sette senatori del Pd che non ha partecipato al voto finale sulla legge elettorale, non ha votato la fiducia ma si è detto presente per non far mancare il numero legale. Che senso ha?
Se vuol accusarmi di bizantinismo, le do ragione. Ma non ho saputo far di meglio. Sono contrario a questa legge elettorale dannosa per la rappresentanza del Paese, suicida per il centro-sinistra e favorevole al centro-destra per avere in cambio il potere di fare le liste del Pd.
Perché non ha cercato di far mancare il numero legale?
La forzatura del governo aveva lo scopo di far passare la legge elettorale prima del voto siciliano. Gentiloni ha subìto Renzi, ma non ero e non sono disposto a dare una mano a quanti vorrebbero far cadere il governo senza sapere come sostituirlo e come, non riuscendo a varare la legge di bilancio2018, evitare all’Italia l’esercizio provvisorio.
Meglio l’esercizio provvisorio di una legge di bilancio elettoralistica.
Con l’esercizio provvisorio l’Italia rischia turbolenze sui mercati. Gentiloni disinnesca l’obbligo ad aumentare l’Iva, la clausola di garanzia, costo nascosto delle precedenti manovre di Renzi. Ma poi, al netto delle spese obbligate e del rinnovo del contratto degli statali fermo da anni, non resta quasi nulla per le solite mance. Si sarebbe potuto fare in parte l’aumento dell’Iva, e ricavare le risorse per una politica industriale forte, oppure sfondare il tetto del 3% al deficit. Questo governo non ha la forza per nessuna delle due scelte. E forse è bene così essendo la seconda pericolosissima se condizionata dalla demagogia. In compenso si dovrebbe varare la Web Tax, una scelta coraggiosa, all’avanguardia in Europa.
Dove sta il coraggio?
Sono tre anni che, assieme ad altri parlamentari come Boccia, Quintarelli e Zanetti, batto questo chiodo. Inascoltato. Da un anno le commissioni Finanze e Industria del Senato, in particolare i relatori Marino e Susta, stanno lavorando su un mio disegno di legge. Ora Germania, Francia, Italia e Spagna hanno chiesto un provvedimento della Ue. E Paolo Gentiloni ha detto che l’Italia comunque partirà subito. Stiamo ragionando con il ministero dell’Economia nel quadro dei trattati. Ma l’iniziativa è e sarà del Parlamento. Mi auguro che il Senato vari la norma con un emendamento alla legge di bilancio. Il gettito verrà con il tempo, ma sarà una rivoluzione.
Renzi aveva fermato i tentativi di introdurre la web tax.
Potrebbe recuperare dicendo che la web tax è solo il primo passo verso la regolazione delle piattaforme digitali, i nuovi monopoli. E magari venire al convegno che faremo senza offendersi se lo critichiamo sulla legge elettorale o su Bankitalia.
Come legge gli attacchi di Renzi al governatore Ignazio Visco?
L’ex premier, con fanciullesca ignoranza, cerca un capro espiatorio per nascondere le responsabilità dei suoi governi nella costosa risoluzione delle crisi in Etruria, Mps e nelle popolari venete. E cerca vendetta.
Ignoranza e vendetta?
Renzi imputa a Visco un’insufficiente vigilanza sulle banche pericolanti e fa scrivere ai cronisti che avrebbe preferito Fabio Panetta. Ma dal 2005 il governatore opera attraverso un direttorio a cinque, dove ciascuno ha un voto; Panetta aveva la supervisione della vigilanza e tutto è stato deciso all’unanimità. Renzi e la Boschi si vantano di aver commissariato Etruria dove Boschi senior era consigliere e poi vicepresidente. Ma il governo ha solo eseguito il commissariamento chiesto dalla Bankitalia, mentre la Boschi cercava di coinvolgere Unicredit per evitare quell’esito.
Carlo Messina, ad di Intesa, ha evocato un problema reale: l’Italia deve essere rappresentata al meglio in seno alla Bce dove si definiscono le regole sui titoli di Stato e i crediti deteriorati. Oggi Bankitalia è più forte o più debole di ieri?
Messina ha detto bene, ma ha aggiunto che Panetta aveva ben meritato in Europa, tirando così la volata alle polemiche renziane. L’ad di Unicredit, Mustier, ha esaltato Visco. Entrambi avrebbero fatto meglio a tacere. Non sta a soggetti vigilati parlare del vigilante di ieri che oggi, comunque, concorre alla vigilanza unica. Le uscite di Renzi certo non hanno fatto bene alla banca centrale. Proprio per questo la riconferma di Visco era obbligata.
Ma non si può criticare la Banca d’Italia?
Si può e si deve nei modi opportuni da parte di chi può farlo. Il Fatto lo fa spesso. Chi le parla lo ha fatto più volte, anche da senatore. I politici al governo lo hanno fatto meno, male e fuori tempo. Hanno dormito sul bail in nonostante le avvertenze della Banca d’Italia. Non hanno capito nulla su Mps e hanno cambiato linea sulle venete. Si indaghi bene, magari lasciando fuori dalla porta il tesoriere del Pd che Renzi ha infilato nella commissione… Ma la legge non assegna al Parlamento alcun ruolo nella nomina del governatore. Per le Autorità è previsto il parere vincolante delle Camere, per il governatore nulla. Al Pd non piace? Cambi la regola.
Il presidente del Pd Matteo Orfini chiede di intervenire sul caso Mps-Antonveneta.
Immagino che voglia mettere in mezzo l’allora governatore Mario Draghi che a quella acquisizione non si oppose. Chiunque può apprezzare il senso di responsabilità che ispira l’idea di coinvolgere in giochetti dilettanteschi il presidente della Bce che ha salvato l’Italia con il quantitative easing.
Vuol scoprire la verità, dice.
Cominci a studiare le carte… Temo che stia dilagando nel Pd un’irresponsabilità istituzionale preoccupante. Il leader del Pd non va contro il presidente della Repubblica, il presidente del Senato e il premier, che aveva eletto, e contro il presidente emerito della Repubblica, che lo aveva incaricato, con tanta leggerezza. Mi auguro che quanti ancora credono a un Pd attendibile, da Walter Veltroni a Piero Fassino, chiedano la convocazione di una direzione straordinaria per la nomina di un nuovo segretario.
Il Fatto 30.10.17
Renzi e lo sgarbo a Gentiloni: non cita lo ius soli, “l’avevo appuntata, poi”. E poi fa il bullo anche con Franceschini
Il segretario non cita lo Ius soli: “L’avevo appuntata, poi...”. Al ministro dice: “Conosci i collegi”. Messaggio: deve guadagnarti i posti per i tuoi. E dà dell’ultrà a Grasso
di Wanda Marra
La foto di gruppo Matteo Renzi alla fine della Conferenza programmatica a Pietrarsa la fa sul treno, davanti ai giornalisti, e non sul palco a conclusione del comizio, come in tutte le ultime conclusioni pubbliche. La squadra, che nell’intervento di sabato Paolo Gentiloni gli ha raccomandato, è un concetto relativo: basta che sia chiaro chi decide.
Il segretario del Pd parla in chiusura: “Sono più importanti i voti dei veti. Non possiamo permetterci di chiudere l’alleanza senza avere il centro e non possiamo mettere veti a sinistra”.
Il premier gli aveva chiesto un allargamento, come da mesi fanno Orlando e Franceschini, lui a parole lo segue. Ma la vera apertura è verso il centro. Dà dell’ “ultras” a Pietro Grasso, appena uscito dal Pd. E anche sui contenuti: “Dobbiamo avere due parole chiave: abbassare le tasse sul lavoro. E poi ridurre le tasse alla famiglie”. A rivendicare le politiche del governo – quelle che Mdp gli rimprovera – era stato Matteo Orfini: “Io faccio fatica a immaginare un’alleanza con chi mi dice di chiedere scusa per i 900mila posti di lavoro creati grazie al Jobs Act”. L’apertura, dunque, è più di forma, che di sostanza. Renzi al massimo spera di “svuotare” Mdp (e infatti “saluta” l’arrivo di Dario Stefano e ancora aspetta Pisapia) e si rivolge al centro. Con quel mondo lì, da Alfano a Casini, dai cattolici di Sant’Egidio, passando per il gruppetto di Della Vedova e dei Radicali, c’è tutto un lavorio in corso. In questi giorni, il treno si è trasformato in una specie di ufficio trattative per i posti sicuri. Da vedere se poi il centro sceglierà l’ex premier.
Ieri, intanto, i flash sono tutti per Maria Elena Boschi: giro da diva, tacchi altissimi con borchie dorate (che poi si cambia). E l’ influenza che l’avrebbe tenuta lontana dal Cdm di Visco?
Poi, via sul treno. Renzi si porta dietro lei, più 6 ministri (Fedeli, Minniti, Franceschini, De Vincenti, Pinotti e Madia), oltre a una serie di parlamentari (Bonifazi, Richetti, Giachetti). La photo opportunity stavolta suggerisce che il governo è sul treno.
Fondamentale un’assenza nel comizio di Renzi: neanche una parola sullo ius soli, dopo che Minniti e Gentiloni avevano espresso il loro impegno. In treno Renzi a domanda risponde: “Me l’ero appuntato, poi..”. Poi, non ne ha parlato. Distrazioni selettive. Chiarisce: “Se ci sarà la fiducia il Pd la voterà convintamente. La decisione se metterla o no è nelle mani del presidente del Consiglio”. Come dire, la scelta (e la responsabilità) con i centristi che fanno le barricate e il rischio che si sciolgano le Camere su un voto di sfiducia è tutta del premier. Non risparmia neanche Franceschini: “Tu sarai contento, tu che sei sempre stato un fautore della vocazione maggioritaria”, dice, prendendolo in giro. Poi lo invita a tornare sul treno, a Ferrara: “Tu sai i collegi a memoria”. Una maniera indiretta per fargli sapere che sia lui che i suoi uomini se vogliono essere eletti i voti dovranno andare a prenderseli nei collegi, non sperare in un posto nei listini sicuri. Il ministro della Cultura, quando esce, non sorride più.
Renzi, invece, si diverte. Tanto che si improvvisa pure capotreno. In un messaggio diffuso dall’altoparlante avverte: “Gentili clienti, vi ringrazio per aver scelto il treno del Pd, vi informiamo che il treno è in arrivo a Roma, con 25 minuti di anticipo e questo conferma che il Pd è sempre avanti. Vi ringrazio per averci scelto, vi sarò ancora più grato se lo farete a marzo del 2018”. Incidentalmente, detta pure la sua data del voto. A proposito di chi comanda. Almeno fino a prova contraria. Per cominciare, il voto in Sicilia. Oggi comunque vola da Obama, a Chicago, con Giuliano da Empoli, e sparisce per tutta la settimana.
La Stampa 30.10.17
I Presidente della Toscana
Ma Rossi chiude la porta: “Non vedo le condizioni per allearsi con Matteo”
“Non capiscono lo strappo, e addirittura attaccano Grasso”
di Andrea Carugati
«Non vedo le condizioni per un’alleanza col Pd alle prossime politiche. Due settimane fa Roberto Speranza ha lanciato un ultimo appello a Renzi, “Fermiamoci a riflettere sulla legge elettorale e niente voto di fiducia”. La risposta sono stati altri 5 voti di fiducia, Pietro Grasso ha lasciato il Pd parlando di una violenza contro il Senato. Parole che sono ancora più credibili perché dette da un uomo delle istituzioni». Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, è uno dei coordinatori di Mdp, l’unico tra i big del nuovo partito che ancora governa insieme ai dem.
Lei che governa la regione col Pd dovrebbe essere tra i più attenti alle parole di Renzi che ha detto di volere una coalizione di centrosinistra “senza veti”.
«Si sono approvati questa legge con una grave forzatura e nell’apoteosi di Verdini e ora scoprono che serve una coalizione? Non mi pare che nella discussione fatta dal Pd e nelle parole di Renzi, sia emersa la gravità di quello che è stato fatto, uno strappo irreversibile. Anzi, è stato detto che Grasso parla come un ultras».
Questo è il motivo del vostro no?
«Le distanze sui programmi sono molto forti, Renzi ha fatto politiche neo-reaganiane che hanno aumentato le diseguaglianze. Ormai è un partito di centro che guarda a destra. Non significa che il Pd sia il nostro nemico, o che non si possa discutere sulla base dei programmi dopo le elezioni. C’è una parte del Pd che è più sensibile ai temi che poniamo, penso a Cesare Damiano sulle pensioni o sui licenziamenti. Si potrà fare in modo pacato, senza invettive, senza ricorrere sempre a categorie psicologiche come il rancore».
Renzi ha detto che senza il Pd “non c’è la rivoluzione socialista ma c’è Di Maio”.
«Questi appelli alla sacra unione non mi paiono convincenti per quegli elettori che hanno smesso di votare Pd. Anzi, credo che molti che si sono rifugiati nel M5S possano tornare indietro di fronte a una nuova sinistra. Per anni si è andati avanti col meno peggio e così siamo arrivati al peggio. Ora basta».
Non voterete la legge di Bilancio?
«Io non sono in Parlamento ma non la voterei. Si continua con i tagli alla sanità e al sociale, scaricati sulle regioni ma sempre sulla pelle dei cittadini. Sono politiche vecchie. Non mi convince la decontribuzione per assumere i giovani: gli imprenditori mi dicono che non incentiva le assunzioni, per una vera ripresa servirebbero investimenti pubblici che sono sempre di meno».
Nel Pd molti big stanno pressando Renzi per fare una alleanza anche con voi. Se dite no non rischiate di passare per quelli che fanno vincere il centrodestra?
«Con i collegi, al Nord il Pd perde anche se si allea con Superman. Al centro i loro dirigenti dicono che vincono in ogni caso e il sud è una grande incognita. Insomma, non vedo neppure per il Pd una grande necessità di fare accordi con noi. Gentiloni? E’ vero, ci sono accenni di dialettica interna, ma non portano mai a un ripensamento. Alla fine prevale sempre Renzi, gli altri fanno al massimo la parte dei sottufficiali. Ma purtroppo Matteo usa il vecchio schema che non funziona più, e non si adegua al cambiamento dei tempi. Non ascolta l’insegnamento del Machiavelli».
Vuol dire che nel Pd gli altri big non contano?
«La svolta in quel partito ci doveva essere il 5 dicembre, dopo il referendum. Dirigenti come Franceschini, ma anche Delrio, avrebbero dovuto chiedere un congresso vero e rimescolare le carte. E invece hanno di fatto accettato la trasformazione nel partito di Renzi».
Dopo il voto in Sicilia le cose potrebbero cambiare?
«Noi guardiamo con vivo interesse a quello che accade tra i dem, ma davvero non credo che cambierà molto. Chi potrebbe cambiare la linea di Renzi? Lui è stato legittimato dalle primarie, e andrà avanti per la sua strada».
Repubblica 30.10.17
Franceschini e Orlando: “Passo avanti”. Ma il leader non vuole ricucire con i bersaniani, e viceversa. “La cittadinanza? Me ne sono dimenticato...”
“Alleanze a sinistra? Non mi illudo” E l’ex premier non parla di Ius soli
Orfini: “Dobbiamo porci il problema di quanti voti può perdere il Pd a causa di accordi sbagliati”
di Goffredo De Marchis
NAPOLI. «Senza farmi troppe illusioni », è il corollario all’apertura sulle alleanze a sinistra che depotenzia tutto l’impianto. Matteo Renzi si riferiva naturalmente a Mdp, a Bersani e Speranza, quando ha escluso «veti al centro e a sinistra» e spiegato di essere pronto a «superare gli insulti ricevuti». Per un giorno ha seguito la “dottrina Gentiloni”, l’idea che il Pd, come perno centrale di una coalizione, si faccia carico di allargare, di unire per non perdere e non seguire la massima di De Coubertin. Dottrina che prima del premier avevano messo in campo Dario Franceschini e Andrea Orlando (e con loro Anna Finocchiaro, Michele Emiliano insieme ad altri dirigenti), non a caso ieri soddisfatti per l’intervento conclusivo del segretario alla conferenza programmatica del Pd, nel museo ferroviario di Pietrarsa. Il ministro della Giustizia dice: «Manca il come e il quando, ma è un passo avanti». E il ministro della Cultura resta convinto che bisogna superare gli steccati: «Ha detto non metto veti a centro e sinistra. Quindi, il messaggio era rivolto a tutti».
Il dialogo con i fuoriusciti rimane complicatissimo, per responsabilità che vanno divise quasi in pari misura. C’è un fronte nel Pd, che dando credito alle dichiarazioni del segretario, cerca di sollecitarlo, di spingerlo a fare un sacrificio maggiore. «Costruire un’ampia coalizione è compito di tutti», sottolinea la Finocchiaro. Ma Renzi attende la forza delle cose. Ovvero, il risultato siciliano che può dimostrare le difficoltà del Pd ma anche la scarsa tenuta scarsa dell’intero centrosinistra. Perciò - è convinto - si porrà il problema di un ripensamento tra i bersaniani. Eppoi, le regole della nuova legge elettorale che «in fondo - come spiega il leader del Pd ai fedelissimi - è in vigore da soli tre giorni». Ognuno verrà chiamato a studiare i pro e i contro del marciare separati. Franceschini, in versione speranzoso, crede che «i collegi uninominali e il turno unico del Rosatellum » produrranno l’effetto calamita della ricerca di una coalizione, naturalmente intorno al Partito democratico. Ma Renzi vede chiaramente come la galassia a sinistra dei dem stia cercando di organizzare qualcosa che marcia contro e non insieme al Pd.
Il passaggio del discorso sul fatto che «non è importante il leader ma la vittoria del Pd» non significa certamente un passo di lato da parte del segretario sulla premiership. Anzi, è evidente che la conferma della sua candidatura a premier è la premessa a qualsiasi alleanza. Non si fanno coalizioni rimettendo in discussione l’esito delle primarie, questo dev’essere chiaro. Il treno ormai è partito. Lo dimostra anche la “dimenticanza” di un sostegno alla battaglia per lo Ius soli, legge rilanciata sabato con «solennità» da Gentiloni e Minniti. Il segretario non ne parla, poi spiega: l’aveva scritto ma non ha fatto in tempo a leggere quel brano. Il punto è che la campagna elettorale è cominciata, lo Ius soli è una priorità più per il governo in carica che per chi cerca il consenso elettorale.
La domanda adesso è se l’apertura sia concretizzabile o meno. Su questo ragiona Renzi. I renziani sono sicuri che la partita a sinistra sia solo agli inizi. E di poter attirare dalla propria parte pezzi di quel mondo. Sandro Gozi ieri mattina è stato spedito a Roma a presenziare all’iniziativa europeista dove era presente anche Giuliano Pisapia. Dario Stefano, ex Sel, non ha mancato un giorno al museo ferroviario. La base di Mdp, sul territorio, alla fine farà i conti con le forze in campo collegio per collegio. Infine, c’è la cifra del renzismo: la battaglia generazionale. Ancora una volta si scommette sulla voglia dei giovani di Articolo 1 di liberarsi dall’ipoteca della vecchia guardia.
Troppi incastri per rendere il percorso in discesa. Ma anche il rischio di un Pd coalizzato solo con dei “cespugli” di minime dimensioni spaventa una parte del gruppo dirigente. «Capisco i dubbi - replica Matteo Orfini -. Ma se guardiamo i sondaggi, con tutto il rispetto, nessuna forza fuori dal Partito democratico raggiunge percentuali alte. Mdp compresa. Dobbiamo anche porci il problema di quanti voti può perdere il Pd in un’alleanza che non viene capita».
La Stampa 30.10.17
Ecco i nuovi regolamenti anti-trasformisti delle camere
di Carlo Bertini
Nel derby tra Camera e Senato su quella che molti giudicano una delle riforme più importanti per il processo legislativo, quella dei regolamenti, Palazzo Madama potrebbe piazzarsi primo. Vincitore in zona Cesarini, se è vero che il testo della riforma verrà messo ai voti in aula dopo la manovra economica, cioè a fine novembre. Si tratta di una svolta epocale che pare trovare d’accordo a Palazzo Madama tutti i gruppi dei partiti che contano: Luigi Zanda del Pd insieme ad Anna Maria Bernini di Forza Italia, Paolo Buccarella dei 5Stelle e altri senatori dei partiti minori hanno messo a punto in un comitato ristretto un testo concordato. La più importante rivoluzione sul piano politico è il divieto di iscriversi a gruppi, che non siano il Misto, diversi da quelli di un partito eletto dal popolo. E forse anche per non entrare in contraddizione con questa futura regola che il presidente Grasso si è dovuto iscrivere al gruppo Misto: lo stesso gruppo, fanno notare i maligni del Pd, presieduto dalla senatrice De Petris di Sel, che gli ha occupato la sedia mercoledì durante la protesta in aula per la riforma della legge elettorale. Altra curiosità: il comma 4 dell’articolo 27 del nuovo regolamento impedirebbe al presidente di fare la scelta appena fatta, se non a prezzo delle sue dimissioni. Stessa cosa varrebbe per vicepresidenti e questori. «I componenti dell’ufficio di presidenza - recita il testo - che entrano a far parte di un gruppo diverso da quello al quale appartenevano al momento dell’elezione, decadono dell’incarico».
Ma ecco alcune delle novità che potrebbero vedere la luce se la riforma dei regolamenti parlamentari verrà approvata dal Senato entro dicembre. Una delle più significative svolte del processo legislativo è che i disegni di legge verranno di norma assegnati in sede deliberante alle commissioni; viceversa, se dovessero passare per il voto dell’aula, verrebbero stabiliti tempi certi per l’esame. Così come tempi certi avrebbero le leggi dichiarate urgenti o prioritarie dal governo, che non avrebbe dunque motivo per inflazionare l’uso dei decreti legge. E il fatto che non si potrà più chiedere il numero legale a inizio di seduta, farà guadagnare un’ora di lavoro se non di più per ogni giornata di votazioni in aula.
Corriere 30.10.17
Liceali e laureati lasciano il Sud
Ora l’emigrazione è intellettuale
di Dario Di Vico
Volendo catalogarla proviamo a definirla «nuova emigrazione intellettuale», nuova perché ha caratteristiche profondamente diverse dalle ondate del passato che avevano ridisegnato l’Italia a partire dagli anni 60, intellettuale perché riguarda per la stragrande maggioranza laureandi e laureati. I flussi da Sud a Nord non sono certo una novità nella storia patria ma i numeri che circolano giustificano un allarme che sarà ribadito nei prossimi giorni dal Rapporto annuale della Svimez. Se infatti già negli anni che corrono dal 2002 al 2015 il saldo migratorio netto di laureati segnava -198 mila, la tendenza si va rafforzando e coinvolge adesso anche i diplomati delle scuole medie superiori che vanno ad immatricolarsi negli atenei del Centro Nord.
Conseguenze demografiche
Il rischio è fin troppo evidente: un impoverimento culturale del Mezzogiorno senza precedenti, un drenaggio di intelligenze, competenze e talenti destinato a influenzare la vita civile, amministrativa e politica. «Può sembrare sproporzionato e anacronistico, al tempo delle grandi migrazioni dal Sud al Nord del mondo, focalizzarsi sulle migrazioni interne — spiega Giuseppe Provenzano, vicedirettore della Svimez — ma si tratta di un fenomeno rilevante che ha conseguenze demografiche più generali e pressoché unico nei Paesi sviluppati». L’accenno alle conseguenze demografiche allude a un’altra pericolosa novità, il calo della fertilità. Il Sud non fa più figli come una volta e perde i suoi talenti, si crea così una tenaglia pericolosissima. Saltano le vecchie reti di subcultura che riproducevano tradizioni/ruoli e in parallelo non si sviluppa di una società civile moderna, dinamica e responsabile.
Chi studia il fenomeno delle vite mobili dei giovani meridionali segmenta in tre comparti i nuovi flussi Sud-Nord: i diplomati delle scuole medie superiori che scelgono di andare a studiare altrove, i laureati delle università meridionali che appena presa la pergamena volgono la prua nella stessa direzione e i pendolari a lungo raggio, residenti nelle regioni del Sud (magari solo per pagare una polizza auto più bassa) ma che di fatto vivono/lavorano al Nord. Cominciano dai teen ager. La mobilità universitaria in Italia è generalmente elevata, uno studente su cinque frequenta atenei che non sono localizzati nella sua regione ma questi trasferimenti visti dal Sud sono pressoché a senso unico. Secondo l’economista Gianfranco Viesti, docente all’università di Bari, un quarto degli studenti meridionali oggi si immatricola negli atenei del Centro-Nord. Nel 2015-16 Puglia e Sicilia hanno perso 6 mila studenti guadagnati da Lazio, Emilia e Lombardia e in totale oggi il 24% delle immatricolazioni (in valori assoluti 25 mila persone) ogni anno si sposta verso Nord. Viesti cita una ricerca della Fondazione Res che ha calcolato, tra l’altro, come sommando le tasse universitarie, l’alloggio e il vitto si trasferisce anche una spesa di 2,5 miliardi l’anno. «Se ne vanno gli studenti forti, quelli con il voto di diploma più alto, quelli che vengono dai licei e che hanno la famiglia con il miglior reddito».
Le università e il lavoro
Cosa alimenta la diaspora? Viesti che sta conducendo una battaglia in merito risponde e polemizza: «Non discuto il valore di quelle università ma spesso il loro prestigio è costruito anche attraverso buone campagne sui mezzi di comunicazione e robusti investimenti di marketing». A determinare il tutto, secondo l’economista barese, concorrono più fattori: l’ampiezza dell’offerta formativa, la maggiore qualità percepita di alcune università del Nord ma soprattutto i canali che esse offrono per incontrare la domanda di lavoro dei laureati. «Negli ultimi anni c’è stato uno spostamento degli studenti più verso Milano e Torino a danno del Lazio e della Toscana. Da cosa è dipeso? Da uno scadimento delle università del Centro o dal fatto che gli sbocchi di lavoro sono più forti al Nord? La risposta è facile». E un’ulteriore dimostrazione secondo Viesti la si rintraccia esaminando i dati dei laureati del triennio. Nel 2008-2014 l’11% dei meridionali e il 15% degli universitari delle Isole aveva scelto di prendere la successiva laurea magistrale al Nord, ora questi numeri sono saliti (e quasi raddoppiati) al 19 e al 29%. La tesi finale è semplice: non è tanto la variazione della qualità dell’insegnamento a spostare i numeri ma l’aumento delle differenze nel mercato del lavoro.
Un ruolo decisivo nell’influenzare le scelte dei giovani liceali lo giocano anche la possibilità di spostamento e la disponibilità di reti di trasporto. I collegamenti Nord-Sud sono aumentati di numero e calati di prezzo grazie ai voli low cost mentre rimangono del tutto carenti i servizi di trasporto dentro il Mezzogiorno. «Un siciliano può raggiungere con relativa facilità e a costi contenuti un ateneo del Centro-Nord mentre gli è impossibile raggiungere una facoltà della Calabria o della Puglia». E i numeri confermano: Trapani in virtù del servizio Ryanair vede i suoi giovani lasciare la città con una quota-record del 60% contro un modesto 6% dei teenager napoletani. «Le università del Sud però non sono del tutto innocenti — obietta Andrea Toma, ricercatore del Censis e autore di uno studio condotto per Confcooperative —. La relazione che hanno saputo costruire con il sistema delle imprese in molti casi è debole». E così si finisce per creare «un circolo vizioso»: più immatricolati fuori, minori introiti per gli atenei, servizi meno curati e reputazione compromessa. «Non dimentichiamo poi — aggiunge Toma — che per i genitori del Sud spesso avere un figlio che studia al Nord è addirittura un elemento di status».
Dai teenager passiamo ai giovani meridionali che continuano a laurearsi nelle università del Sud ma che una volta finito il ciclo di studi si rivolgono immediatamente al mercato del lavoro settentrionale. Per rintracciare le loro scelte nelle statistiche le possibilità sono due: a) li si ritrova nelle cancellazioni — in aumento dall’anagrafe —: nel 2015 sono stati 30.700 i laureati che si sono trasferiti, erano 13 mila nel 2002 e 21.600 nel 2008; b) oppure vanno a ingrossare le fila dei pendolari di lungo raggio residenti nel Mezzogiorno che lavorano stabilmente al Centro-Nord. È questo il terzo segmento dei nostri emigrati intellettuali e nel 2016 contava ben 137 mila unità. Di cui ben 46 mila sono laureati, all’incirca un terzo. Quindici mila vengono dalla Campania, 12 mila sono siciliani, 6 mila calabresi e 5 mila pugliesi. È interessante annotare come Roma sia la calamita principale di questi laureati più del Nord Ovest e del Nord Est: nel 2016 hanno pendolato con la Capitale 22 mila laureati contro i 16 mila del Nord Ovest. La condizione transitoria di pendolare corrisponde a un progetto di vita incompiuto e non elaborato pienamente, in fondo non hanno ancora deciso se restare, andare all’estero o tornare nel Mezzogiorno. Un limbo causato anche da un mercato del lavoro diventato più precario e frammentato. È comunque la strutturale carenza di occasioni di occupazione qualificata nel Sud a rappresentare, secondo gli analisti, la causa prima negli anni 2000 di questi flussi di pendolarismo. «Si sono ristretti gli spazi occupazionali nella pubblica amministrazione alle prese con problemi di budget e risulta del tutto insufficiente la presenza di imprese di medio-grande dimensione e dei servizi avanzati in grado di assumere personale di livello elevato. Manca la domanda» sostiene Provenzano. La perdita di tali professionalità diventa doppiamente penalizzante, determina il fallimento economico dell’investimento formativo (i costi) e il venir meno di energie e di competenze necessarie per far partire nel Sud un processo di sviluppo stabile e adeguato alle dimensioni demografiche dell’area. «Il calcolo del costo della formazione persa è presto fatto: se prendiamo il saldo negativo di 200 mila laureati accumulato dal 2002 al 2015 e lo moltiplichiamo per la media Ocse delle risorse necessarie per formare un giovane fino alla laurea, viene fuori una cifra-monstre di 30 miliardi» chiude Provenzano.
La riforma
È chiaro che si parla di dinamiche di lungo periodo ma può essere utile capire cosa ne pensa il governo in carica che ha ripristinato il ministero per il Mezzogiorno affidandolo a Claudio De Vincenti. Il ministro non è pessimista sulla tenuta del sistema universitario meridionale. «Le università che hanno saputo realizzare un alto livello di docenza e hanno gettato le reti per una collaborazione con le imprese riescono ad essere attrattive. E non è vero che un sistema di premialità penalizzi necessariamente il Sud». Il governo Gentiloni ha varato una riforma del fondo di finanziamento ordinario «per tener conto degli elementi di oggettivo svantaggio, come reddito pro-capite e accessibilità territoriale, che penalizzano le università del Sud, ma abbiamo lasciato la premialità perché costituisce un incentivo a migliorarsi». Sia chiaro, sottolinea De Vincenti, che il Mezzogiorno per poter ripartire veramente avrebbe bisogno di un ciclo di ripresa economica «lungo e strutturale». Quanto agli sbocchi di occupazione qualificata che la pubblica amministrazione potrebbe tornare a fornire De Vincenti precisa: «L’amministrazione deve partire dalle sue esigenze di innovazione e solo come conseguenza determinare le sue politiche di reclutamento, se invertiamo questo processo finiamo per utilizzare lo Stato come ammortizzatore sociale e non va bene».
Il Fatto 30.10.17
La tv russa riabilita il demone Trockij
Il 7 novembre andrà in onda la serie tv dedicata al fondatore dell’Armata Rossa che sfidò Stalin, molto noto in Occidente ma assai meno in Patria
di Alessandro Piazza
Che di Lev Trockij, il fondatore dell’Armata Rossa, si sappia e si parli poco in Russia è un fatto noto. Un dato per tutti: Yandex, il motore di ricerca più consultato, l’equivalente di Google, gli dedica non più di 100 pagine, contro le 5.000 destinate a Lenin e le oltre 10.000 a Stalin. Anche il dibattito storico è poco sviluppato se non in elitari ambienti accademici più preoccupati della ricerca dei finanziatori della Rivoluzione che dell’elaborazione dei fatti. Anche l’immaginario collettivo russo non va oltre il folclore: il sanguinario, il demone rivoluzionario, l’ebreo saccente e noioso sono gli epiteti più usati per commentare il personaggio storico. Per i media un convitato di pietra, per la politica un fantasma nonostante il perdono di Gorbacev nel 1986.
A fronte di questo sonnolento panorama appare controcorrente la decisione di trasmettere la serie tv Trockij che andrà in onda sul Primo Canale russo a partire dal 7 novembre, data che coincide con l’esplosione dei moti rivoluzionari dell’Ottobre (la Russia zarista usava il calendario giuliano) in occasione del centenario. Sono otto episodi che ripercorrono gli eventi salienti della vita di Lev Davidovic Bronštejn Trockij: la giovinezza, la formazione culturale e politica, la presa del Palazzo d’Inverno, il suo ruolo come presidente del Consiglio Rivoluzionario di Guerra, i contrasti con Stalin, l’esilio in Messico e il suo assassinio.
Non banale l’impianto narrativo. Maggio del 1940, dopo essere scampato a un attacco di comunisti messicani, Trockij consapevole che non può sfuggire alla battaglia contro Stalin decide di affidarsi alle parole e rilascia una serie di interviste a Frank Jackson, giornalista canadese filostalinista, fino a comporre il suo testamento. Da lì si snoda la trama attraverso flashback e flashforward che coprono tutta la sua esistenza. Emozionanti sono le scene dell’infanzia del leader a Odessa, oggi Ucraina, i suoi amori, l’ambiente ebraico e la sottolineatura delle capacità carismatiche del rivoluzionario oratore.
Anche l’ambientazione, tra Russia e Messico, è rigorosa: sono stati minuziosamente riprodotti i vestiti e la mobilia dell’epoca, si è ricorsi ad antiquari per rendere tutto verosimile. Il cast non è da meno, Kostantin Khabensky nel ruolo del protagonista, parte che aveva già recitato in una miniserie dedicata al poeta Esenin, ce l’ha messa tutta al punto da alterare la voce per parlare come il leader negli ultimi anni quando era stanco ma non meno determinato. Fin qui nulla da eccepire nel quadro del corretto postsovietico. Per usare le (non molto spontanee) parole del produttore Konstantin Ernst: “Questa è la prima fiction televisiva drammatica sulla storia della Russia e Trockij fu il vero protagonista dell’Ottobre”.
Eppure, a giudicare dal trailer e dalle dichiarazioni dei protagonisti della fiction, ci sono elementi che fanno discutere. Primo, la caratterizzazione del personaggio: a tratti brillante oratore, ma in molti momenti un invasato e retorico sermonista (“Devo farla finita di essere me stesso nel nome di un’idea suprema”) che ricorda alcune serie tv italiane Anni Settanta. La connotazione satanica torna spesso, per esempio nella scena in cui l’esule messicano, mentre macella un coniglio, parla di rivoluzione e strategie attraverso un’affabulazione mistica. Va ricordato, a proposito, che nel periodo precedente all’ottobre, Trockij aveva seguito corsi universitari di psicanalisi freudiana a Vienna e non bisogna neppure dimenticare che era un raffinato lettore e autore di saggi (Letteratura e Rivoluzione). Il macchiettismo, nemico numero uno delle riproduzioni televisive e cinematografiche di epoche e personaggi del passato, la vince troppe volte nello sceneggiato (“Sono pronto a sacrificare i miei figli per la rivoluzione”).
Non ci siamo con l’analisi storica e psicologica dell’uomo la cui ambivalenza attoriale emerge dalle parole stesse del regista Alexander Kott: “Pochi in questo Paese sanno chi sia Trockij, lo conoscono meglio in Occidente e in Centro America ma è stato l’artefice della rivoluzione, quello che ha offerto le masse a Lenin su un piatto d’argento. Ma fu anche il genio diabolico di quegli anni, non ha trovato il suo posto negli anni successivi al 1917, non poteva fare a meno di continuare il percorso rivoluzionario, solo una piccozza per il ghiaccio lo fermò”. Accusato dal giornalista di usare gli stessi metodi di Stalin il protagonista risponde: “Non sono come Koba – nomignolo per Stalin – io agisco al servizio delle idee, lui della violenza bruta”. Non ci si aspettava una dotta dissertazione sui concetti di rivoluzione permanente e deriva burocratica dell’Unione dei Soviet, ma nemmeno un alterco con la nuvoletta dei fotoromanzi.
In sintonia con il regista le dichiarazioni dell’attore Khabensky: “Non è stato per niente piacevole interpretare il ruolo di un uomo che non mi attrae affatto. Abbiamo fatto un’operazione fantascientifica sul personaggio proprio perché volevamo renderne la diabolicità, il cappotto di pelle nera, le scene del treno blindato, il protagonista che spara a freddo contro un’anziana signora in un cimitero sono funzionali al quadro demoniaco”.
Poco convince anche l’ossessione erotica primitiva del profeta armato televisivo – “Le rivoluzioni sono come le donne, bisogna inseminarle” – e le scene con Frida Kahlo poco aggiungono all’aneddotica corrente. Viene da sospettare che siano immagini dedicate a un pubblico anglosassone, il format molto probabilmente sarà venduto anche negli Stati Uniti, piuttosto che russo che generalmente è poco curioso degli intrighi del talamo.
Giudicare prima un prodotto culturale senza conoscerne l’interezza è reato di arroganza intellettuale, ma Trockij presenta molti lati oscuri. È il primo passo dopo l’indulgenza dell’1986.
Il Fatto 30.10.17
Gli unionisti si prendono pure la piazza
L’altra Catalogna - Migliaia di persone a Barcellona contro l’indipendenza dalla Spagna
di Leonardo Vilei
“Se si fosse dichiarata davvero l’indipendenza, molti di voi oggi sarebbero disoccupati”. Così Josep Borrell, ex presidente del Parlamento europeo, ha accolto le migliaia di manifestanti che a Barcellona hanno sfilato ieri per difendere l’unità della Spagna. Un milione, secondo la prefettura, trecentomila, stando alla polizia municipale, ma al di là degli ormai classici diverbi numerici quel che conta è la compattezza di un movimento impossibile soltanto un mese fa.
Il tabù, del resto, era stato rotto con la manifestazione dell’otto ottobre scorso, quando la cosiddetta maggioranza silenziosa aveva infranto per la prima volta le regole non scritte degli indipendentisti: la piazza è nostra, la Catalogna anche. E invece, dopo i giorni convulsi che hanno portato Carles Puigdemont a dichiarare l’indipendenza e Mariano Rajoy a prendere tutti alla sprovvista commissariando la regione per il tempo minimo previsto dalla legge prima di tornare alle urne, lo spazio politico si presenta quanto mai affollato. Costituzionalisti da un lato, con popolari, socialisti e Ciudadanos pronti a difendere il 21 dicembre le ragioni della sospensione dell’autonomia regionale, separatisti dall’altro, divisi al loro interno sul da farsi. In mezzo, gli equidistanti di Podemos, con Ada Colau, sindaca di Barcellona, in testa, che hanno detto no sia all’indipendenza che al commissariamento. Tranne per la componente anticapitalista che ha fatto sapere di riconoscere “la nuova repubblica catalana”. Sul fronte secessionista, i più radicali della CUP, partito anticapitalista, vorrebbero disertare e sabotare un appuntamento elettorale che ritengono illegale. Il PDeCat di Puigdemont ed ERC di Oriol Junqueras, ormai rimossi dalle loro funzioni e perciò anche dalla macchina che organizzerà le elezioni, sanno invece di non poter mancare all’appello e hanno poco tempo per riunire un solo schieramento e tentare il plebiscito.
Il nervosismo è altissimo, dopo un mese in cui la fuga delle banche e delle imprese ha assestato il colpo più grave al governo catalano, che aveva tranquillizzato sempre in tal senso i propri elettori: l’economia non ne risentirà e l’Europa sarà con noi. E invece, sul fronte economico, 1.681 imprese hanno spostato la sede legale o fiscale dal primo ottobre; su quello europeo, non un solo leader ha offerto una sponda credibile, mentre ha creato più imbarazzi che altro la dichiarazione del belga Theo Francken, Sottosegretario di Stato all’Immigrazione, che ha offerto asilo politico a Puigdemont in caso di arresto. Il dirigente del partito indipendentista fiammingo N-VA è stato poi smentito dal presidente belga Charles Michel. Probabilmente le prospettive di un ipotetico stato digitale, sul modello estone, con l’adozione di una moneta elettronica in stile bitcoin, che sono circolate come possibili rimedi all’isolamento di una repubblica catalana indipendente, più che riunire rischia di allontanare i consensi. Agli indipendentisti non resta altro che formare una lista civica calibrata sul messaggio unificante dell’oppressione spagnola, convincere i più recalcitranti della Cup e mettere come capilista persone provenienti dalla società civile. Già circola in tal senso l’idea di partire dai due Jordi, ossia Sànchez e Cuixart, attualmente in prigione per le attività delle associazioni culturali che presiedono, le due piattaforme logistiche e ideologiche dell’indipendentismo. La partita è appena cominciata.
La Stampa 30.10.17
Sfila la marea unionista: “Puigdemont in galera”
Barcellona, il leader destituito rischia 30 anni di carcere. Oggi inizia il commissariamento di Madrid
[f. oli.]
Un fine settimana per rifiatare dallo stress emotivo e politico di questi giorni ed ecco che torna viva la battaglia in Catalogna. È un lunedì chiave per capire come andrà da qui al 21 dicembre, la data scelta dal premier Rajoy per le elezioni anticipate.
La piazza resta protagonista, in un senso e nell’altro. Ieri è stato il turno degli unionisti. Una folla importante, oltre un milione per gli organizzatori, 300 mila per la Municipale, ha ribadito il suo no all’indipendenza, dichiarata in fretta e furia venerdì scorso. Al corteo sul Passeig de Gracia di Barcellona hanno partecipato i partiti che hanno appoggiato l’applicazione dell’articolo 155 della costituzione (il commissariamento della Generalitat): dal Partito popolare, a Ciudadanos e anche il Partito socialista catalano. A parte due brutte aggressioni a un tassista e a un’impiegata delle ferrovie, tutto si è svolto tranquillamente. Leader morale, come già nella dimostrazione dell’8 ottobre, è stato l’ex presidente del parlamento europeo Josep Borrell, socialista catalano, nemico del secessionismo. Motto della giornata: «Tutti siamo la Catalogna». Coro più ascoltato: «Puigdemont a prisión».
E l’ipotesi non è affatto da scartare: ieri la Procura generale ha deciso che la denuncia per ribellione contro la presidente del Parlamento Carme Forcadell, sarà presentata non soltanto al Tribunale supremo ma anche all’Audiencia nacional di Madrid, quella, per intenderci, che ha spedito in prigione (preventiva) i due leader secessionisti, Sánchez e Cuixart. La Procura ha pronte altre denunce contro Puigdemont e i membri del suo ex governo. Il presidente decaduto, in caso di condanna per ribellione, rischia fino a 30 anni di carcere. Alle brutte, ci sarebbe un’ancora di salvezza: «Puigdemont potrebbe chiedere asilo politico al Belgio», dichiara il ministro dell’Immigrazione Theo Francken, il quale non crede nella giustizia spagnola, «vista la repressione, ci si può chiedere se ci sarà un processo equo». Il suo primo ministro, Charles Michel lo riprende, «non è all’ordine del giorno», anche perché è reduce da una crisi diplomatica con Madrid, dovuta alle critiche per le cariche del referendum.
Calcio a parte, Puigdemont e i suoi ministri non sono comparsi nemmeno ieri. Oggi è un giorno importante, perché si capirà se opporranno resistenza passiva, ovvero entreranno nei loro uffici, dopo la destituzione decisa dal governo spagnolo e già operativa. Stesso discorso vale per circa 150 funzionari. La sensazione è che si cercherà l’immagine simbolica, la foto che dimostri l’usurpazione spagnola, ma non si dovrà ricorrere alla forza per far sloggiare i dirigenti della Generalitat. In questa direzione si potrebbero leggere le parole dell’ex vicepresidente Oriol Junqueras, che, dopo aver ricordato che Puigdemont resta il capo legittimo della Generalitat aggiunge, «nei prossimi giorni dovremo prendere decisioni non facili da capire». Un messaggio, forse, ai suoi che si aspettano resistenza a oltranza. Ma i partiti indipendentisti ora hanno una missione: ricompattarsi per le elezioni del 21 dicembre, giudici permettendo.
Il Fatto 30.10.17
Trump, l’uomo che divora se stesso
di Furio Colombo
Tre preoccupazioni dominano la vita e la politica di Trump (che non è un fatto a parte che si svolge nella Casa Bianca con certe ritualità e certi collaboratori, ma è un solitario affare esistenziale). La prima è che tutti siano consapevoli che lui c’è. Poichè non è autore di nulla, né come pensiero né come azione, la preoccupazione è legittima. E allora produce rumore, quasi sempre sgradevole, ma certo destinato a creare attenzione. Per esempio minaccia. Può minacciare, quasi con la stessa violenza e le stesse parole un personaggio del suo partito, un avversario politico di Washington e il peggiore dei jihadisti. La seconda preoccupazione è avere nemici. Ne ha molti ma non gli bastano, e ne cerca sempre di nuovi. Trump è un giocatore che rimette tutto sul tavolo. E, anche dopo avere danneggiato di molto la sua reputazione, è pronto a ricominciare. Gli manca totalmente il senso critico e questo fatto lo aiuta perchè lo libera da ogni secondo pensiero. Vede se stesso su uno schermo gigante in cui non importa la storia. Importa che lui ci sia e che lo schermo sia gigante. La terza preoccupazione è di essere sgradevole, non come tratto caratteriale ma come intenzione, e ricordato come tale. Nei giorni scorsi, dopo molti rifiuti, ha dovuto parlare al telefono con la vedova di un giovane ufficiale Usa appena ucciso in Nigeria. Pare che le prime parole siano state: “Beh immagino che sapesse, quando si è arruolato, che queste cosa accadono”. È necessario aggiungere, per completare questo breve schema operativo della vita e delle opere di Donald Trump, che non si conoscono episodi di gentilezza, cortesia, riguardo, rispetto. Trump conosce persone e situazioni che meriterebbero simili atteggiamenti o almeno sentimenti formali di riconoscimento. Deliberatamente li trascura, li cancella dalla sua lista. Che senso ha dire “grazie” a qualcuno? Il comando è un’altra cosa. Nella sua mente, in profondo, è radicata la persuasione che il mondo è dei bastardi, e che se non sei odiato non conti niente.
Corriere 30.10.17
La meritocrazia cinese lezione contraddittoria
di Roger Abravanel
In questi giorni si chiude il 19mo congresso del Partito comunista cinese (Pcc) e i media si sono concentrati sulla leadership di Xi Jinping. Poco si è parlato della selezione del comitato permanente del partito, le venti persone che governeranno il Paese per i prossimi 5 anni e in generale di tutti i dirigenti del partito, i 2000 rappresentanti dei 90 milioni di cinesi iscritti al Pcc e i 300 tra loro che siedono nel comitato centrale.
Osservatori informati sostengono che tale processo è diventato estremamente meritocratico. Se alla fine del secolo scorso i laureati cinesi snobbavano il partito, oggi nelle università di elite come la Tsinghua, i migliori laureati si fanno una concorrenza spietata per entrarci. E anche l’avanzamento di carriera sembra un processo meritocratico. Li Yuanchao, ministro del dipartimento organizzazione del comitato centrale, ha raccontato come viene eletto il suo segretario generale. I 10 candidati con più nomine fanno un esame molto difficile, i cui risultati e documentazione sono resi pubblici. I 5 candidati che superano l’esame sono poi interrogati da un panel composto da ministri, viceministri e professori universitari. I tre di essi con il maggior punteggio vengono poi «ispezionati» da un team che indaga sulla loro performance e sulle loro qualità personali. I due finalisti vengono valutati da 12 ministri, ognuno con un voto e sono richiesti 8 voti per la nomina. Tutte le promozioni del Pcc avvengono con processi più o meno simili, ai livelli più bassi conta di più il rapporto con i cittadini (una specie di democrazia), ma man mano che si sale a livelli più alti il «merito» è definito come razionalità, intelligenza, pragmatismo ed etica (la lotta alla corruzione rampante è stata la priorità di Xi) .
Il curriculum di Xi Jinping è emblematico: pur avendo gestito un’area di 120 milioni di persone nelle province di Fujianm, Zhejang e Shanghai e una economia più grande di quella indiana, ha dovuto fare anticamera per 5 anni come vicepresidente del partito per imparare i problemi della difesa e della politica internazionale. Non solo, ma (teoricamente) Xi ha davanti a sé solo un altro term di 5 anni, sapendo che deve iniziare a preparare la sua successione.
Secondo gli esperti, la meritocrazia è sempre stata presente nella cultura politica cinese. Confucio riteneva che una selezione fosse necessaria perché non tutti avevano la abilità e i valori morali per prendere decisioni nell’interesse del popolo; dal 600 al 1900, i «mandarini» (funzionari pubblici) furono selezionati in base ai loro meriti attraverso esami imperiali estremamente rigorosi. Dopo Mao, i dirigenti cinesi hanno deciso di tornare agli antichi valori della meritocrazia nella politica e, negli ultimi 30 anni, migliaia di loro hanno viaggiato a Singapore per studiare il modello di meritocrazia creato da Lee Huan Kiew e adattarlo a una realtà immensamente più grande.
Ovviamente non è tutto oro ciò che luccica, nepotismo, lotte tra fazioni («cricche e gang») e corruzione sono ancora ben presenti, ma l’impatto della meritocrazia cinese sulle politiche economiche si vede: 200 milioni di persone sono state tolte dalla povertà.
Diversa è la situazione nelle democrazie occidentali dove i politici sono screditati quasi ovunque, anche prima dell’avvento di Donald Trump. Chi prende voti non sempre lo fa perché è considerato più capace e onesto di altri, ma perché fa promesse irrealizzabili o si appella ai pregiudizi e all’ignoranza dei votanti. Eppure, anche se sempre meno visibili, i vantaggi della democrazia continuano a esistere perché, in teoria, si permette al popolo di correggere gli abusi commessi dagli eletti, cosa non possibile in Cina e a Singapore.
I politologi del mondo occidentale da tempo si pongono il problema se democrazia e meritocrazia siano conciliabili nel senso che in una democrazia è più difficile la selezione per merito dei politici che in dittature quali quella cinese, ma non sono ancora giunti a molte conclusioni come dimostrato dal fatto che esistono centinaia di saggi sulla teoria e pratica della democrazia, ma non uno sulla meritocrazia in politica.
Da noi il tema della meritocrazia in politica è stato affrontato (indirettamente) negli eterni dibattiti sulla legge elettorale, quando si discute se i parlamentari debbano essere indicati dal vertice del partito o scelti dagli elettori tramite le preferenze. Queste ultime sono appoggiate dagli opinionisti e dai media convinti che sono più meritocratiche, ma esistono seri dubbi che lo siano veramente: al di là di poche figure di leader, la maggioranza dei parlamentari si fa conoscere agli elettori soprattutto per le sue attività clientelari . È per questa ragione che gli italiani votarono in massa un referendum per abolire le preferenze nel 1991. Pare che se lo siano dimenticati tutti.
La conclusione è che la meritocrazia nella politica in Italia la può fare solo il partito e non la legge elettorale che sarà sempre un pastrocchio il cui obbiettivo resta solo quello di cercare di ottenere un minimo di governabilità del Paese. Purtroppo è improbabile che alle prossime elezioni i partiti si presenteranno non solo su «programmi» (ai quali credono in pochi) ma anche con candidati presentabili sul fronte del merito.
Ma, se la nostra democrazia non può copiare la meritocrazia politica cinese nella selezione dei politici, può farlo nella selezione dei dirigenti della Pubblica amministrazione (Pa). Mentre in Cina i politici sono de facto i dirigenti della Pa perché non esiste un parlamento, da noi si è fatto il contrario, «politicizzando» i dirigenti della Pa.
Innanzitutto creando una classe ipertrofica di politici locali con il federalismo scellerato delle Regioni (che non hanno nulla a che fare con le province cinesi — molte sono più grandi dell’Italia), per dare indirizzi regionali a politiche come l’ambiente e l’energia che dovrebbero essere gestite a livello europeo. Per avere più meritocrazia nella Pa basterebbe ridimensionare la politica a livello regionale e lasciare pochi funzionari competenti sul territorio. Abbiamo poi politicizzato le nomine dei dirigenti della Pa copiando il modello anglosassone dello spoil system che permette nei sei mesi successivi alla nomina di un nuovo governo di sostituire i vertici della Pa, ma ci siamo vergognati di applicarlo. Potremmo forse iniziare a sfruttarlo, magari valutandoli prima con processi robusti simili a quelli del Pcc.
La Stampa 30.10.17
India, il giallo dei “taglia-trecce”
Aggredite già duecento donne
Commando assale le vittime alle spalle per rubare i capelli. E partono i linciaggi indiscriminati
di Carlo Pizzati
Il modus operandi degli aggressori cambia. Mattonata sulla testa, mazzata alle spalle, spray narcotizzante o fazzoletto bagnato di sonnifero. Il risultato è uguale. La vittima si risveglia tramortita, in ospedale, oppure sul letto.
Cerca di ricordare cos’è accaduto. Dice d’aver visto solo lembi di abiti neri, un braccio, una gamba. A volte una voce ha bisbigliato di non opporre resistenza. Poi s’accorge che qualcuno le ha tagliato una treccia di capelli. Non l’ha nemmeno rubata, l’ha lasciata lì, accanto alla vittima.
Negli ultimi mesi è accaduto almeno a 200 donne nello Stato del Kashmir, zona calda dell’India per la lotta di sangue tra guerriglieri separatisti e esercito. Le autorità indiane si contraddicono. Bollano il mistero dei taglia-trecce come «isteria di massa». Poi offrono una ricompensa di 8 mila euro in cambio di soffiate.
Qualche sera fa è accaduto a Shafeeqa. Esce a gettare gli avanzi della cena nella spazzatura. Un brivido di freddo per il vento ottobrino e di colpo appaiono due figure mascherate. Uno le avvicina una bomboletta alle narici. La 37enne si risveglia senza trecce.
Shaqeela è una gestante di 24 anni. Abita anche lei a Srinagar, capitale del Kashmir. Spazzava la veranda quando un uomo mascherato di nero le ha premuto un fazzoletto su naso e bocca. «Quando ho aperto gli occhi in ospedale i miei capelli non c’erano più». Nazia ha 28 anni e da quando è stata attaccata venti giorni fa non riesce più a dormire bene. Naira è invece stata trovata svenuta nella sua stanza, senza treccia. Gli attacchi dei «parrucchieri» mascherati dilagano fino alle province di Kulgam e Pulwama, nel Sud del Kashmir.
Con l’aumentare dei casi, sboccia anche un triste sport molto popolare in tante zone dell’India: il linciaggio di massa. Fulmineo, improvvisato. Per cercare d’acchiappare questi fantasmi evanescenti che entrano dalla finestra nelle stanze delle studentesse o scalano palizzate di tre metri con un’agilità da commando militare ben addestrato, sono iniziati i pattugliamenti di gruppi inferociti di giustizieri. E sono spuntate le prime vittime innocenti.
Abdul Salam Wani, un 70enne che faceva la pipì in un angolo è stato circondato, accusato d’essere un taglia-trecce, malmenato e ucciso con una mattonata in testa. Ma non c’entrava niente. Un fidanzato è stato bloccato e massacrato di botte, prima di poter dimostrare la legittimità della visita alla sua ragazza, con i capelli intonsi. Un soldato è stato acciuffato per strada poco dopo un taglio di treccia e quasi ucciso, prima che arrivassero i rinforzi. Un transgender se l’è cavata per un soffio, mentre un gruppo di lavoratori migranti è stato pestato, ma tratto in salvo.
Anche una comitiva di turisti stranieri composta da 3 australiani, un irlandese, una sud-coreana e un inglese se l’è vista brutta arrivando in un villaggio alle 2 di notte dopo essersi persi. Uno di loro s’era messo a urlare per farsi aprire dal portiere di notte. In pochi secondi sono stati circondati da 1.000 paesani inferociti, prima dell’arrivo della polizia.
Questa zona a maggioranza musulmana è molto conservatrice. Per gran parte delle fedeli abituate a nascondere le chiome nell’hijab questo taglio forzato è particolarmente umiliante. Per un maschio che non è parente, anche solo toccare una donna è tabù.
A chi può interessare un’operazione del genere? A farne le spese sono come sempre le vittime primarie, in India: le donne. Ma chi ci guadagna?
I leader separatisti vedono una pista politica. Accusano i servizi segreti e l’esercito di voler destabilizzare la rete di sostegno che le famiglie simpatizzanti offrono ai ribelli separatisti. In questo nuovo clima di rabbia e paura, diventa sempre più difficile trovare una casa disposta ad accogliere uno sconosciuto perché potrebbe essere un taglia-trecce. Così la lotta dei separatisti s’indebolisce.
L’esercito nega responsabilità e il direttore generale delle forze di polizia incaricato dell’inchiesta, che finora non ha arrestato nessuno, fa lo spiritoso: «Sto cercando una bacchetta magica».
Il Fatto 30.10.17
Lenin? No Matilda: freddo anniversario a Mosca
di Michela Iaccarino
L’incrociatore Avrora sparò un colpo a salve dal golfo di San Pietroburgo e iniziò la blokada, l’assedio. Divampò lo sthurm, l’attacco. Nel Palazzo d’Inverno vennero arrestati i membri del Consiglio dei ministri del Governo provvisorio e l’orologio della sala si fermò. Erano le due e dieci minuti, 26 ottobre 1917. Cento anni dopo il tempo ha ripreso a scorrere, i russi l’hanno rimesso in moto: le lancette in mostra al museo dell’Ermitage torneranno a battere per l’occasione. La rivoluzione russa del 2017 è una visita guidata speciale tra le statue e i quadri, in onore dei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, è una serata di gala nella sala da concerto Oktjabr: caviale, strass, champagne, ballerine sulle punte di un musical.
Più a nord, nella capitale le iniziative in giro sono poche, quando si esce e si entra con cappuccini Sturbucks e borse Armani alla fermata della metro Rivoluzione. Al numero 31 della Leningradskij prospekt, c’è il grattacielo di vetro e lusso del Renassaince Moscow Monarch Center. Eliminate le ultime due parole all’ingresso, si battezzerà per una notte sola Renassaince Moscow, quando il 7 novembre arriveranno i membri del KPRF, il partito comunista russo, per festeggiare la memoria dei bolscevichi in suite a quattro stelle.
Il municipio di Mosca ha approvato il percorso di marcia della parata di novembre in onore dei rivoluzionari del secolo scorso, sfileranno in centro città i comunisti superstiti del partito di Gennady Zhuganov, con medaglie d’oro e polvere, nastri rossi di un’altra epoca, capelli bianchi. Poi la rivoluzione russa sarà una mostra inaugurata al Museo Lenin e una alla galleria Tret’jakov, la “Nekto, 1917”. In cielo nuvole, sotto le nuvole file di nostalgici e turisti stranieri. Per il resto, se chiedi come si celebrerà esattamente la memoria di quel giorno, i russi non lo sanno e non si sono informati.
Dagli Urali a Vladivostok, qualcuno porterà in processione le vecchie icone comuniste, lascerà fiori e candele accese sotto i Lenin di bronzo e neve. Il 1917 è su twitter, nei negozi di souvenir kitch dell’Arbat, su tazze e cappelli, non più negli orologi. Il tempo non si fermerà più il 7 novembre, né i russi a ricordare quel giorno.
L’Istituto sondaggi RAN di Mosca ha chiesto ai cittadini cosa è stata la rivoluzione russa. Per il 32% è stato difficile rispondere, per il 29% ha prodotto bene e male in egual misura. Il resto della percentuale è rimasta spaccata tra condanna e oblio. Revoluzija è perevorot, colpo di stato, una parola che a Mosca ricorda Maidan, Ucraina e Alekej Novalnij, l’oppositore che ha tentato di organizzare una protesta nazionale il 7 ottobre, giorno del compleanno di Putin, l’uomo del Gasudarstvo, dello Stato, sostantivo che in russo deriva da sudar, monarca.
Più che alle commemorazioni bolsceviche, le persone si radunano per protestare in questi giorni davanti alle sale dei cinema dove viene proiettato il film Matilda, sull’amore adulterino dello zar Nicola II e una ballerina polacca. Tra qualche giorno, cento anni dopo il mese più rosso, il primo canale russo TV1 trasmetterà una serie su Trockij, vecchio nemico pubblico riabilitato a puntate. Due guerre mondiali e una fredda dopo, l’inizio della storia sovietica si può riscrivere col silenzio, senza la pompa magna riservata ogni anno dal governo al 9 maggio, Giorno della Vittoria sovietica sulla Germania nazista.
Del centenario del 1917 in Russia, il vero programma del giubileo è questo: il presidente non parteciperà. Putin all’ultima riunione a Valdai ha ricordato “quanto ambigui siano stati i vantaggi della rivoluzione del 1917, quanto simili le conseguenze positive e negative”, quanto migliore sia “un percorso di evoluzione e non rivoluzione, per cambiare gradualmente, senza distruggere lo Stato e milioni di vite”.
Lui non ama le rivoluzioni. Non le approva. E non ama l’uomo che ha iniziato quella russa, anche se questo Putin, allevato nella culla poligono del KGB comunista, non sarebbe mai esistito senza quel Lenin. In URSS, per 74 anni di fila, soldati e alloro, bandiere e fuochi d’artificio, hanno ricordato il giorno in cui i bolscevichi cambiarono il mondo. In Russia nel 2017, nella stessa Piazza Rossa, il Vladimir dietro il vetro del Cremlino guarda di fronte il Vladimir sotto la teca del Mausoleo e stavolta non si affaccerà per salutare.
La Stampa 30.10.17
Wole Soyinka
“Ma il comunismo s’è rivelato troppo piccolo per la mia Africa”
L’impatto delle idee bolsceviche nelle lotte di liberazione del continente: parla lo scrittore nigeriano premio Nobel
di Francesca Paci
Poi c’è l’Africa. Che rapporto ha avuto l’assalto al Palazzo d’inverno con il continente icona del colonialismo? «It’s complicated» scherza Wole Soyinka dalla natia Abeokuta, dov’è tornato dopo l’esilio negli States. Classe 1934, il grande drammaturgo nigeriano premio Nobel per la letteratura ha attraversato con il XX secolo la contraddizione tra la modernità dell’ideologia politica e una tradizione antica. L’ha fatto sin dal primo romanzo Gli interpreti, tradotto come molti altri da Jaca Book, e poi scrivendo, adattando per il teatro Brecht, Genet. In questi giorni, racconta, ha recuperato dalla grande libreria il libro della sua educazione sentimentale, L’atto della creazione di Arthur Koestler, «un comunista devoto diventato poi anti-totalitario».
Si sente l’eco del 1917 e della teoria leninista dell’imperialismo fase suprema del capitalismo nei movimenti anti-coloniali africani?
«Inizialmente la Rivoluzione d’Ottobre ebbe un’impronta nazionalista, ma poi la sua influenza si diffuse a livello internazionale coinvolgendo anche la diaspora africana che allora affrontava problemi come la schiavitù e aveva bisogno di quella spinta ideologica. L’impatto sulla galassia panafricana dell’epoca fu forte. C’era il sociologo Du Bois che associava completamente l’esperienza sovietica alla causa dell’emancipazione dei neri e che ebbe grande presa sull’intellighenzia africana, gli studenti e i movimenti di liberazione. Sin dai primi anni 30 i congressi panafricani di Parigi e Roma moltiplicarono i rimandi al leninismo con l’effetto di galvanizzare il tema dell’indipendenza a livello culturale oltre che politico».
È stato sedotto dal comunismo?
«Ovviamente sì. Faceva parte di un sentire mondiale, respiravamo l’aroma della rivoluzione che dall’Urss si era diffuso alla Guerra civile spagnola. Molti africani si arruolarono nelle Brigate Internazionali. Alcuni intellettuali presero a chiedersi poi quale ideologia sarebbe stata più adatta al nostro continente dopo la liberazione, già nei primi Anni 40 ci si poneva il problema di superare il colonialismo, consapevoli che l’indipendenza non fosse abbastanza».
Che risposte si diede?
«A un certo punto si credeva che il comunismo fosse la panacea, il mondo viveva una trasformazione e l’Africa ne partecipava. Io sono stato consapevole sin dall’adolescenza dei rischi del totalitarismo e della minaccia dell’ideologia comunista applicata alla realtà, capivo che non c’era giustizia sociale senza libertà. Sono cresciuto in un’atmosfera in cui già negli anni 30 si affrontavano questi temi. La lotta di classe è venuta dopo, e avevo già le idee chiare».
C’è un episodio in particolare che le aprì gli occhi?
«Crescevo nel mio ambiente, la classe media nigeriana. Mia zia era una radicale, anche mio padre lo era. Ascoltavo i dibattiti, molte cose erano confuse ma ne ricordo una chiaramente: capivo che, chiunque fossero gli oppressori, dove c’era una oppressione c’erano degli oppressi e la liberazione era legittima. Quando nel 1954 andai all’università in Gran Bretagna e trovai docenti e compagni comunisti o stalinisti, ero vaccinato. I testi del marxismo non mi sedussero, non sarei mai potuto diventare comunista. Ma sono sempre stato socialista».
Cosa rappresentano nella sua esperienza Auschwitz e i gulag, gli spettri del Secolo breve?
«Sono due approcci diversi allo stesso obiettivo di controllare le menti: ingegneria sociale. Anche l’Africa ha avuto i suoi problemi con l’eco di quei totalitarismi. Durante la guerra di liberazione la prima generazione dei nostri leader aveva bisogno di uno strumento ideologico forte per contrastare il nemico, fisicamente e politicamente. Molti di loro abbracciarono l’ideologia comunista ma poi se la appropriarono per opprimere il popolo. Il dittatore etiope Menghistu si proclamava più stalinista dello stalinismo e voleva solo perpetrare il suo potere. Per quelli come me era dura, se criticavi questi dittatori passavi per reazionario al soldo del capitalismo, in caso contrario eri di fatto ideologicamente schiavo. Lottavamo su due fronti».
Come i musulmani oggi. L’islam fondamentalista sta sostituendo le ideologie del ’900?
«I taleban cacciarono i sovietici dall’Afghanistan e imposero la loro teologia, una lettura del Corano dogmatica come il manifesto comunista. L’ideologia religiosa può essere totalitaria».
Cosa salva della rivoluzione del 1917?
«Il pensiero di Marx resta valido in termini di prospettive. Il comunismo è stato più di un sogno, ma si è suicidato perché ha tentato di ridurre l’umanità alla statistica».
C’è un testimone da raccogliere sul piano culturale?
«I dittatori africani filo-sovietici hanno scoraggiato la cultura tradizionale, tutto quanto non preparava alla lotta di classe era superfluo. Alcuni giovani li seguirono, abbiamo perso così un gran numero di promettenti scrittori. Molti non sapevano neppure che ci fosse stata una cultura africana precedente alla Rivoluzione d’Ottobre, sembrava che tutto fosse iniziato nel 1917. Erano intellettuali africani a cui la storia africana andava stretta, proni a un’altra forma di potere coloniale. Oggi invece sta fiorendo una nuova cultura che non ha nulla di marxista, nonostante il tentativo di imporcelo il comunismo è troppo piccolo per l’Africa».
Nell’immagine grande un manifesto del 1920 che mette a confronto il settembre 1917 (a sinistra), quando il proletariato era solo nella sua lotta, con l’ottobre 1920, quando è l’angelo sterminatore bolscevico a condurre la guerra contro nemici che si chiamano Intesa, Francia ecc. e contro tutti gli oppressori. La scritta in basso recita «Evviva l’Ottobre rosso globale»
Il Fatto 30.10.17
Dai Longobardi a Murat, le sliding doors d’Italia
Ben prima dei Savoia furono diversi i tentativi di unificare la Penisola, ma le sorti delle armi furono avverse. Le cocenti sconfitte militari del Regno a partire dal 1866, poi, alimentarono il falso mito dell’italiano pessimo soldato
di Andrea Santangelo
Gli italiani vengono spesso accusati di avere scarso senso civico, poco amor di Patria e di essere pessimi soldati. Una delle spiegazioni che va per la maggiore è quella della nazione unita da troppo poco tempo. E controvoglia. L’unione fu imposta dalle élite e mai realmente accettata da ampi strati della popolazione. Per questo non ci fidiamo dello Stato e non siamo disposti a sacrificarci per esso, in primis militarmente. In realtà, ben prima dei Savoia ci furono tentativi di unificare politicamente la penisola, solo che la sorte delle armi fu avversa. Quelle battaglie sono diventate dei veri e propri turning point storico militari (o delle sliding doors se preferite la metafora cinematografica).
Dopo l’esperienza unificatrice dell’Impero romano, i primi ad avere un’idea di dominio dell’intera penisola furono quasi certamente i Longobardi. Il Papato glielo impedì, chiamando in Italia i Franchi di Carlo Magno che sconfissero i Longobardi, nel 773, nella battaglia delle Chiuse di San Michele. Il re dei Franchi divise saggiamente in due il suo esercito ed entrò in Italia da differenti percorsi (Moncenisio e Gran San Bernardo), mettendo in difficoltà il sistema difensivo longobardo, imperniato sulle Chiuse della Val di Susa. Dopo un rapido scontro, i Longobardi si ritirarono nella fortificata Pavia, dove poi si arresero. Se re Desiderio avesse sconfitto Carlo, la storia d’Italia avrebbe preso tutta un’altra piega e il Papato sarebbe divenuto un docile strumento al servizio della corona longobarda. Non andò così e lo Stato della Chiesa fu per tutto il Medioevo il principale ostacolo alle mire unionistiche italiane, chiamando spesso a suo supporto potenze estere. Anche diversi pontefici ebbero ambiziosi progetti di espansione, ma senza mai realmente possedere le forze militari per metterli in pratica.
Occorre attendere fino al Rinascimento per avere nuove possibilità di unificazione, seppur quasi virtuali e utopicamente effimere. Nel 1494, con la calata in Italia del re francese Carlo VIII, i litigiosi staterelli italiani misero da parte le loro rivalità fondendosi in una Lega militare. Il 6 luglio 1495, a Fornovo nel parmense, francesi e italiani si scontrarono lungo il Taro. La pioggia rese difficili le operazioni della Lega italiana, alzando il livello del fiume e rendendo pesante il terreno; il piano troppo complesso di Francesco II Gonzaga si rivelò un fallimento e Carlo VIII riuscì a ritornare in Francia. Agli italiani sembrò di aver vinto, in realtà le loro divisioni politiche e militari (ma soprattutto le loro ricchezze) attirarono l’attenzione di francesi e spagnoli che trasformarono l’Italia nel loro campo di battaglia. Se la Lega avesse distrutto l’esercito francese, forse avrebbe potuto dare agio a qualche stato italiano (Venezia? Una lega di più stati?) di unificare prima o poi il Paese.
Cinque anni dopo il turning point di Fornovo, il figlio di papa Alessandro VI, Cesare Borgia, costituì un suo ducato in centro Italia grazie ai soldi del padre e all’aiuto militare del re francese Luigi XII. In breve tempo si distaccò dai suoi due ingombranti sponsor e cominciò a guerreggiare di testa sua, attaccando chi gli pareva emettendo insieme anche eserciti assai innovativi tatticamente e in cui l’elemento italiano, e in particolar modo quello romagnolo, era predominante. L’improvvisa scomparsa di Alessandro VI mise in grave difficoltà economica “il Valentino”, che non riuscì più a mantenere sotto le armi tutti i soldati di cui aveva bisogno. E che questi piani contemplassero la gran parte d’Italia ce lo dice un cronista coevo del Borgia, il cesenate Giuliano Fantaguzzi: “volea fare a Cesena: palazo, canale, rota, studio, piaza in forteza, agrandare Cesena, fontana in piaza, duchessa, corte a Cesena, fare el porto Cesenatico et finalmente farse re de Toschana et poi imperator de Roma con castello santo Angello”. Un’Italia unita sotto Cesare Borgia avrebbe dato un bello scossone alla geopolitica del tempo, ma la morte di Rodrigo Borgia è stata la sliding door che l’ha evitata.
Il dominio spagnolo su gran parte delle penisola sedò ogni ulteriore tentativo di italianità. Tralasciando la folcloristica Disfida di Barletta, bisognò attendere le guerre napoleoniche per avere un nuovo paladino della nazione e una battaglia turning point. Gioacchino Murat re di Napoli e cognato di Napoleone, un progetto di unificazione raffazzonato e vago ma con tanto di proclama agli Italiani letto pubblicamente a Rimini. Si combatté una sanguinosa battaglia a Tolentino, che vide però la netta vittoria degli austriaci. Un’altra sliding door chiusa.
Fu solo con il Risorgimento di Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini che la porta fu finalmente tenuta aperta e si ebbe l’Italia unita.
Le prime cocenti sconfitte militari del Regno d’Italia furono il motivo per cui il nostro Paese perse per sempre la possibilità di essere una potenza militare rispettata e temuta e si dovette poi accontentare di ruoli subalterni in politica estera. La battaglia di Custoza del 1866 e quella navale di Lissa, pur combattute in netta superiorità numerica, sancirono l’incapacità italiana di fare la guerra. Il disastro coloniale di Adua, del 1896, ne fu solo l’inevitabile epilogo. Da quel momento, il cosiddetto “mondo civilizzato” ci ha sempre guardato quantomeno con malcelato disprezzo. Ed è nata la storiella che gli italiani non sanno fare la guerra perché troppo occupati a far l’amore, mangiare pizza e pasta, giocare a calcio e fare casino.
Corriere 30.10.17
Biografie «Il Capo» di Marco Mondini (il Mulino) ne ricostruisce la figura attraverso testimonianze, epistolari e le carte della Commissione d’inchiesta sulla disfatta
Cadorna , le ossessioni di un generale
Convinto di essere infallibile, maniaco del rigore, sottovalutò i rischi e fu sconfitto a Caporetto
di Corrado Stajano
Appariva malinconico Carlo Emilio Gadda a chi lo incontrò più di mezzo secolo dopo la fine della Grande guerra nel suo piccolo studio romano di via Blumenstihl, l’appartamento di un impiegato d’ordine. Era un pomeriggio d’ottobre, l’occasione era Caporetto, la sua ossessione, una piaga mai rimarginata. Sul tavolo teneva davanti a sé due libri, L’Italia nella Prima guerra mondiale di Piero Pieri e Isonzo 1917 di Mario Silvestri, le sue bibbie, allora. Ogni anno, in quei giorni d’autunno, era più cupo del solito, parato a lutto, i suoi amici lo sapevano e stavano alla larga.
Il suo doloroso Diario di guerra e di prigionia era uscito nel 1965 da Einaudi, il Taccuino di Caporetto uscì, da Garzanti, solo nel 1991, 18 anni dopo la sua morte. L’aveva affidato al suo grande amico, Alessandro Bonsanti, «perché lo custodisse nel più rigoroso segreto». Temeva probabilmente le reazioni che avrebbero suscitato certi suoi giudizi. Bonsanti fu ancor più prudente dell’amico. Il Taccuino di Caporetto , malconosciuto anche adesso, di grande rilievo umano e letterario, una delle memorie più alte e tragiche scritte su Caporetto, è stato pubblicato, arricchito da una nota di Dante Isella, dai figli di Bonsanti, Giorgio e Sandra, anni dopo la morte del padre.
La ritirata, il dolore, la morte. Nel Taccuino Gadda, ufficiale del 5° Alpini, racconta di quando Stefano Sassella, il suo attendente, un contadino valtellinese di Grosio, gli consegnò, il 24 ottobre 1917, l’ordine di ritirata: «Lasciare il Monte Nero! Questa mitica rupe, costata tanto e presso di lei il Wrata, il Vrsic: lasciare, ritirarsi; dopo due anni di sangue. Attraversai un momento di stupore demenziale, di accoramento che m’annientò. Ma Sassella incalzava: “Signor tenente bisogna far presto” (...) Mi riscossi: credo non esser stato dissimile dai cadaveri che la notte sola copriva».
Questa amarissima pagina è affiorata alla memoria leggendo — anche se l’autore non ne fa cenno — il libro prezioso e intelligente di Marco Mondini, Il Capo. La Grande guerra del generale Luigi Cadorna . Storico militare, professore all’Università di Padova, ha scavato soprattutto nei libroni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla condotta della guerra, ma non ha trascurato nulla, documenti, testimonianze di rilievo e anche minute, epistolari, inchieste e libri, naturalmente, una bibliografia smisurata. La sua è una ricerca insolita anche nello stile, ben scritta, evento non comune tra gli storici nostrani. Il libro non è soltanto l’opera di uno storico agguerrito. A volte sembra anche la seduta di uno psicanalista che sul lettino al suo fianco ha, come paziente, il generalissimo che nel 1924 Mussolini nominò maresciallo d’Italia, insieme con Armando Diaz. (Il vincitore del Piave ebbe in più anche il titolo di duca della Vittoria).
Il Capo è la storia di un generale padreterno dell’io, uno che ritiene di non sbagliare mai, e se le cose non funzionano è sempre alla ricerca di capri espiatori. Senza alcuna fiducia nei suoi soldati, non sa quali possano essere i rapporti umani e ritiene unico rimedio alla sconfitta o ai disguidi anche di minor conto, la punizione, la fucilazione, il siluramento degli ufficiali, la repressione come unica forma di comando. Un esempio, tra i tanti: Cadorna concesse al colonnello comandante del 141° fanteria l’onore di un encomio solenne e la citazione all’ordine del giorno dell’esercito per aver decimato una compagnia del reggimento accusata nel 1916 di sbandamento nel settore dell’altopiano di Asiago. Il colonnello farà rapidamente una fulgida carriera. (Nel 1917 è già generale di divisione). Decimazioni, mitragliatrici che sparano alle spalle delle truppe per spingere all’assalto i soldati riottosi, un generale, Andrea Graziani, noto come «il fucilatore» che durante la rotta di Caporetto è il responsabile di 35 esecuzioni sommarie completano il quadro dell’orrore.
Ma il libro non è soltanto la biografia di un uomo dal carattere dittatoriale, è la storia di una guerra, di un popolo, di una nazione non nata, di un esercito di contadini in grigioverde, analfabeti i più, che di tradotta in tradotta non sanno neppure dove si trovano, altro che ultima guerra del Risorgimento, lo slogan urlato dagli interventisti, qui trascurati. Mondini fa di continuo il punto sui rapporti tra i militari e i politici considerati troppo deboli o troppo liberali. Cadorna non ha sempre tutti i torti. Non viene neppure informato dal governo della dichiarazione di neutralità, del cambio di alleanza: il nemico non è più la Francia, ma l’Austria.
Lo storico spiega com’è l’opinione pubblica dell’epoca, scrive di Luigi Albertini, il direttore del «Corriere della Sera» e del suo feticismo per quell’uomo d’armi, scrive dei fedeli giornalisti embedded , Barzini, Fraccaroli, Ugo Ojetti che nei loro articoli esaltano Cadorna come un messia.
Mondini non trascura di analizzare i comportamenti degli Stati maggiori degli eserciti alleati o nemici e delle loro crudeltà, non soltanto italiane. Non ha preconcetti, non è né settario, né assolutista, non nasconde i meriti del generalissimo, quando esistono, raramente.
Luigi Cadorna nasce a Pallanza, sul Lago Maggiore, nel 1850, in una famiglia dell’alta borghesia di tradizioni militari, legata alla monarchia sabauda. Nel 1875, Vittorio Emanuele II ha concesso alla famiglia il titolo di conte cui il generale tiene molto. Nella vita non ha difficoltà, fino a Caporetto, disfatta priva di autocritica. Suo padre, Raffaele Cadorna, è il generale della famosa breccia di Porta Pia del 1870. Una scaramuccia con poche perdite. I 13.157 soldati del Papa si arrendono e accumulano fucili e mitraglie in piazza San Pietro e il Regio esercito rende loro l’onore delle armi. Chissà perché. La carriera di Luigi non ha inciampi, Collegio militare di Milano, Accademia di Torino, Scuola di guerra, Corpo di Stato maggiore. Nel 1898 è generale, più che le caserme frequenta gli uffici. Nel 1914 è nominato capo di Stato maggiore, comandante supremo.
Le sue manchevolezze sono caratteriali e culturali. Cattolico conservatore, più che cristiano, manca di ogni capacità di analisi psicologica. La moderazione non è pane per i suoi denti, detesta le discussioni, è maniacalmente sospettoso, rifiuta l’idea di un Consiglio di guerra, si fida di pochi, è «convinto della propria infallibilità (o ossessionato dall’impossibilità di ammettere i propri errori)» scrive Mondini. Basta leggere le prime righe del comunicato del Comando supremo emesso il 28 ottobre 1917, il n. 586, per capire le doti di grande e generoso condottiero di Luigi Cadorna: «La mancata resistenza di riparti della 2ª Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico (...)», cui seguirono fucilazioni, decimazioni di uomini innocenti rimasti senza ordini, alla ventura.
La commissione d’inchiesta su Caporetto lo definirà, in atti ufficiali, orgoglioso, impulsivo, egocentrico, isolato dal mondo circostante a causa della sua megalomania. Si infuria per quei giudizi, ritiene di essere un capo paterno. Il culto della personalità che nel primo periodo del suo comando gli ha fatto da angelo custode non gli giova: anche il vate guerriero nazionale, Gabriele d’Annunzio, gli ha dedicato un’ode non mirabile: «(...) Tu lo vedi al segnale delle trombe/sollevare e sferrare i battaglioni (...)». È terrorizzato dalle sconfitte del passato, Novara, Custoza, Lissa. Il padre eroe di Porta Pia è un modello che gli fa da pungolo e insieme lo inquieta. Il modo di pensare di Cadorna non si adatta ai profondi mutamenti di una guerra che sarebbe stata lunga e sanguinosa, priva di ogni reminiscenza risorgimentale — baionetta, fucile, cavallo, sciabola lucente, bandiera al vento — ed è condizionata invece soltanto dalla potenza industriale del Paese.
Cadorna è convinto che la guerra sarà costosa, impegnativa, lunga. Ha il culto della guerra offensiva, il suo dio è la disciplina assoluta, un dogma: «La disciplina», riesce a dire in una circolare del primo anno di guerra, «è la fiamma spirituale della vittoria». Vieta anche, dopo lunghi periodi di trincea, le licenze ai soldati, terrorizzato che a casa raccontino verità nascoste, non si cura neppure di capire la stanchezza degli uomini che combattono da anni in anfratti di montagna, su picchi impressionanti solo a vederli. Punisce — il siluramento — un’infinità di generali e di ufficiali superiori, sguarnisce reggimenti, divisioni, corpi d’armata, armate, anche alla vigilia di una battaglia. Le motivazioni sono precarie, spesso mascherano i propri insuccessi. Per gli ufficiali è una spada di Damocle. Timorosi di essere esonerati (con un telegramma), per conquistare la fiducia del capo commettono a loro volta gravi errori. Il governo è preoccupato. (Mondini non accenna al XXVII Corpo di Badoglio e alle polemiche che ci furono).
Perché Caporetto? Per tutto questo. Per gli esoneri di massa con la sostituzione di ufficiali brillanti con favoriti soltanto fedeli. Per la mancanza di un piano difensivo e di un progetto di ritirata. Per la sottovalutata stanchezza dei soldati. Per la polemica continua con i socialisti, con Giolitti, con Benedetto XV, il Papa dell’«inutile strage»: sarebbe stato necessario piuttosto costruire un esercito con pazienza e umanità. E poi per la mancanza, fin dall’inizio, di un professionale ufficio informazioni incapace di sapere e di capire quel che stavano facendo i tedeschi e gli austriaci, per il clima cortigiano del Castello di Udine, il pirandelliano Comando supremo dove il capo non discute con nessuno, solo con un segretario.
Non ci fu nessuno sciopero militare, come si disse, nessun tradimento. Diaz sul Piave usò diplomazia, mediazione, prudenza, buon senso. E seppe creare nei salvati dal massacro quel sussulto di dignità che portò a Vittorio Veneto.
Corriere 30.10.17
«La corazzata Potëmkin»? L’affondò il bolscevismo, non Fantozzi
di Aldo Grasso
Iris, il canale dedicato al cinema (numero 22 del dtt), ci ha regalato una serata folle e coraggiosa. Ha programmato, infatti, La corazzata Potëmkin (1925) e Ottobre (1928) di Sergej Ejzenštejn. Due famosi film muti per celebrare il centenario della rivoluzione russa. Sì, la famosa Corazzata Potëmkin , sbeffeggiata per l’eternità da Fantozzi!
Nel frattemp, la benemerita Cineteca di Bologna propone nelle sale la versione integrale e restaurata del capolavoro di Ejzenštejn, con musiche originali di Edmund Meisel, nella speranza di fare luce sulle troppe versioni manipolate che da anni circolano e che hanno fatto naufragare il film in un mare di equivoci. Per tornare a vedere La corazzata Potëmkin con sguardo nuovo si potrebbe ripartire da un memorabile epicedio di Ruggero Guarini del 1980. Diceva: «Ahimè, della Corazzata / è svaporato il messaggio; / ne resta la celebrata / efficacia del montaggio».
La Corazzata affondata da Fantozzi è solo quella diventata nel tempo un modesto documentario sulla rivoluzione d’Ottobre, un esempio di «cinema politico» trasformato in bandiera della lotta al capitalismo, una dichiarazione di vittoria che si slancia per enfasi artistica (l’effetto Kulesov!) e convinzione ideologica oltre i confini sovietici e scalda i cuori di ogni spettatore.
Come se Ejzenštejn fosse un onesto cineasta militante, una specie di Pudovkin. L’ideologia comunista ha rovinato il cinema di Ejzenštejn, che ha cominciato girando film meravigliosi ed è finito a fare i prototipi di 900 di Bertolucci! Ejzenštejn è figlio dell’avanguardia russa, è il riflesso degli anni della speranza e del progresso democratico, gli anni della Duma, di Stolypin, del crollo del regime autocratico, del breve governo di Kerenski. La corazzata Potëmkin , culturalmente, ci appartiene più di quanto crediamo, punta la prua più verso Parigi che verso Mosca. Non Fantozzi, ma il bolscevismo ha fatto affondare Ejzenštejn.
Repubblica 30.10.17
“Sacco e Vanzetti” cronaca di un successo
Restaurata la pellicola del 1971di Giuliano Montaldo con Cucciolla e Volonté, e la canzone di Joan Baez
Il film sarà riproposto alla Festa di Roma il 4
di Irene Bignardi
COME tante cose importanti, anche il film che Giuliano Montaldo ha dedicato alla tragedia di Sacco e Vanzetti è nato dal caso. Il casuale incontro nel 1970 con un amico che lo aveva convinto ad andare con lui in un teatrino della zona operaia di Sampierdarena, dove si metteva in scena la storia dimenticata di Sacco e Vanzetti.
Da quel giorno, racconta ora il regista, a distanza di quasi cinquant’anni dall’inizio di quell’avventura, la storia dei due anarchici italiani, ingiustamente accusati nel 1920 di duplice omicidio per rapina e finiti sulla sedia elettrica nel 1927 dopo sette anni di prigione per il solo fatto di essere poveri, immigrati e anarchici, dopo un processo monstre e la mobilitazione di tutte le forze democratiche in Usa e ovunque nel mondo per salvagli la vita, quella storia, dice Montaldo, non gli ha dato pace. Ma trovare i fondi per fare un film sulla vicenda di Sacco e Vanzetti sembrava quasi impossibile. Stando ai molti no e agli sguardi di commiserazione dei produttori consultati.
Ma, racconta Montaldo (che della storia dei due fino ad allora non sapeva niente), nel frattempo trovò un appassionato sostenitore, e una fonte sapiente, in un intellettuale del peso di Fabrizio Onofri: aveva trovato un riflesso doloroso nella storia della strage alla Banca dell’Agricoltura del dicembre 1969 e nella successiva colpevolizzazione degli anarchici. Spuntò anche un produttore: Harry Colombo.
Tutto questo, e la storia nella storia, è raccontato nel bel documentario La morte legale di Silvia Giulietti e Giotto Barbieri, presentato a Cinecittà al centro di una mostra di 40 scatti di scena dall’Archivio di Enrico Appettito. Una iniziativa in cui si sono associati Luce e Rai cinema, la Cineteca di Bologna e il ministero, DG cinema e Cinecittà Studios. Un omaggio alla vigilia, il 4 novembre, della presentazione del film di Giuliano Montaldo in edizione restaurata, e un ricordo dei due anarchici italiani nel 90° anniversario della loro esecuzione e nel 50° della loro ufficiale riabilitazione.
La lavorazione del film è stata complessa e avventurosa. Della vecchia Brockton, Massachusetts, dei tempi di Sacco e Vanzetti (che nel frattempo avevano trovato i loro volti per il film in Riccardo Cucciolla come Nicola Sacco l’operaio, e in Gian Maria Volonté come Bartolomeo Vanzetti il pescivendolo), e dell’America del 1920 restava ben poco. Una buona parte delle riprese fu così effettuata in Irlanda e in alcune zone rimaste intatte di New York. Ma il film si svolge soprattutto nelle aule di tribunale e rispetta le regole del courtroom drama, il dramma giudiziario, controbilanciato dai materiali d’archivio e dalle impressionanti scene di folla che documentano quanto profondamente la vicenda dei due italiani avesse toccato la fantasia e le passioni della gente. Sacco e Vanzetti, per taluni simbolo della Minaccia rossa (erano gli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione russa), per altri la speranza di un mondo migliore e più giusto, che invocava anche la canzone cantata da Joan Baez alla fine del film.
Se all’uscita italiana il film trovò un terreno favorevole e un pubblico sensibile e motivato, anche dagli eventi recenti, e se Cucciolla si guadagnò a Cannes, a sorpresa, il premio come miglior attore, negli Stati Uniti le reazioni furono contrastanti e sempre, in realtà, molto politiche e sotto sotto passionali. Così se Vincent Canby, il critico del
New York Times, definì Sacco e Vanzetti, senza perifrasi, «non un buon film» ( in realtà risultando chiaramente spiazzato dal fatto di assistere a un grande film civile sull’America non fatto da americani ) Roger Ebert , il critico del Chicago Sun, è rispettosamente e devotamente in ammirazione. E in un gioco per bambini ispirato a un libro di Daniel Curley, Sacco e Vanzetti diventano una sola persona, con i due nomi attaccati in una crasi che dimostra quanto il dramma dei due anarchici sia diventato parte della cultura popolare.
“Sacco e Vanzetti”. Il film sarà riproposto alla Festa di Roma il 4
La Stampa 30.10.17
I Radicali: noi mai lista civetta
I
Radicali italiani sono pronti a presentarsi alle elezioni politiche del
2018, su una piattaforma federalista europea, ma da soli, perché non
sono disposti «ad esserci ma a condizioni imposte dagli altri», come
quelle che in questo momento propone il Pd, che ridurrebbe i Radicali
italiani «a un cespuglietto, non a una lista civetta, ma civettuola». Lo
ha detto il segretario Riccardo Magi aprendo il XVI Congresso che si
chiuderà mercoledì
Corriere 30.10.17
Gozi: «Venite con il Pd» Ma i radicali dicono no
al
convegno europeista dei Radicali italiani arrivano Giuliano Pisapia,
Romano Prodi (in video) e Sandro Gozi, che lancia l’offerta: «Venite con
il Pd». Offerta subito respinta dal segretario Riccardo Magi — «Non
vogliamo essere una lista civetta» — che lancia l’idea di una lista
radicale europeista, aperta all’alleanza con Verdi e socialisti. Marco
Cappato vedrebbe meglio una lista federalista europea con Benedetto
Della Vedova. Decisivo sarà l’intervento di Emma Bonino, domani.
Repubblica 30.10.17
Bonino: “Difficile una intesa con questo Pd che attacca la Ue”
L’ipotesi di un cartello europeista con Verdi e l’ex sindaco di Milano.
Magi: niente liste civetta
L’ex
ministro e il congresso dei Radicali: “Decideremo come esserci alle
elezioni. I dem come Coco Chanel: Rosatellum cucito su misura. Apprezzo
Pisapia”
di Giovanna Casadio
ROMA. «La
strada che vogliamo prendere noi Radicali? La strada che potremo
prendere, piuttosto… il Pd ha fatto una legge tipo Coco Chanel. È
costruita a propria misura: chi c’è c’è e chi non c’è non c’è». In una
pausa-sigaretta, Emma Bonino tira le fila della due giorni di convention
europeista e dell’inizio del congresso del partito. E si sfoga: «Ma
avete presente quante firme bisogna raccogliere? E in quanto tempo!». Il
tempo è poco e le firme per presentare una lista - che abbia l’Europa
al centro - sono molte. Di tutto il resto, cioè con chi entrare in
coalizione, se e a quali condizioni accettarele avances renziane, si
parlerà in seguito. Certo Giuliano Pisapia è un interlocutore. «Pisapia è
apprezzabile », ammette Bonino. E Campo progressista apprezza a sua
volta Bonino, invitata con i Radicali all’assemblea del movimento
dell’ex sindaco di Milano, il 12 novembre.
Il possibile cartello
della sinistra europeista e federalista che dovrebbe poi allearsi al Pd -
è un cantiere aperto. Chiamati a partecipare sono coloro che «sono
interessati a guardare oltre il solo Raccordo anulare», ironizza Bonino.
Alla convention sono intervenuti i socialisti di Riccardo Nencini,
Carlo Calenda, i Verdi di Angelo Bonelli e, in testa, Benedetto Della
Vedova, promotore di “Forza Europa”. Ma i dubbi di Emma riguardano
Matteo Renzi. Non è una novità. Con Enrico Letta al contrario c’è sempre
stata intesa, tanto che l’ex premier - presente alla convention
europeista - ha scherzato: «Emma sto con te ma non mi candido, non
parteciperò alle prossime elezioni». Solida amicizia anche con Romano
Prodi, che ieri ha mandato un video messaggio. Invece tra Bonino e Renzi
che al momento della formazione del suo governo nel 2014 la scaricò
come ministro degli Esteri - mai c’è stato grande feeling. Troppo
spregiudicato, artefice di politiche europeiste a fasi alterne: è il
giudizio di Emma Bonino, cresciuta alla scuola dei padri dell’Europa ed
europarlamentare nel 1979 a 31 anni.
E quindi ieri a Sandro Gozi,
sottosegretario inviato da Renzi come ambasciatore alla convention,
Bonino ha replicato: «Metto da parte gli appunti che avevo preparato per
rispondere a un discorso che mi ha stimolato ma non entusiasmato». E ha
fatto il paragone della barca, che è poi l’Europa: «Ogni velista sa che
l’ultima cosa che si fa è abbandonare la barca, anche se c’è tempesta,
la barca non si abbandona mai. Non solo non la abbandoni, ma non la
picconi ogni giorno. Pure se sostieni di farlo a fin di bene, ma di
buone intenzioni sono lastricate le strade… Intanto abbiamo la barca, le
tele sono un po’ strappate ma possiamo ricucirle e riprendere a
veleggiare. Poi se viene uno più ricco comprerà una nuova barca».
Una
gelata su Renzi e sulle politiche europee da lui fatte. I Radicali di
Bonino e di Riccardo Magi, il segretario, sembrano comunque decisi a
esserci con il logo radicale (se passa la modifica proposta dello
statuto) alle elezioni politiche del 2018. Magi fa intendere che
potrebbero andare da soli. Ma è soprattutto una risposta a Gozi, molto
diretto nell’invito a Bonino e a Pisapia di allearsi con il Pd perno di
ogni alleanze di centrosinistra. «Non siamo disposti a esserci a
condizioni imposte da altri, a essere un cespuglietto, una lista civetta
anzi civettuola…». Frecciata di Magi. E Bonino che interverrà forse già
domani al congresso, è contraria a «comparsate» estranee alla
tradizione radicale.