venerdì 27 ottobre 2017

Repubblica 27.10.17
Perché l’Unesco sbaglia su Gerusalemme
di Alberto Melloni

Con una iniziativa senza precedenti la scorsa settimana quindici cattedre Unesco hanno promosso un incontro sul tema del nome dei luoghi santi di Gerusalemme nella città santa. E hanno garbatamente rimproverato all’agenzia dell’educazione scienza e cultura di aver agito senza ascoltare educazione, scienza e cultura quando, fra il 2006 e il 2016 ha preso decisioni di una sbalorditiva superficialità sulla città santa delle fedi abramitiche. In quel lasso di tempo, con una escalation non casuale, quei siti sono stati definiti in termini unicamente arabo-islamici, evocandone la denominazione, “l’autenticità”, “la santità” e la funzione di sede di “adorazione”. Così da far passare la presenza dei cristiani come decorativa e quella israeliana come sacrilega. La querelle è stata lunga e ha suscitato reazioni molteplici. L’America di Trump ha prima protestato, poi annunciato il suo ritiro dall’Unesco, ripetendo un errore di Reagan che si fonda, al di là dei pretesti e delle implicazioni economiche, nella logica conflittuale e anti- multilaterale che gli rimproverano sia Bush che Obama. Israele ha improvvisamente cambiato linea: mentre a maggio Netanyahu intestava al suo Paese il merito di aver assottigliato il numero dei paesi favorevoli a quei gesti incendiari, adesso ha anch’esso disposto l’uscita di Israele; in ragione di sentimento antiebraico e antisraeliano, che all’Unesco c’è ed è corposo – ma che non ha impedito l’elezione a direttore generale di Audrey Azoulay, statista francese e figlia di André Azoulay, consigliere ebreo del re del Marocco – che dovrebbe essere confermata da un voto della Conferenza generale del 10 novembre. Nel contempo, in una ritirata palesemente tattica, i paesi che avevano accumulato espressioni sempre più violente e odiose su Gerusalemme hanno ripiegato – solo per questo 2017 – su formulazioni più ordinarie e depoliticizzate: così senza nulla dire dei bulldozer arabi che hanno scavato la pregiatissima zona del monte dove sorgeva il tempio di Salomone e dove sorgono ora le sante moschee, si muovono rimproveri e richieste ad Israele tornate nel registro a bassa conflittualità usato per anni dalla Giordania. La provocazione in sede Unesco, prima esasperata e poi messa in pausa, ha avuto ragioni politiche evidenti: Unesco è una delle due agenzie in cui la Palestina siede come Stato ed è comprensibile che sia stato scelto questo come teatro per una manovra di terrorismo verbale, che voleva suscitare allarme e confusione. Ma è stupefacente che proprio l’agenzia dell’educazione, della scienza e della cultura si sia mossa non da oggi su un terreno così delicato senza alcuna coscienza degli spessori storici e teologici che ogni parola spesa su Gerusalemme (così come su Hebron, dove riposa Abramo da mille e mille anni in attesa che i suoi figli smettano di odiarsi) sono immensi e non possono essere trattati con superficialità. Superficialità risalente, in vero, al 1980: quando si decretò, nella indifferenza generale, che Gerusalemme e le sue mura portavano i segni della presenza ebraica “da David all’assedio di Tito del 70 d.C.”, come se dopo l’ebraismo fosse svanito; e poi si diceva, della “coesistenza (sic!) fra arabi e cristiani dal 699 al 1099” e poi del dominio ottomano. Rimasta inerte per decenni, questa ferita al senso storico e al buon senso ha cominciato a infettarsi, con processi che hanno portato già nel 2006 a parlare di “accesso all’Haram al Sharif”, il monte del tempio in cui predicò Gesù, senza evocarne la sacralità per tutti i credenti delle fedi che hanno Abramo per padre, e poi dal 2013 a qualificare l’area con un crescendo di manipolazioni. Che non sono scaramucce diplomatiche o propagandistiche.
Siamo infatti davanti a una questione di enormi proporzioni: nel riscaldamento religioso globale – non meno pericoloso di quello climatico – la complessità, la stratificazione, la polisemia, il groviglio di significati di Gerusalemme è il codice della complessità del mondo: o si vede la complessità come la soluzione e allora ci sarà la scassatissima pace del negoziato, o la si vede come il problema e come problema da risolvere a qualunque prezzo, allora la manomissione degli equilibri – anche solo degli equilibri verbali – richiederà sangue. E lo avrà.