giovedì 26 ottobre 2017

Repubblica 26.10.17
Anche in Cina la crescita porta disuguaglianza: la svolta di Xi
di Angelo Aquaro

PECHINO DIMENTICATE la Cina di Mao Zedong che ci guarda dal suo ritrattone a pochi metri da qui. Per capire l’ultima rivoluzione che si consuma nella Grande Sala del Popolo bisogna guardare all’America dei “dimenticati” di Donald Trump, all’Inghilterra travolta da Brexit, ai populismi che infiammano l’Europa. Quando i Magnifici Sette salgono sul palco per la parata che ogni cinque anni svela gli uomini più potenti del Dragone è chiaro che si entra in una “nuova era”.
L’UOMO che prometteva di guidare il paese verso il “new normal”, Xi Jinping, ha segnato il più grande strappo dai tempi di Deng Xiaoping. Nel comitato permanente sfilano tra gli altri Wang Huning, 61 anni, il Kissinger cinese, Wang Yang, 62, il plenipotenziario della Nuova Via della Seta che dialoga con gli Usa, e Li Keqiang, 62, il capo dell’esecutivo, l’unico con Xi a non aver dovuto lasciare per il limite d’età non scritto di 68 anni. Ma gli uomini lì impalati come improbabili Men in Black sono tutti della generazione del capo. E perfino il più giovane, Zhao Leji, che prende il dipartimento anticorruzione, al prossimo cambio della guardia sarà 65enne. Non c’è un erede e la seconda potenza del mondo è destinata a essere governata per chissà quanto da Xi. Com’è possibile che un uomo solo abbia potuto concentrare così tanto potere? Le risposte sono due. La prima è raffigurata nella stretta di mano a fine congresso tra il provatissimo Jiang Zemin, 91 anni, quell’Hu Jintao che ne ha 74 e sembra coetaneo di Xi, dieci di meno, e sempre lui, il nuovo Mao. Ci si affida al dictator perché ne va della sopravvivenza di tutti: ciascun leader rinuncia a un pezzo di potere personale per preservare il potere collettivo del partito. La seconda è un po’ causa della prima ed è nascosta nella Costituzione appena modificata che esalta il ruolo del partito padrone, dalle forze armate al web. E introducendo concetti come «soft power», «democrazia consultiva» e «nuova governance sociale », cioè il Grande fratello reso possibile dallo sviluppo incrociato di tecnologia e dati, mette nero su bianco la necessità di non pestare più sul pedale della crescita – dove comunque «il governo deve giocare un ruolo migliore» – senza affondarlo prima nella frizione del riequilibrio. Con tanto di licenza poetica: «Dobbiamo capire che acque chiare e monti lussureggianti sono valori inestimabili».
Il concetto-chiave sepolto nei 203 minuti di relazione congressuale si rifà a un principio caro a ogni bravo marxista, e Xi Jinping lo è: il cambiamento si persegue individuando e risolvendo la contraddizione principale di una società. È il “pensiero” che gli regala l’aureola di teorico del marxismo-leninismo elevandolo, nella Carta, accanto a Mao: il «socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era». Il piccolo grande particolare è che «la principale contraddizione è cambiata»: e per un cinese è come vedersi correggere il credo. L’ultima, 1981, era la contraddizione tra «la crescita dei bisogni materiali e culturali» e «un sistema produttivo arretrato»: da qui l’apertura al mercato di Deng e il Pil a due cifre. Oggi, dice Xi, la contraddizione è tra «uno sviluppo inadeguato e diseguale» e «i bisogni crescenti per una vita migliore ». Se non ci trovassimo di fronte a un regime che tra altre vergogne nega a
New York Times, Economist, Financial Times, Bbc e Guardian l’accesso a questa conferenza stampa – pure rigorosamente senza domande – sembrerebbe di ascoltare un leader di Occupy Wall Street. Ma in fondo è a questo che Xi e i signorotti di partito non vorrebbero mai arrivare: alla protesta che può sfociare da un momento all’altro. È lo sviluppo ormai «diseguale» a fare paura: come nella nostra Europa da recessione infinita. Perché nel paese dei miliardari stile Jack Ma, Mr. Alibaba, l’1% della popolazione possiede un terzo delle ricchezze. Perché a terremotare il sogno di «un moderno paese socialista, prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato, armonioso e bello» è soprattutto l’«inadeguatezza » di questo stesso sviluppo.
Nella Cina che scopriva la crescita Tiananmen scoppiò quando il gruppo sociale più vivace, quello degli “intellettuali” che comprendeva insegnanti, studenti e impiegati, trovò il coraggio di protestare perché il salario non bastava più. Ma nell’Impero che entro tre anni riscatterà gli ultimi 30 milioni di persone sotto la soglia di povertà la nuova Tiananmen rischia di scoppiare mica perché non c’è il pane: perché manca il companatico. «È la seconda generazione degli urbanizzati, la gente che non ne può più dell’inquinamento, di metropoli dove è impossibile vivere», spiega a Repubblica Jonathan Fenby, l’autore di Will China Dominate the 21st Century?. «Ecco i problemi che Xi deve affrontare nei prossimi 5 anni: sacrificando il mantra della crescita sopra il 6%». Dimenticate Mao Zedong: e come ci somiglia, e come ci riguarda se frena la crescita, la “nuova era” di Xi Jinping.