giovedì 26 ottobre 2017

Repubblica 26.10.17
Verdini e la Lega salvano il governo
I loro voti decisivi per approvare la legge elettorale

ROMA. Il Rosatellum ieri ha passato l’esame delle cinque fiducie al Senato. Ma in soccorso del Pd per approvare la legge elettorale sono arrivati i voti, decisivi, di verdiniani e Lega. A complicare la partita, le defezioni tra i dem. Mentre Giorgio Napolitano, nel suo intervento in aula, ha criticato il ricorso alla fiducia, denunciando pressioni sul premier. E domani arriverà il nome deciso dal Consiglio dei ministri per il governatore di Bankitalia: Gentiloni per la riconferma di Visco.

Entra in scena a fine giornata Roberto Calderoli, l’autore del fu-Porcellum, legge elettorale dal 2005 al 2013. Con altri sette leghisti vota in Senato un bel no alla fiducia, la quinta sulla nuova legge elettorale, il Rosatellum. Ma non è un atto d’ostilità, bensì una ciambella di salvataggio per raggiungere il numero legale, che ha oscillato. Senza numero legale il voto di fiducia non sarebbe stato valido, sarebbe stato come giocare in fuorigioco. Calderoli è soddisfatto: al Carroccio il Rosatellum piace. Matteo Salvini, il leader leghista, pensa di fare cappotto di collegi al Nord e già progetta il governo: «Mai con il Pd. Esclusi accordi con la sinistra, se non fosse sufficiente il centrodestra - dice confermando un feeling più volte negato - parlo anche con i 5Stelle, perché no?».
I voti in aula filano lisci, nonostante caos e insulti, un tentativo di ostruzionismo dei 5Stelle. Cinque fiducie al Rosatellum votate con numeri che sta ai segretari d’aula dei partiti - e al senatore Francesco Russo del Pd in particolare - sorvegliare. Forza Italia aiuta molto, calibrando assenze e presenze per il numero legale. La prima fiducia passa con 150 sì e 61 no. Il numero legale – calcolato in base ai presenti rimpolpati dagli assenti giustificati – è a 133. La fiducia sull’articolo 2 passa con 151 sì e 61 no.
Però la partita si complica. Servono i voti dei verdiniani a garantire il numero legale che è salito a 144. Diventano determinanti i 13 (uno è assente) senatori di Ala. Senza di loro non sarebbe tranquilla la navigazione del Rosatellum con fiducia, visto che Mdp è uscito formalmente dalla maggioranza e vota contro. Non solo i demoprogresisti dicono no, ma aspettano di vedere se alla “prima chiama” (i parlamentari vengono chiamati due volte a ogni fiducia) il numero legale c’è. Se non ci fosse stato, loro avrebbero favorito il “fuorigioco”.
La fiducia numero tre è di 148 sì e 61 no. La quarta di 150 sì e 60 no. Numero legale a 144. Alla quinta, un po’ di panico ed è qui che i leghisti offrono soccorso. Oggi al voto finale che renderà il Rosatellum legge, la maggioranza sarà ampia: Pd, Ap, centristi, verdiniani, FI e Lega. Non la voteranno 7 dissidenti dem, tra cui Vannino Chiti, Massimo Mucchetti, Walter Tocci e Luigi Manconi. Chiti viene fermato dai cronisti. Domanda: «Lei non vota il Rosatellum perché è il suicidio del Pd al Nord?». Il riferimento è alla simulazione circolata in questi giorni in cui i Dem vincerebbero pochi o addirittura zero collegi. Poco prima era andato a stringere la mano a Giorgio Napolitano. Il discorso più atteso, quello dell’ex capo dello Stato, un monito contro la politica dei personalismi e la miopia di chi non riesce a sollevare lo sguardo dalle «nevrosi di fine legislatura». Un sì al governo Gentiloni, ma giudizio severo sulle pressioni per la fiducia. Una reprimenda al segretario del Pd, Matteo Renzi.
Il presidente del Senato Pietro Grasso mantiene nervi saldi nel caos dell’aula. Il grillino Vito Crimi gli chiede con tono di sfida perché non se ne sia andato, candidandosi in Sicilia. Lui risponde: «Può essere più duro resistere, piuttosto che accettare una fuga vigliacca. Si può esprimere il malessere ma non è detto che, quando si ha il senso delle istituzioni, si debba obbedire ai propri sentimenti ».

Corriere 26.10.17
Via libera alle cinque fiducie nel caos. L’aiuto di Verdini diventa decisivo
Legge elettorale, oggi il voto finale. M5S contro Grasso, lui replica: a volte più difficile restare che andarsene
di Dino Martirano

ROMA La legge elettorale supera ben 5 voti di fiducia, e si avvia al sì definitivo previsto per oggi, ma al Senato scoppia la guerra delle cifre perché, almeno in due scrutini, la squadra di Denis Verdini (Ala) ha avuto un ruolo decisivo per il raggiungimento del numero legale. «Da oggi è nata una nuova maggioranza con Verdini», denuncia la capogruppo di Mdp Cecilia Guerra. Ma nel Pd — nonostante le «riserve» del senatore a vita Giorgio Napolitano, che non ha votato la fiducia pur annunciando il suo sì finale al Rosatellum — si bada al risultato messo in sicurezza prima delle elezioni siciliane: «L’Italia avrà un sistema equilibrato», spiega il renziano Andrea Marcucci e Piero Fassino respinge l’accusa di aver fatto una «legge fascista».
Secondo fonti del Pd, i 12-13 verdiniani presenti in Aula per votare con il governo sarebbero stati determinanti per il numero legale solo alla terza fiducia, e per un solo voto di scarto. Ma alla quinta prova di fiducia — quando Mdp, SI e M5s avevano lasciato l’Aula — per la maggioranza che sostiene Gentiloni è arrivato il soccorso di 8 senatori della Lega e di 6 di FI, fino a quel momento assenti. Calderoli, Scilipoti e compagni hanno votato contro la fiducia ma, allo stesso tempo, hanno «annacquato» il contributo dei verdiniani per il numero legale. Se si sottrae dal totale dei presenti (172) l’aliquota della Lega e di FI giunta in soccorso (14 ), si arriva a 158 senatori in Aula. Ma se poi dai 158 si tolgono i 12 verdiniani, si precipita a quota 146: sotto di un’unità rispetto al numero legale (147). E ora il «puntellamento» dei verdiniani si riproporrà con la legge di Stabilità.
I partiti della fiducia (Pd, Ap, Scelta civica, Ala, Svp) non hanno avuto comunque problemi e oggi allungheranno le distanze allo scrutinio finale sul Rosatellum con i voti di FI e della Lega. Però la forzatura di 8 fiducie (3 alla Camera e 5 al Senato) ha creato un clima caotico in Aula e il presidente Pietro Grasso ha risposto così a Vito Crimi (M5S) che lo invitava a dimettersi: «A volte è più difficile restare che andarsene. Come sapete, non ho accettato di candidarmi in Sicilia per continuare a espletare il mio compito. Quando si difendono le istituzioni non sempre si possono seguire i propri sentimenti...».

La Stampa 26.10.17
Effetto Nord-Est sulle elezioni
Per 7 su 10 spinta al centrodestra
Il sondaggio di Piepoli: il 68% degli italiani non è sorpreso dal risultato delle consultazioni in Lombardia e in Veneto
di Nicola Piepoli

Abbiamo interrogato l’opinione pubblica per capire qual è il sentimento degli italiani nei confronti dei referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto della scorsa domenica.
Ma i cittadini sono davvero informati sull’esito delle due consultazioni? Per quanto riguarda il voto in Lombardia, sette italiani su dieci sanno che ha vinto il “Sì”, ma ben tre su dieci pensano erroneamente che sia stato raggiunto il 51% degli aventi diritto al voto. C’è disinformazione anche sull’esito del referendum in Veneto: un italiano su quattro, infatti, crede in modo sbagliato che nella regione non sia stato superato il quorum pari al 51%.
In ogni caso va detto che il risultato in termini di affluenza è stato determinato da una cultura diversa nelle due regioni. Quella della Lombardia - e in particolare di Milano - discende da una storia in cui il capoluogo, salvo che nell’Alto Medioevo, non è mai stato capitale e in tempi più recenti ha avuto come capitali Madrid, Vienna e, recentissimamente, Roma; quindi è abituato a disinteressarsi della «cosa pubblica» che, affidandosi a regnanti «stranieri», certe volte, come con Maria Teresa d’Austria, gli ha portato ricchezza. Totalmente diversa è la storia del Veneto e di Venezia che per dieci secoli è stata una grande regina del Mediterraneo. È perfettamente giustificato quindi il fatto che il territorio di Venezia sia stato più vicino a un voto che sente riaffiorare l’antico spirito di indipendenza.
In ogni caso l’errore piuttosto forte dell’italiano medio nella visione del quorum e quindi dei risultati apparentemente simili indica un certo disinteresse, al di fuori delle due regioni, nei confronti di questo referendum. In fondo, per l’italiano medio, il suo concittadino lombardo-veneto ha fatto una semplice passeggiata ed è andato a votare senza quasi salutar nessuno. Cosa questa confermata dalle successive domande che riguardano la sorpresa in funzione dell’esito del referendum, che è stata quasi inesistente, e il sentimento provato di fronte al “Sì” totalitario dei votanti che si è distribuito quasi equamente tra sentimento positivo e sentimento negativo mentre la maggioranza relativa degli italiani si è schierata verso un sentimento di pura e semplice indifferenza.
Che conseguenza sui territori regionali avrà secondo gli italiani l’esito di questi referendum? Quasi nessuna in termini politici perché meno di uno su 10 degli intervistati pensa a qualcosa di simile alla Catalogna: si tratta in fondo di una cosa che potrà portare «più soldi» alle due regioni o al massimo un trattamento simile a quello delle altre regioni italiane a statuto speciale.
Viceversa qualche conseguenza è prevista per le future elezioni politiche. Sette italiani su dieci pensano che qualche influenza del “Sì” del Lombardo-Veneto ci sarà quando andremo tutti a votare in primavera e la maggioranza pensa, a torto o a ragione, che questo “Sì” incrementerà più o meno marginalmente i voti raccolti dal centrodestra e dalla destra.
In un certo senso le due regioni, attualmente guidate dal centrodestra, hanno acceso una miccia più o meno esplosiva a favore della loro parte politica.

il manifesto 26.10.17
Governo Rosatellum
Legge elettorale. Senza maggioranza, ma con cinque fiducie. Gentiloni si salva al senato grazie ai dissidenti Pd che non affondano il colpo e ai senatori di Verdini (e alla fine arriva anche il soccorso di Calderoli). Napolitano attacca la riforma e la decisione di Renzi di strappare - "sul presidente del Consiglio pressioni fortissime" - ma invita a salvare l'esecutivo. In aula tanta tattica, proteste, gestacci e una rissa sfiorata
di Andrea Fabozzi

I numeri dicono che il governo Gentiloni non ha la fiducia del senato. Alle sei di ieri sera nell’ultima votazione sulla legge elettorale è sceso fino a 145 voti, ai quali vanno tolti i 13 dei verdiniani che non sono formalmente in maggioranza. Ma che nei nei momenti drammatici, come questo sul Rosatellum, scattano in soccorso. La sostanza è però un’altra: la riforma elettorale, la seconda in questa legislatura, è cosa fatta (oggi il via libera definitivo). «Siamo sicuri che possa reggere a lungo?» è la domanda che ha rivolto all’aula Giorgio Napolitano. La sua risposta evidentemente è no.
In una pausa dei lavori d’aula, il senatore Calderoli spiega di condividere la preoccupazione: «Anche di questa legge si occuperà la Corte costituzionale». Autore della prima riforma elettorale bocciata dalla Consulta – il celebre Porcellum – non ha smesso di detestare politicamente l’ex capo dello stato, ma è l’unico leghista seduto al suo posto quando Napolitano interviene. L’aula ha un raro momento di silenzio, il presidente emerito – 92 anni – parla da seduto: per lui una lampada speciale, un bicchiere d’acqua, fazzoletti e una lente d’ingrandimento. Il testo del discorso è scritto in caratteri molto grandi, le parole di critica sono molto forti ma controllate negli effetti. «Gentiloni è stato soggetto a forti pressioni, mi rammarico della decisione di porre la fiducia ma lo sostengo». Per il presidente che accompagnò Renzi durante tutte le forzature su Italicum e riforma costituzionale nessuna autocritica: il problema della «drastica compressione dei diritti e del ruolo dell’istituzione e dei singoli parlamentari» è una questione «delle ultime settimane». L’ex capo dello stato si preoccupa di non mettere in imbarazzo l’attuale, che presto dovrà promulgare la legge. Lo cita, eppure demolisce la persistenza nel Rosatellum della figura del capo della forza politica che «adombra un’elezione diretta del capo del governo». E giustamente corregge tante chiacchiere: «Non è mai stata affrontata di fronte alla Consulta l’obiezione di incostituzionalità sulla fiducia» per le leggi elettorali. Come dire: succederà.
Nel frattempo le fiducie scivolano via una dopo l’altra, grazie all’articolato sistema di protezione messo in piedi da Pd, Lega e Forza Italia. Per ogni votazione abbassano il numero legale una quarantina di senatori in congedo (malati) o in missione: la metà sono forzisti e leghisti che hanno l’alibi dei lavori della neonata commissione sulle banche, l’unica autorizzata a convocarsi anche durante le fiducie. In questo modo aiutano la maggioranza a tenere basso il numero legale che resta fissato a 143 senatori. Aiuta anche la decisione di sette senatori dissidenti Pd (Chiti, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ruta, Tocci e Turano), diventati nove nell’ultima votazione (con l’aggiunta di Longo e Giacobbe), di dissentire senza sabotare: sfilano sotto la presidenza segnalando la loro presenza in aula (e quindi contribuendo al numero legale) ma l’intenzione di non votare. Serve anche il definitivo approdo alla maggioranza di tre senatori ex Si e M5S (Stefano, Uras e Orellana). Ma più di tutti contribuisce la scelta dei verdiniani di votare sempre la fiducia: su 14 senatori di Ala 13 votano sì e uno è in congedo. Senza il gruppo Verdini e la «fazione Chiti» il numero legale sarebbe mancato ad ogni votazione. Salvo che nell’ultima – la quinta fiducia – quando è arrivato anche il soccorso di otto senatori leghisti e sei forzisti (tra i quali l’eterno Scilipoti) comandati in aula a votare no da Calderoli, messo in allarme dalla decisione di M5S, Sinistra italiana e Mdp di uscire dall’aula.
L’appoggio del gruppo di Verdini, politicamente assai rilevante, non si può dire che sia stato numericamente determinante per il numero legale. Le due votazioni più delicate per il governo sono state la terza e l’ultima. Alla terza votazione hanno partecipato 217 senatori, così divisi: 148 sì, 61 no, 8 presenti e non votanti di cui sette con Chiti e uno il presidente Grasso. Se i 13 verdiniani non avessero partecipato, e i 61 contrari, avendolo notato dopo la prima chiama, avessero deciso di non rispondere per tentare lo sgambetto, il numero legale si sarebbe fermato a 143 (135 più 8), cioè esattamente al minimo necessario. Dunque votazione comunque valida. Ma è un calcolo teorico, perché tra i 61 contrari ci sono alcuni senatori (uno di Fratelli d’Italia, una di Gal e uno del Pd) che non avrebbero partecipato alla tattica dell’uscita dall’aula. Al quinto voto di fiducia, invece, hanno partecipato 172 senatori, così divisi: 145 a favore, dieci presenti e non votanti (9 con Chiti e uno il presidente Grasso) e 17 contrari. Con i senatori di Ala fuori dall’aula avremmo avuto 132 voti a favore, ma comunque 159 partecipanti al voto (e dunque il numero legale) perché il gruppo Chiti non sarebbe uscito e tra i 17 contrari stavolta, oltre ai tre già citati, ci sono stati 8 leghisti e 6 di Forza Italia arrivati proprio per garantire il numero legale. In precedenza, sulle altre fiducie, grillini e sinistre hanno aspettato che il numero legale fosse raggiunto prima di scendere nell’emiciclo a votare no (con qualche senatore disattento inseguito e fisicamente bloccati dai colleghi che tenevano la conta).
A questa tattica i grillini hanno aggiunto un bel po’ del consueto colore, compresa una semi aggressione al segretario d’aula del Pd Russo in favore di telecamera (collegata in diretta con la piazza di Grillo). Diversi senatori a 5 Stelle, infatti, hanno votato coprendosi gli occhi con le mani, o addirittura bendati, o stracciando una copia della legge elettorale, o gridando contro Verdini; il senatore Giarrusso ha direttamente fatto il gesto dell’ombrello verso i banchi di Ala – al senatore D’Anna non è parso vero poter replicare con gli interessi. A quel punto Russo ha gridato «siate seri» ai grillini e i senatori Cioffi, Lucidi e Santangelo gli si sono avvicinati minacciosi (in mezzo i commessi). In precedenza gli ultimi due si erano limitati a gesti più composti, come ripetere cinque volte lo stesso discorso (visto che ai senatori non è stato concesso di fare le dichiarazioni di voto per ognuno dei cinque voti di fiducia) o slacciare il nodo della cravatta.
E più volte, nel corso della lunga giornata, i 5 Stelle hanno chiesto a Grasso di fare come Paratore, che nel 1953 si dimise da presidente del senato per la fiducia sulla legge truffa. Grasso ci ha tenuto sempre a replicare. «Ho studiato, Paratore si dimise dopo la fiducia e non per impedirla», ha detto una prima volta. E poi, più esplicito, «a volte è più duro restare per il senso delle istituzioni, e continuare nonostante il malessere». Parole chiare che resteranno a verbale, e solo lì.

Repubblica 26.10.17
Tra forzature e declino istituzionale il triste finale di una legislatura
di Stefano Folli

IL MOMENTO in cui il senatore a vita Napolitano ha preso la parola nell’aula del Senato meriterebbe di essere ricordato come uno dei passaggi significativi nella storia istituzionale del paese. Sfortunatamente è la storia di un declino, riassunto nelle linee di una riforma elettorale che l’ex capo dello Stato ha criticato a fondo nel merito, pur riconoscendo prioritaria l’esigenza di garantire la stabilità (come sempre, del resto). E la stabilità implica in primo luogo di non far cadere il governo. Ma Napolitano ha introdotto un particolare elemento nella sua analisi che non può passare sotto silenzio perché descrive l’atmosfera in cui si chiude questa legislatura e si annuncia la prossima.
Si tratta delle “pressioni improprie” subite dal presidente del Consiglio Gentiloni. Pressioni affinché fosse posta immediatamente la fiducia sia alla Camera sia al Senato, quando era noto che Palazzo Chigi non voleva entrare nella mischia: peraltro dietro prezioso suggerimento del Quirinale. Pressioni quindi volte a strozzare il dibattito in Parlamento e alterare la normale dialettica maggioranza/opposizione su un punto cruciale come la legge elettorale. Queste pressioni - come hanno compreso tutti dentro e fuori dell’aula - sono venute dal leader del Pd, Matteo Renzi. E quindi il quadro descritto da Napolitano racconta una storia drammatica.
Un presidente del Consiglio costretto di fatto a compiere un atto istituzionale in cui non crede, dal momento che ne vede tutte le conseguenze negative. Un ex premier, Renzi, che non esita a sacrificare un amico leale per inseguire un suo progetto di potere che si proietta sulla prossima legislatura. Un presidente della Repubblica in carica, Mattarella, silenzioso ma sempre più preoccupato per l’oggi e per il domani. Infine una legge elettorale la quale, nel più classico caso di eterogenesi dei fini, rischia di indebolire e forse disintegrare il Pd in tutti i collegi del Nord, dove il centrodestra Berlusconi-Salvini è molto forte.
Le parole dell’anziano presidente emerito sono un atto evidente in difesa delle istituzioni; e pazienza se berlusconiani e Cinque Stelle preferiscono continuare nelle loro annose polemiche. Quel che è certo - e Napolitano non lo ha detto perché esulava dal tema legge elettorale -, le “pressioni improprie” sono continuate anche in altri ambiti; anzi, sono diventate via via più insistenti. Riguardano Gentiloni ma investono, sia pure in forma indiretta, il ruolo di Mattarella. È noto che sulla nomina del governatore della Banca d’Italia si è svolto nei giorni scorsi un duro confronto fra Quirinale e Palazzo Chigi, da un lato, favorevoli alla conferma di Visco e Renzi, dall’altro, contrario. Pochi credono che la tensione si sia stemperata nelle ultime ore. E si potrebbe continuare citando altri punti su cui Renzi e Gentiloni non sono d’accordo (ad esempio le pensioni). Nel senso che il primo pensa alla campagna elettorale e il secondo alla coerenza dell’azione di governo, specie quando è in gioco il rapporto con l’Europa.
SI DIRÀ che il capo del partito di maggioranza relativa ha ben il diritto di influenzare le politiche del governo sostenuto dai suoi voti. Il problema è che i vari piani e le relative responsabilità si sono mescolati ormai in modo opaco. C’è il piano politico e quello istituzionale, ma in questi giorni troppe volte gli steccati sono saltati. Di fatto Gentiloni tende ad allontanarsi da Renzi e trova in Mattarella una sponda istituzionale di cui non può e non vuole fare a meno.
Si capisce allora cosa è avvenuto ieri a Palazzo Madama. I cinque voti di fiducia hanno reso esplicito quel che è risaputo: ogni volta che serve, i voti di Denis Verdini arrivano a puntellare la maggioranza. Quando sono determinanti, come sulla legge elettorale, si dimostra che questa stessa maggioranza ha cambiato di segno. Tanto più che il gruppo di Mdp da tempo, non certo da ieri, si è chiamato fuori. La novità, semmai, è che un altro manipolo di senatori Pd non ha votato la fiducia. Quindi la legge passa a costo di “pressioni improprie” poco trasparenti, nonché di ulteriori lacerazioni nel tessuto del centrosinistra. Ecco perché gli ultimi mesi della legislatura vedono una convergenza stretta fra Gentiloni e Mattarella: è la via obbligata per puntellare l’equilibrio generale e preparare una nuova legislatura che sarà difficile per tutti.

il manifesto 26.10.17
Le contraddizioni del voto di fiducia di Napolitano
di Massimo Villone

Solo una vittoria travolgente del Pd nel resto del paese potrebbe riequilibrare il disastro. E non sembra davvero che ce ne siano le condizioni. Non con un partito sfatto, e competitors agguerriti in campo. Sfugge altresì la razionalità della scelta del governo che concede al Pd le questioni di fiducia. Essendo evidente che l’unica ragione è nella fretta di Renzi di sciogliere appena possibile e correre al voto. Con l’obiettivo di cacciare quanto prima Gentiloni da Palazzo Chigi, meglio se un po’ ammaccato da vicende come quella di Bankitalia.
Non sembra quindi del tutto da condividere la considerazione di Napolitano sulla fiducia. Si esprime contro, ed è apprezzabile. Motiva dicendo che non è giusto caricare la responsabilità sul governo. Vero. Ci informa che il premier è stato sottoposto a forti pressioni. L’avevamo sospettato.
Tuttavia, Gentiloni poteva dire no. Palazzo Chigi val bene un diniego, ogni tanto.
Non condividiamo il richiamo di Napolitano al Mattarellum. In un contesto che si riteneva bipolare ha avuto un rendimento che molti considerano buono, ma lo avrebbe oggi, in un sistema che bipolare non è? E non è chiaro il rischio di favorire le spinte all’egoismo territoriale e alla separatezza, manifestate da ultimo con i referendum del lombardo-veneto? Non dimentichiamo che il Mattarellum ha accompagnato e sostenuto la crescita della Lega nel Nord.
E comunque il Rosatellum è peggiore – e non di poco – del Mattarellum. Forse potrebbe meritare persino un coraggioso voto contrario. Ma Napolitano dice che esprimerà nel voto finale la sua fiducia a Gentiloni. Quindi voterà sì, in specie per sostenere la continuità nell’azione per le riforme. Lo capiamo, perché di quella azione Napolitano è stato protagonista. Ma il dissenso è netto. Perché l’asse portante è stata frantumato dal popolo con il voto del 4 dicembre 2016. Se c’è una cosa in cui c’è bisogno di radicale discontinuità, quella è proprio l’azione riformatrice.
Già circolano sofisticate analisi per cui dopo il voto verrebbe la grande coalizione Renzi-Berlusconi, con un respiro di legislatura. Uno scenario possibile, ma certo non il solo. Anzitutto, c’è da dire che Berlusconi, se vincesse dopo aver unito il centrodestra, vorrebbe certo sfruttare la posizione. E se fosse in grado di raccattare una maggioranza con qualche cambio di casacca, qualche ravvedimento operoso e ritorno alla casa madre? Vedremo.
È intanto più utile considerare cosa accade a sinistra del Pd dopo il Rosatellum 2.0. La sinistra sparsa, se riuscirà a mettersi insieme e sfuggire alle sirene della soglia al 3%, sarà in qualche modo in una posizione di forza rispetto al Pd. Infatti, concorre solo sulla parte proporzionale: che ci sia o meno un accordo con il Pd nulla cambia. Invece, per il Pd avere un accordo con la sinistra sparsa può cambiare, e molto, perché può significare la vittoria o la sconfitta in un indeterminato numero di collegi.
Ne possono venire strategie diverse. Ma è anche l’occasione per la sinistra a sinistra di correre in piena autonomia, cercare una propria identità, competere fino in fondo, e spingere per un cambiamento vero nel Pd, che ci liberi dell’equivoco di un partito che si dice di sinistra e fa politiche di destra.
In fondo, per avere nuova vita a sinistra bisogna rottamare il Pd. Il Rosatellum 2.0 è un passo in questa direzione. Forse, dovremo un giorno esser grati a un governo clone dispensatore di fiducie ed a parlamentari di servile obbedienza. Sappiamo che la storia vive di paradossi.

il manifesto 26.10.17
Pisapia e «il passo a lato», fra smentite e assemblee
Sicilia&alleanze. L'ex sindaco nel week end sarà a Roma alla convention di Emma Bonino. I suoi confermano l'assemblea dell'11 novembre
di Daniela Preziosi

ROMA Il primo a spifferarlo era stato la scorsa settimana l’amico e consigliere Bruno Tabacci: «Pisapia secondo me è molto vicino a mollare, è molto disamorato». Dal quartier generale dell’ex sindaco di Milano era subito arrivata la smentita:«L’impegno di Campo progressista, e quindi anche di Pisapia, prosegue».
Ieri un articolo sulla Stampa però è di nuovo tornato sull’argomento. Alla riunione di lunedì scorso a Milano, davanti a amministratori e quadri della rete di Campo progressista, Pisapia ha gelato tutti sottolineando la ferma intenzione di non candidarsi alle prossime politiche: «Il mio ruolo è e sarà quello di garante».
In teoria non è una novità. Già a metà luglio, ai tempi della mai nata formazione Insieme, con Mdp, lo stesso concetto («Non mi candido») aveva indispettito e insospettito Bersani e D’Alema. E insinuato in tutti, amici e nemici, il dubbio che la vocazione alla leadership di quello che in quel momento veniva gratuitamente omaggiato come il «nuovo Prodi» della sinistra non fosse poi così solida e affidabile. Un dubbio fin lì scacciato come mosca fastidiosa dai suoi compagni di strada.
Stavolta non c’è nessun bisogno di smentite ufficiali. Pisapia ha sempre detto che non ambiva a una poltrona, alla lettera la posizione resta la stessa. Ma a questo giro, dopo la rottura con Mdp, la frase suona come un vero preannuncio di disimpegno, in attesa dei risultati delle regionali di Sicilia. Dove con ogni probabilità sarà certificato che le divisioni fra Pd e sinistre, a prescindere dai torti e dalle ragioni, consegneranno l’isola al centrodestra (invece unito). Lo stesso schema ripetuto su scala nazionale sarebbe l’oggettivo fallimento delle ambizioni dell’ex sindaco. Quindi, probabilmente, segnerebbe la sua ritirata dalla scena politica.
La prova del nove potrebbe anche arrivare prima. Pisapia ha confermato la sua presenza domenica a Roma, alla convention di Emma Bonino e dei Radicali italiani sugli Stati uniti d’Europa. In quell’occasione, descritta da alcuni come varo di un listone progressista nazionale, potrebbe lasciare trasparire le sue reali intenzioni. Sempreché le abbia già chiare nella sua testa.
«Campo progressista ha convocare un’assemblea nazionale per l’11 dicembre a Roma, preceduta da alcune assemblee regionali», taglia corto Massimiliano Smeriglio, vicepresidente della regione Lazio. La rete, dunque, va avanti in ogni caso. «Sarà l’occasione per mettere insieme un coagulo di forze plurali della sinistra diffusa con la diaspora socialista, gli ambientalisti e altre culture. Noi restiamo fermi su un punto indispensabile e difficile: non saremo una lista civetta del Pd, non ci interessano i processi di acquisto delle singole personalità. Ma neanche la sinistra che pensa che Renzi sia come Mussolini».

Il Fatto 26.10.17
Caso Weinstein: il polverone fa male alle donne
di Luisella Costamagna

Cara Asia Argento, ha visto che polverone? Dopo le sue rivelazioni su Harvey Weinstein, non passa giorno che qualcuno non denunci una nuova molestia, non prenda posizione sulla vicenda (la stilista Donna Karan prima dice che le vittime se la sono cercata, poi si scusa), Flavia Vento fa sapere che Weinstein (anzi Weistein come da suo tweet) non ci ha mai provato, perfino Fiorello racconta di minacce da parte del produttore (una lettera in cui gli scrive che, avendo rifiutato una parte, non lavorerà mai più negli States). Eccetera. Eppure, di fronte a vicende come questa, tutto ci vorrebbe fuorché il polverone. Se si perde la lucidità, è finita. Weinstein diventa genericamente “l’Orco”, una specie di personaggio da fiaba, e si finisce col perdere di vista ciò di cui stiamo parlando.
Per un reportage ho passato un periodo in un centro antiviolenza (sì, quei luoghi a cui tagliano costantemente i fondi), a contatto con donne che cercavano con fatica di ricominciare dopo anni di botte e umiliazioni, e ho raccontato in un libro la storia di una donna (ora un’amica) che da vittima di violenza è diventata operatrice in quegli eroici centri. Beh, ciò che mi ha colpito (oltre naturalmente alle cicatrici, fisiche e morali, che ho visto) è che la maggiore difficoltà delle donne abusate è proprio trovare chiarezza. Rendersi davvero conto della cosa terribile che stanno subendo e decidere di conseguenza. Quanto prima.
Cara Asia, la violenza sulle donne in Italia, in quest’Italia che lei ha detto di voler abbandonare per le critiche ricevute, è un fenomeno dilagante, si tratti di molestie, di vera e propria violenza sessuale o di femminicidio. A fronte di ciò, le denunce continuano a essere pochissime (nel caso delle molestie sul luogo di lavoro, ci dice l’Istat, addirittura un misero 1%). È su questo che dobbiamo interrogarci, senza farci distrarre dalle provocazioni, dai leoni (o avvoltoi) da tastiera, dalle lacrime di coccodrillo e da tutti coloro che hanno interesse a che una questione maledettamente seria, che necessita di visione lucida, venga sepolta dal polverone di cui sopra. Perché altrimenti dimenticheremo di parlare del fatto che, se non si prende coscienza e non si denuncia, è per paura. Paura di non essere credute, paura delle ritorsioni, paura dell’incertezza della pena. Vedere Weinstein in un’aula di tribunale, giungere a una condanna esemplare, sarebbe la più potente delle immagini, medicina, deterrente, pungolo, spot; ma sappiamo che difficilmente succederà, perché i troppi anni trascorsi rendono improbabile un’eventuale inchiesta. E se lui la farà franca – magari riemergendo un giorno a dire davanti alle telecamere che è molto pentito per i suoi errori – la paura delle donne, soprattutto delle donne comuni per cui tutto è ancora più difficile, crescerà.
Una paura che cresce anche di fronte al suo lungo silenzio e a quello delle altre star di Hollywood: “Come posso io trovare il coraggio, se non lo hanno trovato loro?”. Per questo – perché l’esempio e la parola altrui sono tutto –, se un domani dovesse imbattersi in un’amica, una conoscente, una fan che si trova in una situazione analoga alla sua e ha bisogno di consiglio, le dica di denunciare, e di farlo subito. Dopo è sempre tardi.
Un cordiale saluto.

Corriere 26.10.17
Dopo Weinstein
Il consenso e la libertà delle donne
di Barbara Stefanelli

L a cronologia del «caso HW» sul sito del Los Angeles Times si apre con la deposizione di una ventiduenne italiana: il produttore hollywoodiano viene accusato di un’aggressione sessuale avvenuta al Tribeca Film Center. Siamo a New York, marzo 2015: scopriremo dopo che lei è Ambra Battilana Gutierrez. In quello stesso anno, in ottobre, arriva l’accusa di Ashley Judd contro l’innominato «boss di Hollywood, il più potente». Un anno dopo — ottobre 2016 — un’altra attrice americana, Rose McGowan, risponde a una campagna social legata all’hashtag #WhyWomenDontReport (perché le donne non denunciano) e racconta di un grande imprenditore cinematografico «stupratore»: di nuovo niente nomi. Un altro anno e siamo all’ottobre 2017: il 5 il New York Times pubblica l’inchiesta che ripercorre due decenni di abusi attribuiti a Harry Weinstein, elenca vittime famosissime, cita una serie di accordi legali di copertura. Ancora cinque giorni ed esce il New Yorker con il lavoro che Ronan Farrow ha prima inutilmente proposto alla rete Nbc con la quale collabora(va). La lista delle donne molestate si allunga, tra loro ci sono Asia Argento e una seconda attrice italiana la cui identità rimane coperta: sappiamo che a spingerla a parlare sarebbe stata la figlia adolescente.
Una sola settimana e la diga è rotta. Oggi Weinstein il grande è sotto inchiesta in più Paesi, è stato cacciato dalla sua società e dalla Academy degli Oscar, privato della Legione d’Onore francese, ha anche annunciato di essersi affidato a una terapia anti dipendenza.
L e denunce contro di lui intanto si moltiplicano, quasi non si contano più. E si spostano verso altri produttori e registi, verso altri Paesi, altri settori. A Le Monde Juliette Binoche spiega di non aver avuto problemi con Weinstein, ma di essere stata aggredita sessualmente da un maestro a 7 anni, da un regista a 18 e un produttore a 21. Si riapre anche il file Polanski: «Avevo dieci anni», racconta Marianne Barnard, ora pittrice e fotografa. La Condé Nast fa circolare un’email in cui invita le testate del gruppo a «distruggere e sostituire» i servizi firmati da uno dei fotografi di moda più glamour e adulati: Terry Richardson, sul quale da tempo si incrociano le voci per comportamenti abusivi con le modelle. Laurene Powell, vedova di Steve Jobs e neo proprietaria di The Atlantic , sospende il lancio della rivista Idea dopo aver saputo che il direttore incaricato Leon Wieseltier per anni ha molestato alcune colleghe (reo confesso, licenziato). Gli hashtag che chiamano a rompere il silenzio — #metoo, #balancetonporc, #quellavoltache — portano il fiume dei racconti nei palazzi dell’Unione Europea: i fascicoli anonimi per fatti avvenuti dentro le istituzioni sono una montagna. La svedese Asa Regnér rievoca un episodio di inizio carriera: un leader politico più anziano e molto noto la invita per un drink, dicendosi «interessato alle sue idee». Nel buio del locale la spinge e palpeggia. E lei si chiede: come ho fatto a pensare che volesse ascoltarmi, ma quanto sono stupida? Rivela l’episodio solo adesso: «Mi sono data coraggio, visto quello che sta succedendo».
E questo è il punto. Perché sta succedendo adesso? E soprattutto: dopo l’autunno 2017, niente sarà più come prima o la marea delle voci si ritirerà lentamente?
Le riflessioni più pessimiste ragionano su quanto è avvenuto in un passato non lontano. Che cosa è rimasto dell’affaire Clinton-Lewinsky, per esempio? Chi ha pagato sono state una stagista accusata di essere un’arrampicatrice un po’ oca, salvo aver custodito lo scalpo della lavanderia, e una moglie tradita, che si è trascinata dietro l’ombra del collaborazionismo come una coda nera. Quanto (poco) ha inciso lo scoop del Washington Post sulle frasi del candidato Trump, che spiegava come gli uomini di potere possano afferrare le donne che desiderano? E che cosa dimostra la versione nostrana del grande scandalo globale con Asia Argento divenuta il principale oggetto del dibattito, in un clima da stadio dove curve opposte l’hanno demolita o difesa spingendo il mogul violentatore nelle retrovie dei ragionamenti nazionali?
La vicenda italiana ha avuto l’unico merito di provare quanto le resistenze sessiste siano radicate, quanto sia stata e sia potente la forza di fondo che vuole torcere l’attenzione dagli uomini, che hanno sfruttato in modo illecito una condizione consapevole di supremazia, verso il comportamento non eroico di una giovane donna, che «non è stata capace» di dire no e che poi «ha taciuto» lungamente. Il segno dei tempi, tuttavia, non sono queste resistenze fracassone al cambiamento. Il segno profondo dei tempi è la maggior comprensione di che cosa siano un abuso di potere e una molestia sessuale. Per questo — anche se non sarà una rivoluzione a lavaggio rapido, piuttosto un auspicio e soprattutto un impegno — niente potrà essere come prima. Attraverso la lente d’ingrandimento sensazionale del «caso HW», da una parte le donne hanno visto spaccarsi in mille pezzi il guscio della vergogna, quello in cui si sono rinchiuse e continuano a rinchiudersi per paura di restare poi sole, senza sostegno sociale o familiare, magari attribuendo a se stesse la colpa per quelle situazioni sbagliate e castigandosi al silenzio per espiare lo spavento (viene definito processo di «rivittimizzazione»). Dall’altra, gli uomini hanno potuto vedere fino a che punto l’impunità del «fattore P» come patriarcato — la formula è di Suzanne Moore del Guardian — continui a fare da schermo a quelli che sono reati contro la persona e vengono invece archiviati con disinvoltura tra le cose della vita. Le voci maschili che — pur in ordine sparso, in ritardo, con sgomento — hanno rotto l’omertà di genere stanno tracciando una linea che andrebbe riconosciuta e preservata quando le grida si affievoliranno.
La confluenza di questi due spostamenti — delle donne dalla vergogna, degli uomini dall’impunità — offre un’occasione, uno spazio affrancato dall’indignazione per affrontare insieme, con audacia, il nodo del consenso. Proviamo a far risuonare i nostri no, a pronunciarli senza paura; impariamo ad accoglierli, a non leggervi altri significati. Scegliamo la sfida di relazioni nuove, libere, simmetriche.
Ripartiamo da queste due parole che sono semplici e radicali: consenso, rispetto.

il manifesto 26.10.17
Austria, l’ultradestra quasi al governo
Esecutivo entro Natale. Il vincitore delle elezioni Kurz verso l’accordo con la Fpoe che punta agli Interni. E a Vienna scatta la protesta: «Nessun potere a neonazisti e Burschenschaften»
Sebastian Kurz (a sinistra) stringe la mano a Heinz-Christian Strache della Fpoe
di Angela Mayr

VIENNA  Ieri sono iniziati i negoziati ufficiali tra il vincitore delle elezioni Sebastian Kurz (Oevp) e il leader dell’ultradestra Heinz Cristian Strache (Fpoe) per la formazione di un nuovo governo. Insieme Popolari e Fpoe dispongono di 113 seggi su 183, mai dal ’45 in poi la destra è stata così forte in Austria, e così a destra. Dopo tre ore si è concluso il primo incontro, con dichiarazioni di entusiasmo reciproco. Del resto ampie sono le convergenze tra il ministro degli esteri uscente e la Fpoe su migranti, riduzione delle tasse, reddito di cittadinanza, controllo dei confini. I negoziati per un programma comune di governo, che verrà elaborato fin nei dettagli, non si concluderanno prima di natale.
Il presidente della repubblica Alexander van der Bellen ha già chiarito che approverà solo un governo di pronunciata fede pro europea, un punto che potrebbe presentare delle difficoltà, e una lista di ministri all’altezza dei loro compiti. In caso di fallimento dei negoziati i socialdemocratici (Spoe) sono disponibili a sostenere dall’esterno un governo di minoranza di Kurz solo.
IN CONTEMPORANEA con i primi negoziati, a Vienna sono iniziate le prime proteste di piazza. «Nessun potere di governo per ambienti di estrema destra e neonazisti», lo striscione dell’organizzazione antirazzista Sos-Mitmensch (sos-prossimo) ha accolto H.C. Strache in procinto di incontrare Kurz. Da 10 giorni la ong austriaca gira la città con una mostra itinerante che evidenzia l’intreccio di rapporti tra la Fpoe e gli ambienti neonazisti, la faccia impresentabile della Fpoe che in campagna elettorale è rimasta nascosta. Allo scopo è stato rinviato a primavera prossima l’incontro internazionale delle destre estreme di Linz previsto per questo settembre. L’anno scorso la Fpoe vi partecipò insieme a gruppi neonazisti, e fece clamore. Al centro della denuncia di Sos-Mitmensch, il giornale di area Aula che ospita articoli di stampo neonazista e insieme pubblicità della Fpoe in reciproca simbiosi. Un autore di Aula, Hannes Amesbauer, è tra i nuovi ingressi in parlamento, ingressi che sono tutti sconcertanti con una massiccia presenza di membri delle Burschenschaften, le corporazioni studentesche combattenti che si basano sull’ideologia della Volksgemeinschaft, comunità di popolo, concetto etnico razzista basato sull’origine. 21 dei 51 deputati della Fpoe fanno parte di quelle organizzazioni, da H.C. Strache a Norbert Hofer in giù. Non era mai accaduto. Nel 2000, al primo esperimento di governo nero-azzurro di corporati ne erano solo 8. Joerg Haider aveva eliminato il concetto di comunità di popolo dal programma del partito, nel nuovo programma del 2011 è stato reintrodotto da H.C. Strache e Norbert Hofer. Malgrado le apparenze più moderate, le dichiarazioni contro l’antisemitismo, in realtà la Fpoe è andata più a destra. E sta per andare al governo.
Sos Mitmensch ha annunciato mobilitazioni di piazza e convocato la stampa per ricordare la vera natura della Fpoe. Sarà affiancata da Bernhard Weidinger, esperto di estremismo di destra del Centro di documentazione della resistenza austriaca (Doew), e da Hans Henning Scharsach autore di La presa di potere silenziosa. Hofer, Strache e le Burschenschaften (KM edizioni 2017).
IL COMITATO MAUTHAUSEN ha raccolto un dossier di 60 recenti «casi singoli» di razzismo di esponenti di vario grado della Fpoe: dalle ingiurie contro exdeportati del campo a quelle dirette contro «Mister Carinzia» austriaco di origine iraniano. Rudolf Gebhard, un sopravvissuto al campo di Theresienstadt, ha girato un video dove spiega la natura delle Burschenschaften che nelle proprie liste d’onore degli iscritti conserva ancora i nomi di criminali di guerra.
Ma perché la questione Fpoe e ambienti neonazisti è rimasta fuori dalla campagna elettorale? «Forse perché ormai c’è assuefazione per queste cose che da anni si ripetono – risponde Weidinger del Doew – E poi c’è troppo delega da parte delle persone alla magistratura che persegue il reato di riorganizzazione e propaganda nazista, ma non fa i conti con l’estrema destra». Per Hanns Henning Scharsach, «il maggiore successo della Fpoe è stato di presentare la problematizzazione del suo rapporto con il neonazismo come una questione del passato, e non del presente».
Forte è la preoccupazione di un possibile ministro degli interni della Fpoe che ha già rivendicato quel posto. Riserve su una scelta simile ha manifestato anche il presidente della repubblica Alexander van der Bellen, che dovrà approvare la lista dei ministri.

il manifesto 26.10.17
Xi Jinping leader di un partito tornato forte
Xi Factor. L'assenza di un successore chiaro e limpido all'interno del comitato permanente, dato che tutti i membri attuali sono troppo in là con gli anni per poter ambire a prendere le redini di Xi nel 2022, rende l'attuale numero uno ancora forte al comando
di Simone Pieranni

Xi Jinping nella storia e un comitato permanente, i sette uomini più potenti della Cina, senza un successore immediato del numero uno. Il bilancio fattuale del diciannovesimo congresso del partito comunista cinese anziché chiuderle, apre a nuove speculazioni e riflessioni sul futuro del paese. Il leader Xi Jinping è arrivato a questo congresso forte della sua popolarità interna e internazionale e intenzionato a rimarcare la sua posizione.
Lo ha fatto però sottolineando l’importanza suprema del partito su tutto; partito che tra l’altro lo stesso Xi ha tirato fuori da una pericolosa situazione creatasi negli ultimi anni: un Pcc che alla popolazione cinese risultava distante e alieno a causa dei tanti scandali, dell’impunità di cui sembravano vantarsi molti funzionari, degli abusi di potere compiuti, dell’ottusità dimostrata nella gestione di alcune situazioni di natura sociale.
Non si può certo parlare di crisi di rappresentanza come siamo abituati in occidente in un paese che è governato da un partito unico, ma i sintomi di una crisi di legittimità e della perdita di fiducia popolare nei confronti di un partito che appariva sempre più sganciato dalla vita reale, cominciavano a essere troppo rischiosi per il «mantenimento della stabilità» e per garantire la realizzazione del «sogno cinese».
Xi Jinping con la campagna anti corruzione e una propaganda al passo con i tempi, unitamente alla spinta sulla «moderata prosperità» e la necessità di eliminare le sacche di povertà del paese, ha riportato il partito al centro della scena politica economica e sociale della Cina, rinvigorendolo, dandogli nuova linfa e dimostrando di poter essere ancora l’asse attorno al quale agganciare la «rinascita della nazione cinese».
    Con questo risultato non da poco Xi Jinping ha deciso di giocarsi le proprie carte, dimostrando di saper utilizzare il proprio potere senza abusarne, aumentandone anzi il peso «storico».
Ottenuto il riconoscimento epocale del proprio pensiero inserito nello statuto del partito comunista, come capitato solo a Mao Zedong e Deng Xiaoping, ha prima mediato sulla posizione di Wang Qishan il capo dell’anticorruzione, consentendone il suo ritiro dai livelli apicali.
Infine ha consentito la nascita di un comitato permanente che tiene conto delle diversità di vedute all’interno del partito, molto meno monolitico di quanto spesso venga rappresentato.
Non per questo ha mancato di fare valere il suo peso politico: l’assenza di un successore chiaro e limpido all’interno del comitato permanente, dato che tutti i membri attuali sono troppo in là con gli anni per poter ambire a prendere le redini di Xi nel 2022, rende l’attuale numero uno ancora forte al comando.
    Con un successore, come Hu Chunhua o Chen Min’er i due favoriti, dentro al comitato permanente Xi rischiava di diventare un’anatra zoppa.
In questo modo invece mantiene saldo il suo controllo, pur mediato, e può spingere sulla sua idea di «socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era» senza dover fare i conti con un suo potenziale successore a sgomitare.
Xi ha già dimostrato di saper forzare consuetudini e liturgie; in questo caso si è creata una situazione nuova che se può garantire cinque anni di dominio, potenzialmente non è avara di rischi data la storia del Pcc. Ora le speculazioni sono già sul tavolo: l’ipotesi più accreditata è che Xi possa abbandonare la presidenza della Repubblica cinese nel 2022 raggiunto il decimo anno, ma mantenere la carica di segretario del Partito oltre i dieci anni, nominando nel comitato permanente la «sesta generazione» solo nel 2022.
È un’ipotesi, ne arriveranno sicuramente altre nei prossimi anni. Quello che conta è lo stato di salute dell’attuale leadership e del partito. Il Pcc appare compatto intorno al suo leader, l’ingresso nel comitato di Wang Huning considerato un teorico, già consigliere dei precedenti numeri uno Jiang Zemin e Hu Jintao, nonché di Xi, dimostra dopo l’epoca dei tecnocrati la restituzione di importanza data all’ideologia e al controllo teorico del Partito e della società cinese. Wang – già soprannominato il Kissinger cinese dal Guardian – era noto per le sue pubblicazioni e i suoi studi sul «neo-autoritarismo».
Per il resto anche l’iscrizione nello statuto del Pcc della «nuova via della Seta» ci racconta che Cina sarà quella dei prossimi anni: un paese proiettato sulla scena internazionale, con una leadership salda e sicura di potersi muovere con il supporto di tutto il partito. Lo stesso Xi, del resto, nel suo discorso ha nominato la parola «partito» più di ogni altra. Entrato nella storia il suo pensiero, ora Xi Jinping può concentrarsi nel mantenere vivo il cuore politico del paese, di cui è capo indiscusso, proiettandolo nel futuro della vita cinese e del mondo globale.

Repubblica 26.10.17
Anche in Cina la crescita porta disuguaglianza: la svolta di Xi
di Angelo Aquaro

PECHINO DIMENTICATE la Cina di Mao Zedong che ci guarda dal suo ritrattone a pochi metri da qui. Per capire l’ultima rivoluzione che si consuma nella Grande Sala del Popolo bisogna guardare all’America dei “dimenticati” di Donald Trump, all’Inghilterra travolta da Brexit, ai populismi che infiammano l’Europa. Quando i Magnifici Sette salgono sul palco per la parata che ogni cinque anni svela gli uomini più potenti del Dragone è chiaro che si entra in una “nuova era”.
L’UOMO che prometteva di guidare il paese verso il “new normal”, Xi Jinping, ha segnato il più grande strappo dai tempi di Deng Xiaoping. Nel comitato permanente sfilano tra gli altri Wang Huning, 61 anni, il Kissinger cinese, Wang Yang, 62, il plenipotenziario della Nuova Via della Seta che dialoga con gli Usa, e Li Keqiang, 62, il capo dell’esecutivo, l’unico con Xi a non aver dovuto lasciare per il limite d’età non scritto di 68 anni. Ma gli uomini lì impalati come improbabili Men in Black sono tutti della generazione del capo. E perfino il più giovane, Zhao Leji, che prende il dipartimento anticorruzione, al prossimo cambio della guardia sarà 65enne. Non c’è un erede e la seconda potenza del mondo è destinata a essere governata per chissà quanto da Xi. Com’è possibile che un uomo solo abbia potuto concentrare così tanto potere? Le risposte sono due. La prima è raffigurata nella stretta di mano a fine congresso tra il provatissimo Jiang Zemin, 91 anni, quell’Hu Jintao che ne ha 74 e sembra coetaneo di Xi, dieci di meno, e sempre lui, il nuovo Mao. Ci si affida al dictator perché ne va della sopravvivenza di tutti: ciascun leader rinuncia a un pezzo di potere personale per preservare il potere collettivo del partito. La seconda è un po’ causa della prima ed è nascosta nella Costituzione appena modificata che esalta il ruolo del partito padrone, dalle forze armate al web. E introducendo concetti come «soft power», «democrazia consultiva» e «nuova governance sociale », cioè il Grande fratello reso possibile dallo sviluppo incrociato di tecnologia e dati, mette nero su bianco la necessità di non pestare più sul pedale della crescita – dove comunque «il governo deve giocare un ruolo migliore» – senza affondarlo prima nella frizione del riequilibrio. Con tanto di licenza poetica: «Dobbiamo capire che acque chiare e monti lussureggianti sono valori inestimabili».
Il concetto-chiave sepolto nei 203 minuti di relazione congressuale si rifà a un principio caro a ogni bravo marxista, e Xi Jinping lo è: il cambiamento si persegue individuando e risolvendo la contraddizione principale di una società. È il “pensiero” che gli regala l’aureola di teorico del marxismo-leninismo elevandolo, nella Carta, accanto a Mao: il «socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era». Il piccolo grande particolare è che «la principale contraddizione è cambiata»: e per un cinese è come vedersi correggere il credo. L’ultima, 1981, era la contraddizione tra «la crescita dei bisogni materiali e culturali» e «un sistema produttivo arretrato»: da qui l’apertura al mercato di Deng e il Pil a due cifre. Oggi, dice Xi, la contraddizione è tra «uno sviluppo inadeguato e diseguale» e «i bisogni crescenti per una vita migliore ». Se non ci trovassimo di fronte a un regime che tra altre vergogne nega a
New York Times, Economist, Financial Times, Bbc e Guardian l’accesso a questa conferenza stampa – pure rigorosamente senza domande – sembrerebbe di ascoltare un leader di Occupy Wall Street. Ma in fondo è a questo che Xi e i signorotti di partito non vorrebbero mai arrivare: alla protesta che può sfociare da un momento all’altro. È lo sviluppo ormai «diseguale» a fare paura: come nella nostra Europa da recessione infinita. Perché nel paese dei miliardari stile Jack Ma, Mr. Alibaba, l’1% della popolazione possiede un terzo delle ricchezze. Perché a terremotare il sogno di «un moderno paese socialista, prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato, armonioso e bello» è soprattutto l’«inadeguatezza » di questo stesso sviluppo.
Nella Cina che scopriva la crescita Tiananmen scoppiò quando il gruppo sociale più vivace, quello degli “intellettuali” che comprendeva insegnanti, studenti e impiegati, trovò il coraggio di protestare perché il salario non bastava più. Ma nell’Impero che entro tre anni riscatterà gli ultimi 30 milioni di persone sotto la soglia di povertà la nuova Tiananmen rischia di scoppiare mica perché non c’è il pane: perché manca il companatico. «È la seconda generazione degli urbanizzati, la gente che non ne può più dell’inquinamento, di metropoli dove è impossibile vivere», spiega a Repubblica Jonathan Fenby, l’autore di Will China Dominate the 21st Century?. «Ecco i problemi che Xi deve affrontare nei prossimi 5 anni: sacrificando il mantra della crescita sopra il 6%». Dimenticate Mao Zedong: e come ci somiglia, e come ci riguarda se frena la crescita, la “nuova era” di Xi Jinping.

La Stampa 26.10.17
Agnes Heller
“La Rivoluzione russa fu un colpo di stato orchestrato da Lenin”
“Ma il peccato originale che genera bolscevismo fascismo e nazismo è la Prima guerra mondiale”
intervista di Francesca Paci

Agnes Heller, una delle maggiori filosofe del Novecento, arriva all’appuntamento al ghetto di Roma con le scarpe no logo appena acquistate, «perché a Budapest si trovano solo quelle fatte in Cina e tra gli ungheresi il 35 non ha molto mercato». Minuta, vestita anonimamente, spartana fino a preferire la panchina al dehors del bar, l’ottantottenne erede di Hannah Arendt raccoglie il testimone del dialogo sulla rivoluzione d’ottobre con la verve con cui teneva testa al suo maestro, György Lukács. Nel Palazzo della Cultura l’attende la festa della letteratura ebraica dove si parla dei suoi libri sulla politica e l’Europa editi da Castelvecchi. Il pubblico le passa accanto e non la nota.
Racconti la rivoluzione del ’17.
«Fu un putsch. La rivoluzione del popolo durò da febbraio a ottobre, poi subentrò il partito. I leninisti erano una minoranza nell’assemblea costituente e Lenin la dissolse. Rosa Luxemburg gli scrisse d’indire nuove elezioni ma Lenin tirò dritto. Se per rivoluzione s’intende la presa del potere da parte del popolo quella di ottobre non lo fu, se invece si allude al cambio di regime è diverso, il regime cambiò. Il vero turning point del XX secolo però, è la I guerra mondiale, il peccato originale che genera bolscevismo, fascismo e nazismo. Quella guerra preparò il terreno ai totalitarismi e agli altri orrori, compresa la Shoah che avvenne solo in Europa, in tutta l’Europa».
Cosa resta dopo cento anni?
«Allora pochi capirono il peso della I guerra mondiale, che oggi è chiaro a tutti. Che lezione ha tratto l’Europa? Nessuna. Sennò non avremmo avuto il secolo breve, una serie di errori sin dalla pace ingiusta del ’19 che umiliò la Germania. È vero che poi l’Europa ha rifiutato la guerra, i totalitarismi, ha archiviato la massima causa di conflitti, i poteri opposti di Francia e Germania. Le nazioni europee, diversamente dalla Russia, hanno rinunciato alle loro ambizioni territoriali. Ma non è molto».
È sopravvissuta ad Auschwitz, ha visto i gulag: abbiamo esorcizzato tutto quell’odio?
«In parte sì. L’Europa è meno divisa. Fino a 50 anni fa destra e sinistra avevano narrative opposte, fascisti e comunisti s’imputavano a vicenda il male del 900. Oggi si ammettono anche i propri errori».
Nato per emancipare l’uomo, il comunismo ha finito per uccidere la speranza?
«Marx vide il comunismo come emancipazione, i soviet furono solo totalitarismo. All’inizio diversi intellettuali aderirono. Molti però, come Sweig, si ricredettero presto, altri finirono nei gulag. Il comunismo è stato ucciso dalla speranza nella redenzione, l’idea che la politica elevasse l’uomo. Dopo la politica toccò alla scienza. Oggi è in crisi l’illusione del progresso universale, se ci salveremo sarà con le relazioni sociali».
Caduto il muro, le due Europe si sono ricongiunte su questo?
«Dopo il 1945 sono nate in Europa alcune democrazie liberali, ma Grecia, Portogallo e Spagna sono rimaste ancora a lungo delle dittature. Nell’89, per ultimi, si sono liberati i Paesi dell’est e non hanno avuto il tempo d’imparare. Gli ungheresi, che non erano abituati ad agire da cittadini ma da soggetti per cui tutto era deciso dall’alto, mantengono il bisogno del leader».
Il comunismo frana a Budapest nel ’56, a Praga nel ’68, nell’89?
«Fallì prima di partire perché l’impianto era sbagliato. L’esperimento produsse Stalin. Tutti ne erano consapevoli. Ma la II guerra mondiale rilanciò i sovietici, i soli capaci di fermare Hitler. Avevo 12 anni alla battaglia di Stalingrado, Parigi era caduta. Fu lì che mio padre, anticomunista, si schierò con loro, quelli che avrebbero liberato Auschwitz. Si sapeva di Bucharin, Trotsky, ma l’antinazismo prevalse. Nel ’56 a Budapest eravamo già oltre, lo avevo capito nel ’53 quando era stato riabilitato Pálffy, un militare condannato come spia Usa. Dopo il caso Pálffy dissi a Lukács «compagno, è tutto finto».
L’Ungheria di Orban è una conseguenza di quel fallimento?
«Orban somiglia a Erdogan e copia Putin. Il j’accuse anti Soros è un’idea russa. Gli ungheresi odiano essere associati ai russi, il 70% vuole l’Europa anche se sostiene questo governo. Orban è un leader senza ideologia: illiberale, non totalitario».
L’Europa è una risposta sufficiente per superare il 900?
«L’Europa non ha preso sul serio il suo compito, l’idea del salto nel futuro è falsa: non bisogna saltare ma affrontare il conflitto tra centro e periferia smettendola di pensarsi felici. L’allargamento è stato positivo, ma non si sono capiti i problemi dell’est, le ferite del passato. Non basta difendere le democrazie liberali: l’occidente deve considerare anche quelle illiberali, la sua contraddizione».
L’occidente ha capito cosa è stato il comunismo applicato?
«I paesi con forti partiti comunisti, l’Italia e la Francia, si sono tenuti a distanza, pur essendo pagati da Mosca. Il problema con il comunismo, anche con quello anti-totalitario alla Luxemburg, è la proprietà privata: quando inizi ad abolirla finisci al totalitarismo, perché possedere è un bisogno umano».
Quali altri sono i bisogni umani nel mondo post-ideologico?
«Iniziai questa querelle con Marcuse, quando lui parlò di bisogni buoni e cattivi. Chi definisce i bisogni veri o falsi? Tutti i bisogni vanno riconosciuti come degni anche se non devono essere per forza soddisfatti».

il manifesto 26.10.17
Lutero, un’eredità nel sociale
Lucas Cranach, «Martin Lutero», 1529
di Alberto Corsani

Nel 1917, a 400 anni dalle 95 Tesi di Lutero, varie chiese sorte dalla Riforma si trovarono di fronte a un problema: sentirsi unite da una celebrazione che era motivo di coesione identitaria o prendere atto del fatto che i loro Paesi erano nel bel mezzo di una guerra mondiale? Accettare l’eredità del monaco agostiniano, che fece da cerniera tra il tardo Medioevo e la modernità, o adeguarsi alla politica drammatica di guerra che poneva come prima esigenza quella di combattere il nemico? Per la prima volta, forse, le chiese luterane degli Stati Uniti si sentirono pienamente americane, nonostante la filiazione diretta dalle «chiese sorelle» di Germania. E che dire dei protestanti che in Europa videro i propri territori occupati dalla Germania nazista? Puoi condividere la stessa fede in Dio con coloro che stai combattendo?
FARE I CONTI, oggi, con cinque secoli di Riforma protestante comprende anche questa presa d’atto: per quanto il messaggio della fede in Gesù Cristo sia universale e rivolto all’umanità intera, la famiglia protestante nel mondo, rispetto alla chiesa cattolica romana si vede frazionata, anche se chiunque, a qualunque latitudine può sentirsi partecipe di una comunità cristiana; certo, riunirsi nell’alveo di una chiesa significa pur sempre fare i conti con la dimensione terrena dell’esistenza, dimensione ben lontana dall’essere perfetta; ma d’altra parte nessuna chiesa, nella visione protestante, può pensare di essere l’unica. E infatti quelle nate dalla Riforma hanno anche una identità nazionale, a partire dai valdesi, diffusi come movimento già tre secoli prima di Lutero.
Il concilio di Trento nella chiesa di santa Maria Maggiore
La consapevolezza dei propri limiti caratterizza l’essere protestante: una cognizione di sé che trova il suo naturale sbocco nel radicamento sociale. Se questo per i valdesi si tradusse nella difesa strenua della propria terra di montagna, per tutti tale atteggiamento significò e significa tuttora inserirsi nella società e spendere nella comunità civile la personale risposta alla chiamata (vocazione) ricevuta da parte di Dio, attuando opere mirabili, ma anche nefandezze come il regime sudafricano dell’apartheid, che bestemmiò la dottrina calvinista.
Tuttavia alle infezioni si possono opporre degli anticorpi: è quanto avvenne quando l’Alleanza riformata mondiale (oggi Comunione mondiale di Chiese riformate – ramo calvinista della Riforma) sospese negli anni ottanta due chiese sudafricane di origine olandese, per il sostegno dato al regime razzista; persasene una per strada, l’altra è stata riammessa avendo condannato le proprie posizioni.
Ognuno di noi – a partire dalla definizione di Lutero – è simul iustus et peccator, a un tempo reso giusto da Dio e però pur sempre umano e incline al peccato.
INTORNO A QUESTA dialettica tra universalità e radicamento si sono sviluppate anche le iniziative del 500/mo anniversario, cominciate invero il 31 ottobre 2016 nella cattedrale luterana di Lund in Svezia, con la partecipazione di papa Bergoglio a significare un’auspicata nuova stagione di rapporti fra cattolicesimo e chiese nate dalla Riforma. La sua presenza presso la «famiglia luterana mondiale», pur ponendo problemi a qualche oppositore in casa cattolica, che vedono la Chiesa di Roma «protestantizzarsi», ha fatto capire come vi siano le condizioni per avviare una lettura il più possibile condivisa del passato.
UNO SGUARDO NUOVO per una comprensione nuova, come testimoniato dal bel convegno organizzato nel novembre scorso dalla Conferenza episcopale e dalle chiese evangeliche, proprio nella Trento che fu sede del Concilio, da parte di chiese che hanno un problema in comune: parrocchie cattoliche e chiese del protestantesimo storico si vanno svuotando, sotto l’influsso incrociato di secolarizzazione e progresso scientifico.
LA NATURALE TENDENZA protestante alla coscienza critica (per secoli rubricata alla voce «individualismo protestante») finisce per esporre le chiese della Riforma a un’autocritica serrata, non avvistata per ora all’orizzonte di altre formazioni neo-protestanti (evangelical) che vedono aumentare i fedeli e le presenze ai servizi liturgici, sia in Asia e Africa sia in paesi come il nostro, che accolgono (quando lo fanno) immigrati evangelici di provenienza terzomondiale.
Vi sono anche altri ambiti in cui le chiese nate dalla Riforma si affacciano e dialogano con la Chiesa cattolica (e in parte anche con il mondo ortodosso). Bene avviati ormai da decenni gli studi teologici comuni con le Università cattoliche e le traduzioni e studi filologici sulla Bibbia, sono sotto gli occhi di tutti le sinergie nei settori di accoglienza e assistenza, come testimoniato dai «corridoi umanitari» per richiedenti asilo, avviati nel marzo 2016 dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia con la Comunità di S. Egidio e la Tavola valdese, attraverso un protocollo siglato con i ministeri dell’Interno e degli Esteri, modello ripreso nel corso dell’estate dai protestanti francesi.
LE NOTE DOLENTI si situano a un livello più ecclesiologico che teologico: la strutturazione gerarchica della Chiesa cattolica, nonostante l’opera pluridecennale di alcuni ambiti di avanguardia (per esempio nel campo dei matrimoni interconfessionali), le rende difficile pensare alle altre chiese come sullo stesso piano rispetto a lei. E poi è il piano etico quello che fa più parlare di sé.
Il carattere più normativo che dialogante della Chiesa di Roma è respinto in quanto «impositivo» da parte della cultura laica: procreazione assistita, fine-vita, eutanasia e suicidio assistito, etica sessuale, a fronte di posizioni abbastanza rigide da parte cattolica, fanno registrare una tendenza delle chiese protestanti a puntare molto sull’autonomia e sulla coscienza dell’individuo, in linea con la consuetudine del libero accesso al fondamento della vita cristiana, cioè le Scritture bibliche, sede della rivelazione di Dio all’umanità. Capita però che il mondo non-cattolico in Italia interpreti questa accentuazione di libertà dell’individuo spingendolo «oltre».
IL CREDENTE PROTESTANTE è infatti sì libero, ma «libero per servire», cioè per servire, amandolo, il proprio prossimo (Epistola ai Galati 5, 13): e questo avviene con la cura dei propri simili, all’interno della società e non ai margini di essa; inoltre, è nella società e nella politica che si spende l’esistenza del o della credente protestante, alle prese con la propria coscienza e consapevole di non rappresentare un’intera chiesa.
Alla base di questo atteggiamento, però, è la convinzione che questa libertà non è frutto di nostre conquiste, ma ci è stata data. Più che libero o libera, il (la) protestante sa di essere stato «reso libero», e di questo è grato o grata a Dio. Essere stati resi liberi significa sapere che di questa autonomia un giorno saremo chiamati a rispondere a chi l’ha donata gratuitamente. Ogni risultato è provvisorio, come lo è questo anno di celebrazioni, da intendersi come nuova, ulteriore ripartenza.

il manifesto 26.10.17
Deportazioni con il trucco
Israele. Il premier Netanyahu ha trovato il modo per aggirare la sentenza della Corte Suprema che vieta le espulsioni degli africani richiedenti asilo senza il consenso dei Paesi di destinazione. La stampa scrive che ha convinto Ruanda e Uganda ad accoglierli in cambio di aiuti economici
di Michele Giorgio

GERUSALEMME «Israele agli israeliani, la città ai suoi abitanti». Sheffi Paz, leader del “Fronte di liberazione del sud di Tel Aviv” dalla presenza degli africani richiedendi asilo, ad ogni manifestazione di protesta urla questo slogan dentro il suo megafono. Una ventina di anni fa Paz era una pacifista, ora invece ripete che Israele «deve liberarsi dagli infiltrati, deve liberarsi da un pericolo che mette a rischio la sua esistenza e il suo carattere ebraico». Le sue parole hanno istigato migliaia di israeliani – quasi sempre a basso reddito, disoccupati o poveri – a scagliarsi contro eritrei e i sudanesi che fino a qualche tempo fa popolavano Neve Shaanan, Tikva e Shapira, i quartieri più miseri della città costiera israeliana. Oggi gli africani si vedono poco in giro, si nascondono. Temono le manifestazioni di rabbia organizzate da Paz e dalla sua giovane compagna di lotte, May Golan, una che davanti alle telecamere non esita a definirsi «razzista».
D’altronde un paio di mesi fa è stato lo stesso premier Netanyahu a legittimare la rabbia degli israeliani poveri contro i “mistanenim“, gli “infiltrati”, come il governo e la destra chiamano i migranti e i richiedenti asilo. «Molti di loro non sono rifugiati, è gente che cerca soltanto lavoro. Il governo restituirà i quartieri ai suoi residenti israeliani», promise il primo ministro durante un tour a sud di Tel Aviv con i ministri della pubblica sicurezza Gilad Erdan e della cultura Miri Regev. Un siluro lanciato contro la giudice della Corte Suprema, Miriam Naor, che si era pronunciata contro la detenzione oltre i 12 mesi degli africani clandestini e contro la loro espulsione con la forza verso i Paesi africani che si erano detti disposti ad accoglierli, in cambio di aiuti economici israeliani. Netanyahu ora crede di aver trovato la strada per aggirare quella sentenza.
I media legati alla destra e al governo ieri davano alta la notizia della soluzione trovata da Netanyahu per rimpatriare subito i richiedenti asilo, evitando i tempi lunghi della Knesset necessari per modificare la legge approvata nel 2014 volta a ridurre drasticamente il numero dei clandestini, stimato in 50.000. Sulla base di quella legge agli africani giunti dall’Eritrea, il Sudan e la Somalia, sono offerti 3.500 dollari in contanti se accettano di lasciare Israele volontariamente. Coloro che rifiutano invece sono detenuti nel centro di Holot nel sud di Israele, una sorta di prigione “aperta”. Sino ad oggi in 15.000 hanno lasciato Israele. Il governo da parte sua ha provato a deportare subito gli stranieri che rifiutano di lasciare volontariamente il Paese. Ma la giudice Naor e altri membri della Corte Suprema però si sono opposti ribadendo che potranno partire solo per i Paesi che accettano i migranti che lasciano volontariamente Israele. I giudici inoltre hanno stabilito che gli africani a Holot non potranno essere detenuti per più di dodici mesi.
Così non potendola ottenere in patria, Netanyahu la soluzione l’ha trovata a New York, nei giorni di settembre spesi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il primo ministro, spiega l’agenzia di stampa dei coloni israeliani Arutz 7, ha rinegoziato con i leader africani (di Uganda e Ruanda) i termini dell’accordo di tre anni, in modo da consentire a Israele di deportare con la forza gli infiltrati. In sostanza, aggiunge da parte sua il giornale Yisrael HaYom, molto vicino a Netanyahu, in cambio di aiuti economici, i Paesi africani coinvolti si sono detti pronti ad accogliere quei migranti che rifiutano di lasciare volontariamente Israele. In questo modo è superato il divieto legale alle deportazioni con la forza per chi ora è a Holot. Nel frattempo Israele continua a costruire e a rendere impenetrabile la barriera eretta lungo il confine con l’Egitto che ha già ridotto drasticamente il numero degli “infiltrati” che attraversano il Sinai egiziano per raggiungere la porta sud di Israele.
«Non me ne vado, farò di tutto per rimanere qui. Se torno indietro mi ammazzano», ci dice al telefono Abdul, un giovane sudanese entrato clandestinamente in Israele tre anni fa e ora nascosto in un appartamento a Tel Aviv. «Non ho alcuna assistenza medica e per mangiare sono costretto a lavorare a nero. Ma so di avere diritto all’asilo politico, me lo spiegano proprio i miei amici israeliani», aggiunge. Una speranza e nulla più. Tra il 2009 e il 2015, riferisce il quotidiano Haaretz, i richiedenti africani hanno presentato alle autorità 3.165 domande di asilo. Sino ad oggi Israele ha accolto meno del 2% delle richieste. Per chi aveva creduto di trovare nello Stato ebraico un futuro migliore e una protezione dagli abusi subiti nel proprio Paese, il destino è un aereo diretto in Africa. Un viaggio di sola andata.

il manifesto 26.10.17
L’antropologa che studiava le forme della politica
Ritratti. Addio a Amalia Signorelli. L'allieva di De Martino che analizzò la cultura di massa e le migrazioni è morta a Roma all'età di 83 anni
di Fabio Dei

Negli ultimi anni, molti hanno conosciuto Amalia Signorelli soprattutto per le sue frequenti apparizioni televisive, come commentatrice in popolari talk show politici (Ballarò, Otto e mezzo e altri).
Si era costruita un’immagine efficace di opinionista colta e al di sopra delle parti, ma sempre pronta ad esercitare una critica razionale e inflessibile verso l’arroganza del potere. Aveva difeso la dignità delle donne contro Berlusconi, quella dei lavoratori contro Renzi, ma senza conceder nulla a quel tono di superiorità morale che rende spesso così indigeribili al grande pubblico gli intellettuali di sinistra. Lei si divertiva molto in queste esperienze di rapporto con il mondo dei media, tanto diverso da quello della ricerca e dell’insegnamento universitario.
RIUSCIVA, del resto, a portare in televisione senza banalizzarlo lo spirito critico che contraddistingue la sua disciplina di studi, l’antropologia culturale: la capacità di guardare cose che ci sono fin troppo familiari e scontate da lontano, e sotto una nuova luce. Proprio ciò che serve, spesso, per dare significato a un dibattito politico angusto e soffocante.
Nata nel 1934, Amalia Signorelli si era formata a Roma negli anni ’50 con Ernesto De Martino, le cui lezioni descrive come «una sorta di epifania che svelava possibilità allora ignote della vita della mente», e dalle quali deriva un’inclinazione, quasi una vocazione, che non è mai venuta meno nell’arco di un’esistenza. È la vocazione per l’antropologia e per la ricerca etnografica, che inizia con la tesi di laurea dedicata al paese lucano di San Cataldo, e si perfeziona con la partecipazione nel 1959 a una mitica spedizione etnografica: quella guidata dallo stesso De Martino nel Salento per documentare il complesso mitico-rituale del tarantismo, da cui scaturirà il classico per eccellenza dell’antropologia italiana, La terra del rimorso.
PER QUANTO FOLGORATA da De Martino, Signorelli non farà però parte negli anni successivi del suo entourage più stretto: un rapporto forte con questo autore riemerge semmai nell’ultima parte della sua carriera, quando cura la pubblicazione dei materiali della spedizione salentina (Etnografia del tarantismo pugliese, edizioni Argo, 2011) e dedica un intero volume alla ricostruzione del pensiero demartiniano (Ernesto De Martino: Teoria critica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro, 2015).
MA NEGLI ANNI ’60 le strade intraprese da Amalia Signorelli vanno in direzioni diverse: sia biograficamente (si sposa, va a vivere a Cosenza e ha tre figli, abbandonando quindi momentaneamente la frequentazione degli ambienti accademici), sia scientificamente. Si accosta, infatti, a interessi e tematiche per certi versi opposte a quelle di De Martino: non le culture popolari tradizionali e magiche del Sud, ma i processi di trasformazione sociale e le forme della politica e della cultura di massa nell’Italia contemporanea. Già nel 1958 era stata – giovanissima – tra i firmatari di un Memorandum (con Tentori e Seppilli, fra gli altri) che rivendicava il ruolo centrale dell’antropologia culturale per la comprensione del presente nella sua dimensione globale: invitando a occuparsi un po’ meno del folklore contadino e un po’ di più della decolonizzazione e dei conflitti sociali. Negli anni ’60 insegna fra l’altro a Roma, alla scuola per la formazione degli assistenti sociali (Cepas). Torna poi nell’università dall’inizio degli anni ’70: insegna prima ad Urbino, a Roma La Sapienza ma soprattutto – fino al pensionamento – alla Federico II di Napoli.
È IN QUESTO PERIODO che si colloca la sua produzione scientifica più matura. I temi di ricerca che segue più sistematicamente sono l’antropologia della città (pubblica fra l’altro Antropologia urbana, Guerini, 1996), quella delle migrazioni (Migrazioni e incontri etnografici, Sellerio, 2006), e l’analisi delle forme del potere e del clientelismo nel Mezzogiorno (Chi può e chi aspetta, Liguori, 1983).
VA ANCHE RICORDATO che Amalia Signorelli è stata la prima antropologa in Italia a occuparsi del tema della cultura di massa e dei modi in cui essa modifica la classica visione gramsciana del folklore come cultura delle classi subalterne. In fondo, la sua seconda carriera televisiva non è stata poi così casuale come lei stessa amava far credere.
Le metamorfosi mediali del potere e le trasformazioni antropologiche da esso indotte sono il filo rosso che per lei univa ricerca scientifica e divulgazione. Con la rara capacità, su entrambi i terreni, di parlare in modo chiaro e a tutti.

Il Fatto 26.10.17
Amalia, l’antropologa al servizio della Carta
Signorelli e l’impegno civile tra ironia e semplicità che ne avevano fatto una figura di riferimento del referendum
Romana verace – Nata nel 1934, si è occupata dei processi di modernizzazione e del cambiamento culturale nell’Italia meridionale
di Antonello Caporale

“Finché regge questo cuore io vado”. Una tv, un dibattito pubblico, un mezzo comizio, una riunione accademica. Qualunque cosa fosse, lei diceva di sì. Amalia Signorelli ha conosciuto nella sua terza età una giovinezza e una passione che la trascinavano ovunque. E l’antropologia, proprio grazie ad Amalia, è divenuta una scienza meno misteriosa, e la politica, sempre grazie alla Signorelli, si è accorta che le argomentazioni, quando sono lucide, logiche, ficcanti, hanno il premio dell’ascolto. Perciò era spesso ospite della tv.
E quella sua voglia, la capacità di dire pane al pane, di esercitarsi in un eloquio popolare ma non banale, di trasmettere passione nelle cose che diceva e per come le diceva, l’avevano già trascinata sul ring della scrittura. “Professoressa, un blog è come una finestra sul mondo. Lei scrive quel che le pare, come le pare e quando le pare”. La collaborazione col fattoquotidiano.it era intensa e proficua, tanto che la docente, da pensionata-casalinga, si trasformò presto in blogger d’attacco e nell’ultimo periodo in rubrichista di Millennium, il nostro mensile. E le sue parole, prima scritte, sono divenute pietre preziose per i conduttori di talk show sempre in cerca di personaggi nuovi, volti sconosciuti ma pensieri intelligenti da ospitare.
“Ma con questo caldo che ci fa a Roma?”, le ho chiesto l’ultima volta che ci siamo sentiti, in estate, quando la Capitale ardeva e lei, cardiopatica, soffriva ancora di più. “Purtroppo non posso lasciare Roma, il mio cuore fa le bizze e non sono in condizione di spostarmi”.
Ieri ci ha lasciati.
Signorelli era una donna minuta ma colta, con un sorriso aperto e compiaciuto, pronta allo sberleffo come pure al giudizio più meditato e approfondito, sempre disponibile al confronto e pure alla polemica. Era stata discepola del grande etnologo Ernesto De Martino. Ordinaria a Napoli, a Urbino e infine a Roma, aveva lavorato e insegnato a Parigi (École Haute Etudes de Sciences Sociales) e all’università metropolitana di Città del Messico. I suoi studi più approfonditi sono sul tarantismo in Puglia, dentro la cornice ampia della ricerca sulle culture popolari.
Oppositrice non di principio, ferma nelle sue idee (scelse come titolo della sua rubrica su Millennium “Non concilio”), battagliera, simpaticamente testarda nelle sue convinzioni, ha dato il meglio di sé e ottenuto una popolarità che durante la quarantennale carriera universitaria non aveva mai provato. Ferocemente antirenziana (“non lo sopporto proprio”), si è impegnata allo spasimo durante la campagna referendaria per il no alla riforma costituzionale. Ovunque la chiamassero, se la salute un po’ lo consentiva, correva. Una mia amica mi chiese di agevolarle il contatto: l’avrebbe voluta invitare a Matera. Ero certo che non avrebbe accettato. “E invece, sai, ha detto sì”.
Appena la salute glielo avrebbe permesso, aveva promesso.

Il Fatto 26.10.17
Io, trattata da scema dalla riforma renziana
Dalla parte giusta - Lo scorso anno Signorelli si era battuta per difendere la Costituzione
Io, trattata da scema dalla riforma renziana
di Amalia Signorelli

Lo scorso 2 dicembre, appena due giorni prima del referendum costituzionale che avrebbe bocciato la riforma renziana sulla Costituzione, Amalia Signorelli aveva partecipato alla serata organizzata dal Fatto Quotidiano al teatro Italia, in Roma, per sostenere un forte “No” al quesito. Questo il suo intervento.

Io voterò “No” perché siamo chiamati a dare un voto sul referendum delle menzogne. Non credo di aver mai visto, nella mia ormai non più breve vita, una situazione in cui si è mentito tanto quanto si è mentito in questa campagna referendaria. Balle, bufale, chiamatele come volete, c’è pure un modo molto elegante che viene utilizzato: narrazioni. E sono narrazioni molto spudorate. Come tutti avrete avuto modo di constatare, dobbiamo ringraziare i nostri amici che ci ospitano questa sera, perché sono state guide validissime nello scoprire queste menzogne. È stata una specie di escalation. La previsione di mirabolanti risultati, se si fosse votato Sì, è venuta fuori da tutte le parti progressivamente, invadendo tutti i campi dell’esistenza umana, fino a situazioni di un cinismo riluttante, che hanno chiamato in causa malati, bambini e altre persone in gravi condizioni di difficoltà. Tuttavia, la colpa forse è mia, che sono una persona che crede poco, poco incline a farsi suggestionare dalle narrazioni, perché noi siamo un popolo eccezionale: avremo dei senatori che, pur non essendo eletti da noi, avranno il dono dell’ubiquità. Saranno senatori e sindaci, e per di più gratis, per il bene del Paese. Che volete di più? Siamo un popolo eccezionale che può pensare di realizzare tutto questo.
E poi vorrei ricordare a tutti lo stile delle narrazioni che ci sono state fatte. Uno stile che ha incluso l’incoerenza, l’improntitudine, l’assoluta mancanza di onestà mentale, il “qui lo dico e qui lo nego” con una faccia tosta inaudita.
Ancora, l’aggressività, l’ignobile accordo di far finta ipocritamente tutti insieme che le lucciole siano lanterne. Infine, nel rifiuto del confronto critico, persino l’insulto. Li ho visti io, col dito puntato: “Lei non ha letto il testo della riforma!”. Ah, io verrei a discutere senza aver letto quello di cui devo discutere? Sarà un costume vostro, ma come vi permettete? E invece si permettono eccome. Non vi nascondo che a volte mi sono sentita profondamente a disagio per avere accettato confronti così fuori dalle regole minime del confronto che mi sono state insegnate quando ero matricola all’Università. Ma poi un bel giorno ho capito, ho avuto una specie di illuminazione, quando mi sono letta con calma il quesito referendario, che nasconde un vergognoso trucco. Elementare, ma vergognoso, che mi ha fatto sentire trattata come una completamente scema, perché lo sappiamo tutti, diciamocelo: quel quesito è formulato in maniera che o votiamo contro di noi o contro di noi. Chi vota no, infatti, deve fare una scelta che comunque sacrifica qualcosa: io, da quando mi invitano in televisione, spiego che il dimezzamento degli emolumenti dei parlamentari sarebbe una delle prime operazioni di risanamento della politica, e adesso devo scrivere che non lo voglio. Mi sono sentita impotente, ho capito una cosa che mi ha messo molto in allarme. Non sono un gufo e non sono neanche qualche altro animaletto antiquato o fuori moda. Per Renzi sono una molecola bovina di quella accozzaglia bovina generale che è il suo popolo bue, perché lui da popolo bue ci tratta e da popolo bue ci vuole governare. Io credo che possiamo ancora impedirglielo e per questo voto “No”.

Repubblica 26.10.17
Il record del gaffeur
di Sebastiano Messina

SOLO Claudio Lotito poteva riuscire nella non facile impresa di trasformare uno sciagurato episodio di antisemitismo in una scena grottesca da cinepanettone, in una sequela di gaffe, di equivoci e di pasticci che sembra il copione di una commedia pop degli anni Ottanta. E quando lo ascolti, ti domandi se quella è davvero la voce di uno che da 13 anni è presidente di una delle due squadre della Capitale, perché a volte hai l’insopprimibile sensazione di sentire il tono di Diego Abatantuono, le battute di Lino Banfi e la voce di Alvaro Vitali mentre lui cerca di riparare un pasticcio con una toppa peggiore del buco.
La scena madre, certo, è quella di lui che va alla Sinagoga per porgere le scuse della Lazio, e quando si viene a sapere che prima di arrivare ha detto «Famo ‘sta sceneggiata» fa partire una smentita, senza neanche sospettare che qualcuno ha catturato quella gaffe epica con il registratore. E così si viene a sapere anche cosa pensa davvero lui della comunità ebraica romana: «Er vice rabbino ce sarà? Solo il rabbino c’è? Non valgono un cazzo questi. Hai capito come stiamo? A New York c’hanno er rabbino, er vice rabbino...».
Il prode Lotito dunque pensava di chiudere il caso facendo «una sceneggiata», con una corona di fiori su cui c’era scritto a penna «Hai fratelli ebrei, da Claudio », con un’acca aggiunta di buon peso. Un altro si sarebbe fermato qui. Non Lotito. Il quale, intervistato da Matrix per raccontare «la sceneggiata», ha tenuto a precisare un punto: «Sono andato in moschea, ma non per chiedere scusa». È probabile, o almeno è sperabile, che qualcuno gli abbia spiegato che confondere una sinagoga con una moschea è peggio che dare del laziale a un romanista, per rimanere nell’unico mondo che lui conosce bene. E tutto questo per rimediare alla bravata, dice lui, «di quindici scemi che probabilmente non sanno neanche chi è Anna Frank». Lui lo sa, rivela, perché alle medie gli fecero leggere il suo diario. Il contesto però non gli dev’essere chiarissimo, visto che lunedì sera, a chi gli suggeriva di portare i fiori della Lazio alla lapide dei deportati, «quelli del 16 ottobre», lui ha risposto: «Ma quale 16 ottobre, domani è il 24 ottobre!». L’amara verità di questa commedia alla romana è che nessuno si meraviglia più, se lui dice «basta con l’antirazzismo e l’antisemitismo», due opposti accomunati a un «anti», perché il presidente della Lazio ha abituato i suoi tifosi a dire qualunque cosa, salvo smentita del giorno dopo: qui Lotito e qui lo nego.