martedì 24 ottobre 2017

Repubblica 24.10.17
La Lega e i voti perduti dal pd
di Stefano Folli

COME si è detto con ragione, la voce del popolo va sempre ascoltata. Nel caso del referendum consultivo in Veneto e Lombardia, è la voce di un Nord che ha mille motivi per farsi sentire fino a Roma, sullo sfondo di una questione settentrionale troppo a lungo ignorata o sottovalutata dai governi di ogni colore. Ciò che fra l’altro interpella la sensibilità politica della maggiore forza del centrosinistra, il Pd, ancora una volta sopraffatto dagli eventi, spettatore di un dibattito che si svolge altrove. E quando vorrebbe non essere solo spettatore, subito si divide: come è accaduto anche sul voto di domenica, in particolare sulla valutazione da offrirne.
In se stesso il referendum doveva servire a riproporre un’agenda antica in cui il Nord pretende maggiore rispetto, più autonomia nelle scelte amministrative, minori oneri volti a ripianare gli sprechi maturati in altre parti d’Italia. Ma siamo in campagna elettorale, la perenne campagna tipica del nostro Paese, e tutto viene piegato alle esigenze del momento. Così il presidente del Veneto, il vero vincitore della scommessa referendaria, cambia subito le carte in tavola. A differenza del collega lombardo, il pragmatico Maroni, ecco che Zaia chiede per la sua Regione lo «statuto speciale». Come il Trentino-Alto Adige, la Val d’Aosta o la Sicilia. Era questo il quesito proposto nella scheda ai cittadini elettori? Per nulla. Lo «statuto speciale» richiederebbe, fra l’altro, una modifica della Carta costituzionale. Viceversa il referendum consultivo si muove nell’ambito dell’articolo 116, è un passaggio previsto dalla legge volto a promuovere la piena attuazione dell’autonomia regionale.
La forzatura del Veneto è emblematica di come la Lega intende sfruttare la vicenda in chiave elettorale. Ma quale Lega, poi? A quella del monarca nazionalista Salvini si affianca oggi il Carroccio moderato di Maroni e il sogno della Repubblica Serenissima di Zaia. Tre aspetti diversi che possono anche trovare un punto di sintesi — e probabilmente lo troveranno per un calcolo di reciproche convenienze — , ma che esprimono visioni e comportamenti lontani fra loro. La mossa del presidente veneto sullo statuto ha il sapore di un’astuzia per farsi dire di no dal governo, come è subito accaduto, così da poter accrescere la tensione e avviarsi alla campagna elettorale di primavera con l’aureola del vero leader leghista.
Salvini dovrà essere molto più esauriente di quanto sia stato ieri per convincere gli italiani che nella Lega va tutto bene. Forse può consolarlo il fatto che, dopo la fuga in avanti sullo statuto speciale, Zaia non è più proponibile come candidato premier del centrodestra, secondo un’ipotesi che Berlusconi, qualcuno lo ricorderà, aveva buttato lì tempo addietro. Ma il centrodestra, se vorrà coalizzarsi sull’asse Forza Italia-Lega, dovrà risolvere altri problemi. Il referendum può essere usato per acuire la frattura fra il Nord e il Sud, oppure può servire a ricostruire un tessuto connettivo nel territorio, in base a un’idea aggiornata della nazione. Berlusconi, non solo Salvini, dovrà decidere quale strada imboccare. Di sicuro la mossa di Zaia scuote equilibri consolidati nel recinto del centrodestra a costo di una lacerazione del Paese. Non è un caso se già ora una costola della destra, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, si schiera contro il neo-separatismo.
Gestire la fase che si apre non sarà facile per Gentiloni. Avrebbe bisogno che il Pd gli offrisse una solida sponda, ma il partito di Renzi sembra incerto sul da farsi. C’è il sindaco di Bergamo, Gori, che spinge — lui lombardo — per non lasciare a Maroni il monopolio della linea autonomista. E c’è chi, come Martina e altri, teme la deriva catalana insita nella posizione di Zaia. Nella sostanza, il centrosinistra si è fatto sorprendere, dopo avere a lungo sottovalutato l’impatto del referendum. Renzi e i suoi erano assorbiti dal cosiddetto Rosatellum e poi dalla guerra alla Banca d’Italia. Il risveglio è stato brusco e ora il segretario dice che il problema sono le tasse troppo alte. Il che è vero, ma forse è troppo poco e troppo tardi per recuperare i consensi settentrionali che hanno abbandonato il centrosinistra. E senza i voti del Nord non si governa l’Italia.