martedì 24 ottobre 2017

Repubblica 24.10.17
La Lega e i voti perduti dal pd
di Stefano Folli

COME si è detto con ragione, la voce del popolo va sempre ascoltata. Nel caso del referendum consultivo in Veneto e Lombardia, è la voce di un Nord che ha mille motivi per farsi sentire fino a Roma, sullo sfondo di una questione settentrionale troppo a lungo ignorata o sottovalutata dai governi di ogni colore. Ciò che fra l’altro interpella la sensibilità politica della maggiore forza del centrosinistra, il Pd, ancora una volta sopraffatto dagli eventi, spettatore di un dibattito che si svolge altrove. E quando vorrebbe non essere solo spettatore, subito si divide: come è accaduto anche sul voto di domenica, in particolare sulla valutazione da offrirne.
In se stesso il referendum doveva servire a riproporre un’agenda antica in cui il Nord pretende maggiore rispetto, più autonomia nelle scelte amministrative, minori oneri volti a ripianare gli sprechi maturati in altre parti d’Italia. Ma siamo in campagna elettorale, la perenne campagna tipica del nostro Paese, e tutto viene piegato alle esigenze del momento. Così il presidente del Veneto, il vero vincitore della scommessa referendaria, cambia subito le carte in tavola. A differenza del collega lombardo, il pragmatico Maroni, ecco che Zaia chiede per la sua Regione lo «statuto speciale». Come il Trentino-Alto Adige, la Val d’Aosta o la Sicilia. Era questo il quesito proposto nella scheda ai cittadini elettori? Per nulla. Lo «statuto speciale» richiederebbe, fra l’altro, una modifica della Carta costituzionale. Viceversa il referendum consultivo si muove nell’ambito dell’articolo 116, è un passaggio previsto dalla legge volto a promuovere la piena attuazione dell’autonomia regionale.
La forzatura del Veneto è emblematica di come la Lega intende sfruttare la vicenda in chiave elettorale. Ma quale Lega, poi? A quella del monarca nazionalista Salvini si affianca oggi il Carroccio moderato di Maroni e il sogno della Repubblica Serenissima di Zaia. Tre aspetti diversi che possono anche trovare un punto di sintesi — e probabilmente lo troveranno per un calcolo di reciproche convenienze — , ma che esprimono visioni e comportamenti lontani fra loro. La mossa del presidente veneto sullo statuto ha il sapore di un’astuzia per farsi dire di no dal governo, come è subito accaduto, così da poter accrescere la tensione e avviarsi alla campagna elettorale di primavera con l’aureola del vero leader leghista.
Salvini dovrà essere molto più esauriente di quanto sia stato ieri per convincere gli italiani che nella Lega va tutto bene. Forse può consolarlo il fatto che, dopo la fuga in avanti sullo statuto speciale, Zaia non è più proponibile come candidato premier del centrodestra, secondo un’ipotesi che Berlusconi, qualcuno lo ricorderà, aveva buttato lì tempo addietro. Ma il centrodestra, se vorrà coalizzarsi sull’asse Forza Italia-Lega, dovrà risolvere altri problemi. Il referendum può essere usato per acuire la frattura fra il Nord e il Sud, oppure può servire a ricostruire un tessuto connettivo nel territorio, in base a un’idea aggiornata della nazione. Berlusconi, non solo Salvini, dovrà decidere quale strada imboccare. Di sicuro la mossa di Zaia scuote equilibri consolidati nel recinto del centrodestra a costo di una lacerazione del Paese. Non è un caso se già ora una costola della destra, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, si schiera contro il neo-separatismo.
Gestire la fase che si apre non sarà facile per Gentiloni. Avrebbe bisogno che il Pd gli offrisse una solida sponda, ma il partito di Renzi sembra incerto sul da farsi. C’è il sindaco di Bergamo, Gori, che spinge — lui lombardo — per non lasciare a Maroni il monopolio della linea autonomista. E c’è chi, come Martina e altri, teme la deriva catalana insita nella posizione di Zaia. Nella sostanza, il centrosinistra si è fatto sorprendere, dopo avere a lungo sottovalutato l’impatto del referendum. Renzi e i suoi erano assorbiti dal cosiddetto Rosatellum e poi dalla guerra alla Banca d’Italia. Il risveglio è stato brusco e ora il segretario dice che il problema sono le tasse troppo alte. Il che è vero, ma forse è troppo poco e troppo tardi per recuperare i consensi settentrionali che hanno abbandonato il centrosinistra. E senza i voti del Nord non si governa l’Italia.


il manifesto 24.10.17
Bankitalia, Mpd attacca: la Boschi non partecipi al consiglio dei ministri
Interrogazione di Arturo Scotto. «Il pesante conflitto d’interessi non può più essere ignorato». Sempre più forti le pressioni del Quirinale per anticipare la conferma di Visco
di Massimo Franchi

«Maria Elena Boschi non partecipi al consiglio dei ministri che dovrà proporre il nome del governatore di Bankitalia». La richiesta è stata tramutata in interrogazione parlamentare da Arturo Scotto di Mdp perché sull’attuale sottosegretaria alla presidenza del consiglio «grava un pesante conflitto di interessi che non può essere più ignorato».
Un conflitto di interesse reso palese dalle stesse norme di Banca d’Italia. «Il padre dell’onorevole Boschi, Pier Luigi, le cui attività in qualità di ex vicepresidente di Banca Etruria sono state a lungo oggetto della vigilanza di Palazzo Koch – ricorda Scotto – rientra nella fattispecie giuridica «stretti familiari» citato nella circolare 263 del 27 dicembre 2006 della Banca d’Italia, che stabilisce precise disposizioni nei confronti di soggetti collegati».
L’interrogazione ha per destinatari sia Gentiloni che Padoan. Assai difficile, ma non impossibile che il governo risponda nel Question time della Camera previsto per domani. Più probabile invece che nel frattempo la stessa Boschi annunci che non parteciperà al consiglio dei ministri. La mossa servirebbe anche per rivendicare l’assenza nel consiglio dei ministri dell’11 novembre 2015, quello del decreto salva-banche che mise in liquidazione Banca Etruria e gli altri tre istituti.
Ma la Boschi era invece presente il 10 settembre del 2015 quando fu approvata la norma che impatta più direttamente su suo padre. Quel giorno il governo Renzi recepì la direttiva sul cosiddetto «bail in», ma con una piccola modifica. Lì, a differenza della normativa europea, l’azione di responsabilità e di rivalsa verso i dirigenti della banca è diventata prerogativa dei commissari, salvando di fatto papà Boschi dalle azioni giuridiche dei risparmiatori che hanno perso tutto per il crack di Banca Etruria.
Ieri intanto continuavano insistenti le voci su un possibile anticipo del consiglio dei ministri su Bankitalia, previsto per venerdì. Dopo la mozione Pd di una settimana fa, le pressioni del Quirinale per chiudere la partita nel minor tempo possibile evitando polemiche e delegittimazione di un’istituzione fondamentale sono sempre più forti. Mattarella, a cui spetterà comunque la parola finale e determinante per la nomina del governatore per quanto previsto dalla legge Siniscalco del 2005 – in pieno scandalo che portò alle dimissioni di Antonio Fazio per la Popolare di Lodi – continua a ritenere inevitabile la conferma di Ignazio Visco. Mentre le subordinate – la promozione del direttore generale Salvatore Rossi o del vicedirettore Fabio Panetta – sarebbero una vittoria di Pirro per Renzi e renziani: entrambi hanno votato e avallato tutte le decisioni della Vigilanza bancaria in questi anni assieme a Visco.

Il Fatto 24.10.17
Bankitalia, Maria Elena Boschi nasconde i guai su Etruria sfidando Di Maio in tv
Mdp: la sottosegretaria stia fuori dal Cdm sui nuovi vertici di via Nazionale. Salvo rifiuti clamorosi, Gentiloni rinnoverà Visco solo venerdì
di Carlo Di Foggia

Nella guerra di logoramento che si combatte sul suo rinnovo, ogni giorno Ignazio Visco ha la sua pena, senza che questo cambi però i piani del governo. Domenica Matteo Renzi non ha fatto nulla per spianare al premier la strada che porterà alla scelta del governatore della Banca d’Italia (“Volete Visco? Fatelo”), ma Paolo Gentiloni non ha intenzione di anticipare i tempi. La data resta fissata per venerdì, quando il Consiglio dei ministri indicherà il nome al Quirinale. Per cortesia istituzionale l’indicazione verrà fatta pervenire giovedì sera a Sergio Mattarella.
A oggi la rosa è composta, nell’ordine di priorità, dallo stesso Visco, dal direttore generale di Via Nazionale Salvatore Rossi e dal vice Fabio Panetta. È nota ai cultori degli umori dello statista di Rignano la preferenza di Renzi per Rossi, ma altrettanto nota è quella di Gentiloni e Mattarella per la riconferma del governatore, non foss’altro perché Visco si è ancora più convinto – dopo il blitz parlamentare del Pd per far saltare il suo rinnovo – di non farsi da parte. A sgarbo appena avvenuto, il duo aveva optato per un Cdm da tenersi ieri, poi però Gentiloni ha rimandato tutto a venerdì per far “decantare” gli effetti dell’incidente. Far passare il tempo sperando che la situazione si rasserenasse, salvando così il soldato Visco. Risultato? Attacchi giornalieri di Renzi e retroscena ispirati dei giornali sul governo “pronto ad accelerare il rinnovo”. Stessa cosa domenica, ma nulla da fare: si fa tutto venerdì. Per la verità ha contato anche il fatto che il premier sabato prossimo sarà a Napoli (dove incontrerà Renzi alla conferenza programmatica del Pd) e domenica partirà per l’India. Una combo perfetta per sottrarsi – fatta la nomina – alle polemiche.
Un accenno delle quali lo si è avuto ieri nello scontro tra Luigi di Maio e Maria Elena Boschi, la persona che ha coordinato da Palazzo Chigi il blitz contro Visco e insieme il nervo politico scoperto del mondo renziano sulle banche per le note vicende di Banca Etruria, dove sedeva il padre Pier Luigi (ieri Arturo Scotto di Mdp le ha chiesto di astenersi nel Cdm di venerdì, ma lei non ci pensa nemmeno). “Renzi ha massacrato i risparmiatori e adesso vuole fare il loro paladino. Lui e la Boschi sono gli aguzzini dei correntisti, non i salvatori. Quando hanno governato non solo hanno favorito le banche, ma in 20 minuti hanno fatto un decreto per salvare la banca della Boschi e mandare sul lastrico migliaia di risparmiatori”, ha attaccato ieri pomeriggio il candidato premier M5S. La risposta è arrivata in serata: “Mio padre è stato mandato a casa come tutti, noi abbiamo salvato i correntisti. Ora basta con le bugie: sono pronta a un dibattito televisivo con Di Maio sulla questione bancaria”. Bruno Vespa si è affrettato a mettere a disposizione il suo salotto Tv. Fretta che Di Maio non ha nell’accettare la sfida: le risponderà, forse, oggi. D’altronde Boschi sono due anni che studia la strategia difensiva sulle banche, Di Maio un po’ meno l’attacco.

Corriere 24.10.17
Bankitalia in Consiglio dei ministri Diventa un caso la presenza di Boschi
La sottosegretaria annuncia che andrà e a Di Maio dice: confrontiamoci in tv
di Maria Teresa Meli

ROMA Maria Elena Boschi è pronta a un confronto televisivo con Luigi Di Maio sulla vicenda di Bankitalia. Il guanto di sfida è stato gettato, ora sta al candidato premier dei cinque stelle accettarlo o fare marcia indietro. La sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, infatti, si dice stufa di insinuazioni e critiche.
Il conto alla rovescia che porterà al Consiglio dei ministri che deciderà su Bankitalia è già partito. I grillini insistono. E anche Mdp è andato all’attacco di Boschi. In una interrogazione a Gentiloni, a firma di Arturo Scotto, si chiede che la sottosegretaria non partecipi al Cdm di venerdì prossimo perché su di lei «grava un pesante conflitto di interessi che non può essere più ignorato» considerato anche che le attività del padre Luigi, in qualità di ex vicepresidente di Banca Etruria, «sono state a lungo oggetto della vigilanza bancaria e finanziaria operata da Palazzo Koch».
«Attaccano lei per attaccare me», dice ai collaboratori Matteo Renzi. Mai la lei in questione sa bene quale sia la posta in gioco. «Non capisco che polemica sia questa», dice Boschi. E poi aggiunge, scandendo bene sillaba per sillaba: «Io andrò».
Già la sottosegretaria sarà presente alla riunione del Cdm per la nomina del governatore di Bankitalia. Non ha intenzione di nascondersi e men che meno di stare appreso al «chiacchiericcio». Paolo Gentiloni è dello stesso avviso: «Maria Elena è la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, è ovvio che ci deve stare».
Dunque, questa partita è chiusa, con buona pace di Mdp. Boschi sarà al Consiglio dei ministri in cui si deciderà o meno la conferma di Ignazio Visco. E non contrasterà quella nomina: «Deciderà Gentiloni». Anche se al Nazareno sostengono che «non è Paolo Gentiloni a decidere quel passaggio, bensì Mario Draghi». Dicono che «è il numero uno della Bce a stabilire chi sarà il governatore di Bankitalia» e hanno deciso di accettare questo iter. Nonostante al Nazareno qualcuno dica: «Gentiloni e Mattarella avrebbero dovuto andare prima da Draghi per spiegargli che ci voleva un segnale di rinnovamento anche in Bankitalia e per dirgli di indicare un altro nome che non fosse Visco». Era la strada che Matteo Renzi aveva già indicato. Ma così non è stato. «E adesso — confida ai suoi il segretario del Pd — abbiamo un governatore che è stato bocciato da metà del Parlamento e che dovrà essere audito dalla commissione d’inchiesta».
Ma in queste beghe Boschi non vuole entrare e affida a un post su Facebook il suo pensiero: «Leggo in una dichiarazione di Di Maio in cui vengo definita aguzzina dei correntisti. Prosegue il vicepresidente della Camera: “Hanno fatto un decreto per salvare la banca della Boschi”. Di Maio, come spesso gli accade, parla di cose che non conosce. Io non ho nessuna banca, ma mio padre è stato per otto mesi vicepresidente di Banca Etruria. E, come tutti i membri del cda è stato commissariato dal nostro governo, cioè mandato a casa proprio da noi. Ora basta con le bugie: sono pronta a un dibattito televisivo con l’onorevole Di Maio. Entriamo nel merito e vediamo chi sta mentendo agli italiani».

Repubblica 24.10.17
Mdp e M5S accusano la sottosegretaria di conflitto di interessi. Visco ai dipendenti: nessuna colpa nostra sulla crisi
Bankitalia, Boschi sotto attacco “Per la nomina esca dal Cdm” Ma lei: ci sarò. Sfida Di Maio in tv
di Goffredo De Marchis

ROMA. Maria Elena Boschi parteciperà «al 100 per cento» al consiglio dei ministri dal quale uscirà il nome per la Banca d’Italia. Nessuno le chiederà di assentarsi e lei non ha intenzione di farlo. Il conflitto d’interessi non c’è. E il governo, in questo momento, deve evitare l’apertura di altri casi.
Luigi Di Maio ha accusato la sottosegretaria alla presidenza, insieme con Renzi, di essere «l’aguzzina dei correntisti, altro che difesa dei risparmiatori». Al leader dei 5 Stelle la Boschi ha risposto sfidandolo a un confronto in tv: «Non ho una banca, mio padre è stato 8 mesi vicepresidente di Banca Etruria ed è stato commissariato dal nostro governo. Dunque, noi i correntisti li abbiamo salvati». Ma il punto sul conflitto d’interessi lo solleva Arturo Scotto, uno dei leader di Mdp, presentando un’interrogazione parlamentare: può la figlia di Pier Luigi Boschi, sanzionato da Consob e Banca d’Italia per Banca Etruria, decidere le sorti di uno dei sanzionatori?, è la domanda di Scotto. «Boschi stia lontana qualche chilometro dal cdm che nominerà il governatore. Gli ascari del renzismo si scoprono paladini dei risparmiatori dopo essere andati a braccetto con Marchionne e Farinetti », attacca Scotto. Il tentativo è anche quello di seminare un po’ di panico nel governo. Di approfittare della mozione che ha diviso il premier e la sua stretta collaboratrice: uno non ne sapeva nulla, l’altra sapeva tutto. Ma a Palazzo Chigi respingono subito quella che definiscono una “furbata”: «Se partecipa faranno polemica, se non partecipa diranno che è un’ammissione di colpa ». Infatti, Boschi parteciperà sicuramente alla riunione dell’esecutivo. Il problema non si pone. Peraltro, la sottosegretaria non ha potere di voto in consiglio che comunque non si esprimerà sulla scelta di Gentiloni.
Il week end però non ha portato la decisione sperata da Matteo Renzi, ovvero il passo indietro del governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Già dalla mattina i renziani si scambiavano messaggi di questo tenore: «Ha maturato la convinzione di non dimettersi». Scelta abbastanza scontata. In serata il numero uno di Via Nazionale, tra le righe, confermava la difesa del suo operato e dell’istituto, dimostrando così la volontà di non mollare.
Sul futuro di Palazzo Koch, tutto passa in queste ore dai contatti riservati delle istituzioni. Ma Visco coglie l’occasione di una cerimonia tutta interna alla Banca per rivendicarne il ruolo e la funzione. Un modo per rispondere alle critiche di Renzi e alla mozione di sfiducia del Pd. «Non è uno slogan dire che stiamo uscendo dalla più grave crisi economica della nostra storia», è la premessa. Quindi, «non ci si deve trattenere dal dire che la Banca d’Italia non solo non ha contribuito a questa crisi, ma ha operato con successo nonostante i venti contrari per contenerne gli effetti e risolvere le situazioni più difficili». Insomma, tutto ha funzionato bene o quasi.
Le parole del governatore sono pronunciate in un appuntamento “privato”, di fronte ai 71 dipendenti della Banca che quest’anno hanno compiuto 30 anni di servizio. Ma intorno al lui c’è il direttorio praticamente al completo, i capi dei servizi, i capi dipartimento, i consiglieri superiori. Del resto, non è un mistero che la struttura sia schierata dalla parte del suo capo e in difesa dell’autonomia dell’istituto. Questa cerimonia è un rito di Via Nazionale che si ripete ogni anno ed è sempre rimasta chiusa in quelle stanze. Stavolta però si era pensato di mettere il video dell’intervento del governatore sul sito di Bankitalia. Per replicare in maniera altrettanto pubblica agli attacchi. Alla fine, non se n’è fatto nulla e la festa è rimasta “privata”. Come sempre.
A questo punto gli attori della vicenda rimangono due: Paolo Gentiloni e Sergio Mattarella. Tutte le posizioni dei partiti sono chiare, l’orientamento della Banca pure. Serve lasciare appesa la nomina fino a venerdì, giorno del consiglio dei ministri? Il Quirinale vorrebbe accorciare i tempi. Anche per una questione di cavilli. Il mandato, secondo alcune interpretazioni, scade giovedì e non il 31. Fa fede il via libera della precedente nomina da parte della Corte dei Conti e non la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Il consiglio dei ministri in quel caso andrebbe convocato entro domani. Ma per sminare il campo il premier forse ha bisogno di più tempo.

il manifesto 24.10.17
La destra alza la posta, la sinistra sbanda
di Norma Rangeri

Il centrodestra sente il vento nelle vele e ora, dopo i referendum di Lombardia e Veneto, aspetta di prendere il largo con il voto regionale siciliano, antipasto dell’agognato approdo al governo con le elezioni politiche nazionali. Inutile dal punto di vista tecnico-amministrativo (l’Emilia Romagna è già in trattativa con il governo, senza aver avuto bisogno di spendere decine di milioni per consultare i suoi concittadini), il rito referendario di domenica è stato invece utilissimo nella costruzione della futura leadership del centrodestra e nell’evidenziare gli sbandamenti a sinistra.
Certo Maroni, Zaia e Salvini devono ringraziare gli entusiasti del Pd che hanno fatto campagna elettorale per loro, sindaci come quello di Bergamo, o come certi parlamentari contenti perché finalmente «è arrivata la spallata e Zaia ora ha un ampio mandato», secondo l’opinione di una piddina trevigiana. Questi strateghi forgiati alla scuola del renzismo, in profonda sintonia con i loro colleghi leghisti, hanno portato acqua al mulino di Salvini.
Nonostante il coro berlusconiano dica che a uscirne vincente è il trio Maroni-Berlusconi-Zaia, come se Salvini non fosse l’azionista di maggioranza dello schieramento, quasi un leghista modificato dal nazionalismo antieuropeo, è vero invece che il partito salviniano ha segnato un punto pur giocando la partita in casa.
Una squadra rafforzata dall’exploit del veneto Zaia, vero vincitore del referendum, il più in sintonia e in continuità con la vecchia Lega come si capisce oltre che dal commento post-referendario («il Veneto non sarà più quello di prima», «padroni a casa nostra»), soprattutto dal rilancio della posta, con la richiesta dello status di regione speciale per il Veneto e della restituzione del residuo fiscale. Materie bollenti, due fronti di conflitto non componibili messi sul piatto della competizione elettorale, con una forza accresciuta dall’aver portato al voto 5,5 milioni di elettori delle regioni italiane economicamente più forti.
La sinistra reagisce al rafforzamento del centrodestra in modo maldestro, o sottovalutando il risultato o, all’inverso, suonando il campanello del Nazareno vale a dire chiedendo a Renzi un incontro per verificare le condizioni di una alleanza, come ha fatto il gruppo di Bersani. Un escamotage tattico visto che le condizioni per sedersi al tavolo sarebbero la modifica della legge elettorale, la cancellazione del Jobs act e della buona scuola. (E proprio mentre si profila una nuova fiducia, al senato, sulla materia elettorale giunta al suo decisivo passaggio parlamentare).
Cercare ancora l’accordo con il Pd di Renzi certo non rafforza lo spirito di chi a sinistra tenta faticosamente di dare agli elettori disamorati una ragione fondativa di un nuovo partito con salde radici laburiste e una cultura politica libertaria e di sinistra. Oltretutto farsi dire di no dal segretario del Pd più che un’idea di responsabilità restituisce l’impressione di una debolezza. Tanto più che dopo il secco rifiuto alle modifiche della legge elettorale, ieri Renzi ha pure messo il cappello sui referendum sostenendo che nessuno più di lui vuole colpire lo Stato-esattore. Allargando così la via maestra della grande coalizione per un governo che «nei primi mesi della prossima legislatura cominci con un accordo delle forze politiche» per abbattere le tasse. Con buona pace di chi, a sinistra, finge di non aver ancora capito bene il messaggio.

Il Fatto 24.10.17
La sinistra Pd prova l’alleanza con Mdp sulla legge elettorale
Le modifiche chieste da Chiti&C. sono quelle dei bersaniani: voto disgiunto, più collegi, no all’indicazione del “capo”
di To. Ro.

Renzi l’ha ignorato, una parte del Pd invece no. Domenica mattina, attraverso Repubblica, il coordinatore di Mdp Roberto Speranza aveva chiesto al segretario del Pd un incontro. Un primo riavvicinamento, possibile a una condizione: mettere mano alla legge elettorale. Ovvero: introdurre le preferenze, aumentare il numero dei collegi uninominali e inserire il voto disgiunto.
Rosato e Renzi hanno risposto immediatamente di no, mentre altri dirigenti del partito (Orlando, Cuperlo, Zanda e Franceschini) hanno chiesto di tenere aperto il dialogo. E ieri, magicamente, sono comparsi sei emendamenti alla legge elettorale che in sostanza riprendono le richieste di Speranza e dei bersaniani. Sono firmati da quattro senatori della sinistra del Pd (che hanno sostenuto la mozione Orlando alle ultime primarie): Vannino Chiti, Walter Tocci, Massimo Mucchetti e Claudio Micheloni.
Due degli emendamenti propongono di alzare la percentuale dei seggi assegnati con i collegi uninominali dal 36 al 50%; altri due introducono la doppia scheda per i collegi uninominali e per la parte proporzionale (introducendo di fatto il voto disgiunto); uno elimina la norma che obbliga i partiti a indicare il nome del “capo politico” al momento di presentare le liste (una richiesta arrivata anche dal presidente emerito Giorgio Napolitano, che la ripresenterà nell’aula del Senato); un altro, infine, cancella la possibilità dei cittadini residenti in Italia di candidarsi nelle circoscrizioni estere (la cosiddetta “salva Verdini”). Sono modifiche che i bersaniani avevano provato a far passare anche alla Camera. Non c’è una regia comune, fanno sapere da entrambi gli schieramenti, ma una naturale convergenza di interessi e vedute.
Gli stessi senatori della sinistra Pd stamattina hanno convocato una conferenza stampa a Palazzo Madama. Diranno che il Partito democratico, se non si apre a sinistra, è destinato a perdere le elezioni e che la decisione di porre la fiducia sulla legge elettorale anche al Senato è una sciagura. “L’argomento dei voti segreti – sostiene Mucchetti – è debolissimo”. Un altro degli anti renziani del gruppo Pd di Palazzo Madama, Ugo Sposetti, non garantisce la sua fedeltà alla linea del partito nemmeno in caso di fiducia: “Non ho ancora deciso, valuterò quando sarà il momento”.
L’iniziativa di Chiti e degli altri è destinata all’insuccesso, proprio come le richieste di Speranza, ma è il segno che qualcosa nel Pd non renziano si sta muovendo. Come dimostra pure la rapidità con cui domenica sera Dario Franceschini si era affrettato a twittare la sua benedizione all’apertura di un confronto: “La proposta di @robersperanza e la risposta di @matteorenzi ricostruiscono un filo di dialogo. Nessuno lo spezzi o vincerà la destra”.
Sul tema ieri ha parlato anche Massimo D’Alema: riguardo all’apertura di Speranza “molto dipenderà dal Pd. Noi abbiamo detto che a certe condizioni, non siamo una forza insensibile alle necessità di fare argine alla destra. Però le condizioni poste sono chiare. Sentiremo la risposta di Renzi. Manterrei una certa calma in queste cose, ma le prime risposte mi sembrano abbastanza deludenti”.
In ogni caso, nel Pd è periodo di riposizionamenti: la prossima settimana è quella delle elezioni regionali in Sicilia. I sondaggi hanno già stabilito la sconfitta, probabilmente ampia, di Fabrizio Micari, il candidato di Renzi e Alfano. La minoranza dem e la sinistra antirenziana fuori dal Pd non aspettano altro: con un segretario ulteriormente indebolito ogni discorso sulla strategia del partito – e quindi sulle alleanze – potrebbe essere rimesso in discussione. Nel frattempo, tra interviste ed emendamenti, hanno ricominciato a scambiarsi qualche occhiolino.

Il Fatto 24.10.17
Dopo le infinite forzature di Montecitorio, siamo all’ennesimo sfregio alla Costituzione
Secondo atto - Tempi stretti e regolamenti ignorati anche a Palazzo Madama
Dopo le infinite forzature di Montecitorio, siamo all’ennesimo sfregio alla Costituzione
di Marco Podetta

Nella corrente legislatura si sta assistendo a un “salto di qualità” rispetto al costante svilimento della dialettica parlamentare perpetrato attraverso la sistematica forzatura delle regole procedurali poste a garanzia della democraticità dell’assunzione della decisione politica. Anche l’iter parlamentare del Rosatellum-bis risulta costellato da una serie di strappi procedurali, che non si sono esauriti nel suo passaggio alla Camera con l’ammissione della posizione della questione di fiducia e con l’irregolare correzione di un errore formale senza passare da un voto dell’Aula, come invece richiesto dall’art. 90, comma 1, Regolamento Camera. La maggioranza ha infatti sin da subito dimostrato di non avere alcuna intenzione di procedere ad un serio esame del testo, nel rispetto delle regole procedurali previste, neppure al Senato.
Ciò è reso evidente dall’incalzare delle scadenze da subito fissate per la “discussione” del provvedimento, il cui esame è cominciato solo il pomeriggio del 17 ottobre: presentazione degli emendamenti in Commissione entro le ore 10.00 del 20 ottobre; presentazione degli emendamenti per l’Aula entro le ore 13.00 del 23 ottobre; approdo del testo in Aula il 24 ottobre; prosecuzione dell’esame in Assemblea con sedute uniche (ossia ingiustificatamente con una procedura non ordinaria) nei giorni seguenti per cercare di giungere al più tardi venerdì 27 ottobre alla votazione finale.
Questo significa che la maggioranza conta di completare l’intero iter legis al Senato – al massimo – in soli 10 giorni!
Anche l’audizione di esperti svolta il 19 ottobre, che ha peraltro portato alla luce molti aspetti critici dello stesso anche sotto il profilo della legittimità costituzionale, è stata dunque per forza di cose, visti i tempi ipercontingentati, solo un (cattivo) esercizio di stile.
È poi addirittura grottesco che la Commissione sia stata convocata per discutere e votare gli emendamenti alle ore 16.00 e alle ore 20.00 del 23 ottobre, ossia dopo il termine per la presentazione degli emendamenti per l’Aula. Sembra di essere di fronte alle degenerazioni delle regole acceleratorie relative all’iter di conversione dei decreti-legge.
La volontà della maggioranza è stata quella di saltare lo svolgimento di un vero esame referente in Commissione, mirando soltanto a portare il testo quanto prima in Aula, impedendo ogni modificazione.
Pare poi facile prevedere che anche al Senato la maggioranza chiederà al Governo (secondo una logica perversa e bizzarra) di porre la fiducia per evitare voti segreti (possibili in particolare, a norma dell’art. 113, comma 4, Regolamento Senato, con riferimento a votazioni che riguardano le minoranze linguistiche).
Si è sentito parlare a tal proposito di una possibile fiducia “tecnica” che potrebbe godere dell’appoggio anche di una parte dell’opposizione, il che non fa altro che testimoniare l’assoluta stortura dell’utilizzo di questo istituto all’unico scopo di godere d’imperio di ingiustificati vantaggi procedurali (non essendo in gioco in realtà alcuna votazione fiduciaria!).
L’art. 72, comma 4 della Costituzione che prescrive l’utilizzo della procedura legislativa normale in materia elettorale, sembra però escludere, se correttamente interpretato, la legittimità dell’utilizzo di tale strumento.
Peraltro, anche accedendo all’interpretazione restrittiva di tale disposizione, sulla base della quale è stato permesso nei giorni scorsi l’utilizzo di questo istituto sullo stesso testo alla Camera, si pone in ogni caso un problema di legittimità costituzionale. Infatti, anche se fosse vero che la “procedura normale” è “semplicemente” quella per cui le leggi sono esaminate prima dalle Commissioni e poi dall’Aula, la stessa non può comunque dirsi rispettata nel caso in esame, in cui non si è tenuto di fatto nemmeno un vero esame in Commissione.

il manifesto 24.10.17
«Biotestamento subito». L’appello dei sindaci
Fine vita. Ventisette primi cittadini aderiscono alla mobilitazione dell'Associazione radicale Luca Coscioni
di Eleonora Martini

«Noi sindaci sottoscritti, per scongiurare un nuovo passaggio alla Camera che ne impedirebbe nei fatti l’approvazione definitiva, chiediamo che il Ddl sul “Consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento” sia trasmesso in Aula per il voto senza ulteriori modificazioni, al fine di non lasciare senza risposta le attese e le speranze di tanti cittadini».
Sono 27  sindaci di grandi e piccole città italiane a  mobilitarsi, questa volta, in favore della legge sul biotestamento che da cinque mesi non riesce a schiodarsi dal Senato a causa dell’ostruzionismo (con 3 mila emendamenti presentati in commissione) di Lega,  Fi e Ap. Tra i primi a firmare l’appello promosso dall’associazione radicale Luca Coscioni (che si batte anche per la legalizzazione dell’eutanasia), ci sono la prima cittadina di Roma, Virginia Raggi, quello di Milano, Giuseppe Sala e gli omologhi  Luigi De Magistris (Napoli), Chiara Appendino (Torino), Luca Orlando (Palermo), Federico Pizzarotti (Parma), Filippo Nogarin (Livorno).
Pochi giorni fa erano stati i senatori a vita Elena Cattaneo, Mario Monti, Renzo Piano e Carlo Rubbia a scendere in campo per portare a compimento l’iter  della blanda legge che riconosce appena il diritto a rifiutare le terapie, compresa nutrizione e idratazione artificiali, ma che lascia al medico l’ultima parola di disattendere le Dat qualora le ritenesse «manifestatamente inappropriate o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente».
La presidente della Sanità del Senato Emilia De Biasi per l’ottava volta ha annunciato le proprie dimissioni finalizzate a superare il passaggio in commissione e far approdare il ddl direttamente in Aula. Giovedì prossimo, ha assicurato, sarà la volta giusta.

Il Fatto 24.10.17
Il biotestamento delle dimissioni

Dimissioni? Oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente. La senatrice pd Emilia De Biasi, presidente della commissione Sanità al Senato, ha annunciato ieri, per l’ennesima volta, le proprie dimissioni da relatrice della legge sul fine-vita, l’unica decisione utile per far arrivare il testo in aula in tempo per essere approvato entro la fine della legislatura. Ecco, in realtà, la senatrice non ha proprio annunciato le sue dimissioni. È più corretto dire che ha annunciato di “voler comunicare l’intenzione di dimettersi”, il prossimo giovedì, quando si riunirà la commissione. Sembra un’inezia, ma visti i precedenti è meglio non star troppo tranquilli: da giugno a oggi, ovvero da quando il testo è passato alla commissione del Senato dopo essere stato approvato dalla Camera, De Biasi ha annunciato sette volte – otto, con quella di ieri – “l’intenzione di dimettersi”. Se lo avesse fatto – una volta qualsiasi delle tante, si intende – il testo non sarebbe ancora impantanato tra i 3.000 emendamenti in commissione e sarebbe già arrivato in aula. Magari sarebbe stato pure votato e, fortuna della fortuna, approvato. Ma no, ma cos’è tutta ‘sta fretta così all’improvviso? Stiamo tutti calmi e andiamo avanti, un annuncio alla volta.

il manifesto 24.10.17
Aumenti a statali e insegnanti: rischio «beffa» sugli 80 euro
Legge di Bilancio. Non ci sono ancora le risorse per garantirli a chi avrà il rinnovo contrattuale. La Fiom Cgil chiede lo sciopero generale
di Antonio Sciotto

ROMA La legge di Bilancio è ancora allo stato di bozze, ma tra le certezze c’è il fatto che gli statali e i lavoratori della scuola non hanno ancora scampato il rischio «beffa degli 80 euro». È vero che finalmente dovrebbe arrivare l’agognato rinnovo contrattuale, atteso da quasi nove anni (l’ultimo risale al 2009, poi i blocchi sempre confermati), ed è vero che il governo sembri disposto a stanziare ben 2,9 miliardi per il triennio 2016/2018, ma dall’altro lato non sono ancora state reperite le risorse per assicurare il bonus degli 80 euro a chi – proprio in forza dell’aumento contrattuale: 85 euro lordi – è destinato a passare di scaglione perdendo così il bonus. Ottantacinque euro lordi a fronte di 80 netti non sembrano insomma un bell’affare, almeno sul piano strettamente economico.
MA IL DANNO ALLE fasce medio basse, ai lavoratori e ai pensionati, come denuncia Sinistra italiana, si dovrebbe giocare anche sul fronte dei tagli al sistema sanitario nazionale, e in particolare ai Lea, i livelli essenziali di assistenza: «La nuova legge di bilancio – denuncia il segretario Nicola Fratoianni – propone nuovi tagli alla salute dei cittadini: 2,6 miliardi di euro tolti alle regioni, che si scaricheranno su salute e sociale. Senza considerare il rinnovo del contratto degli statali, che costa 1,3 miliardi di euro, che verranno sottratti dal Fondo nazionale sanitario, senza immettere risorse aggiuntive nel sistema». «Una vergogna infinita – conclude – mentre 12 milioni di italiani sono costretti a rinunciare alle cure».
La novità più grossa, tornando agli statali, sarebbe previsto (siamo costretti al condizionale, visto che si tratta sempre di bozze) un aumento netto mensile di circa 400 euro per la parte fissa della retribuzione dei presidi scolastici, equiparandoli così agli altri dirigenti della pubblica amministrazione. Interventi anche per rimodulare gli scatti dei professori universitari, come anticipato dal ministero dell’Istruzione nei giorni scorsi, e per assumere circa 1.600 ricercatori (ma non è ancora chiaro se a termine o a tempo indeterminato). Le bozze prevedono inoltre 15 milioni di euro in più per i dottorati e 10 milioni in più per il diritto allo studio.
TRA LE ALTRE MISURE emerse ieri, ci sarebbe poi la sospensione del pagamento degli adempimenti fiscali per i residenti e per le imprese dei comuni dell’isola di Ischia colpiti dal sisma del 21 agosto. Ancora, sarebbero in arrivo detrazioni fiscali per gli abbonamenti ai mezzi pubblici: si pensa di fissare la detraibilità dall’imposta lorda al 19% per un importo delle spese non superiore a 250 euro all’anno.
Verrebbe finanziata anche una delle «cenerentole» della narrazione renziana, ovvero la ristrutturazione degli edifici scolastici: si prevedono 192 milioni nel 2018 e 96 milioni per il 2019. Il capitolo, tra i primi lanciati nel 2014 dall’allora appena insediato premier, ma mai concretizzato, è quello delle cosiddette «scuole belle».
Verrebbe confermata poi la stabilizzazione della cedolare secca al 10% per gli affitti abitativi a canone concordato. E contro la manovra stanzierebbe 50 milioni di euro per realizzare un piano triennale straordinario (2018-20) di costruzione di invasi idrici multiobiettivo e per interventi volti a contrastare le perdite degli acquedotti.
ALTRO PASSO, MA NON è ancora la web tax, sarebbe in arrivo – in traduzione di norme Ocse – una stretta contro le aziende che spostano profitti all’estero con il solo obiettivo di minimizzare le tasse da pagare. Si pensa a paletti più rigidi sulla «stabile organizzazione».
Sarebbe prevista poi la possibilità di prorogare per un anno la cig straordinaria (da 24 a 36 mesi) per le aziende con un organico oltre 100 dipendenti impegnate in un processo di riorganizzazione con un accordo al ministero del Lavoro.
E SE RENATO BRUNETTA di Forza Italia critica il governo per il ritardo nel presentare la legge al Parlamento – «La scadenza era il 20 ottobre» – l’assemblea generale Fiom ha approvato un documento che lancia un percorso di mobilitazione, fino anche allo sciopero generale, «per cambiare la manovra»

La Stampa 24.10.17
Se la capitale diventa un nemico
di Ferdinando Camon

Il referendum lombardo-veneto non l’ha vinto la Lega, come dicono tutti i giornali. L’ha vinto la Liga, cioè la Lega originaria, che era nata nel Veneto e dal Veneto fu portata via da Umberto Bossi.
La differenza percentuale dei votanti al referendum tra Veneto e Lombardia è del 20%. Un’enormità. Poiché sotto sotto il referendum voleva segnare la distanza delle due popolazioni, la lombarda e la veneta, da Roma, il risultato mostra che la distanza è infinitamente maggiore nel Veneto. Roma per i lombardi è un’altra capitale, la capitale di uno Stato rivale. Per i veneti è la capitale di uno Stato nemico. Si va a trattare, con i risultati del referendum lombardo: nuovi rapporti, nuove relazioni, economiche e fiscali. Con i risultati del referendum veneto si potrebbe andare, se le leggi lo permettessero, a trattare la separazione. L’uomo veneto odia Roma e tutto ciò che è romano, quindi anche l’Italia, sentita come una provincia romana. Il deamicisiano quesito referendario («Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?»), fu inteso dai votanti così: «Vuoi che la Regione Veneto prenda più larghe distanze da Roma?». I veneti hanno risposto Sì. Ergo, Roma è più lontana.
Ai tempi di Bossi, Roma era ladrona, cioè rubava ai veneti per dare al Sud. Ma dopo che Bossi & C. hanno pure loro rubato, questo slogan è caduto. Adesso Roma è quella delle tasse. Fatalità, siamo a poche settimane dalla nuova ondata di tasse. Anche questo ha influito sul referendum. Dopo tante giravolte, secessione, indipendenza, la richiesta si ferma sull’autonomia, intesa come autogestione delle tasse. L’odio verso Roma è la spinta che fa emergere l’identità dell’uomo veneto, che si manifesta soprattutto come identità economica e fiscale. L’uomo è i soldi che ha. Ecco perché le tre province che hanno trainato il referendum sono Padova, Treviso e Vicenza, le tre città leader del nuovo Veneto, che formano la megalopoli diffusa Pa-Tre-Vi. Una volta la megalopoli era Pa-Tre-Ve, e Ve stava per Venezia, che però è un leviatano che marcisce nella laguna, costa più di quel che rende, e dopo il Mose passa tra le gestioni corrotte. Le figure interiori dominanti sono sempre le stesse, Berlusconi, la Chiesa. Berlusconi torna in campo, e riacquista un suo credito come uomo anti-tasse. La chiesa significa il patriarca Moraglia: con sorpresa di molti, anche mia, s’è pronunciato con decisione pro-referendum, e questo ha pesato sul voto.
Sul risultato pesa anche il voto degli immigrati, perché nelle altre regioni gli immigrati che diventano cittadini diventano italiani, ma nel Veneto diventano veneti: non dicono «noi parliamo italiano», dicono «noi parliamo veneto». E votano di conseguenza. Il Veneto venetizza, non italianizza. Adesso si va a trattare. Operazione difficilissima. Soprattutto sulla parte economica. Il Veneto dice che gli spettano 15 miliardi di tasse che non gli tornano mai indietro in servizi, ma vanno ad altre regioni. Il problema è molto semplice: quei soldi lo Stato non li ha.

il manifesto 24.10.17
In Giappone Abe va, i suoi alleati no. E a sinistra torna l’unità
Il voto di domenica. Il Rikken minshuto a sorpresa ora è il secondo partito. Un risultato a galvanizzare l'opposizione contro la revisione costituzionale in senso militarista
di Stefano Lippiello

In Giappone si conferma Abe e perdono i suoi alleati. Dopo il voto di domenica, nulla cambia numericamente per il Partito liberaldemocratico (Jiminto) al governo, che resta a 284 seggi, tanti quanti ne aveva prima. Arretrano però i suoi alleati in parlamento del Komeito. Si riduce così la maggioranza, solo due seggi oltre la soglia necessaria per promuovere le riforme costituzionali.
LE ELEZIONI DI DOMENICA sono state una sorta di fiducia extraparlamentare chiesta da Abe agli elettori per uscire dai vari scandali che avevano coinvolto lui e altri membri del suo governo da inizio anno. Ora che l’esito è stato a suo favore, Abe è proiettato verso un terzo mandato alla testa del partito e punta ad essere il premier che guiderà il paese alle olimpiadi di Tokyo 2020 con una nuova costituzione.
La vittoria del Jiminto è stata però amplificata dal sistema elettorale in larga parte uninominale, che gli ha assegnato 218 collegi. Nei collegi dove il Partito comunista e il Partito costituzionale democratico (Rikken minshuto) correvano uniti in una sfida uno contro uno con il Jiminto è finita 13 a 13. Inoltre, in molti dei collegi dove si sono divise, la somma dei voti delle sinistre è stata superiore a quella del partito di Abe. Il Partito della Speranza (Kibo no to) della governatrice di Tokyo Yuriko Koike – di centro-destra – era stato dato come possibile favorito in seguito alla schiacciante vittoria estiva nella capitale sul Jiminto. Ha però deluso molto in campagna elettorale e il risultato del nuovo partito è stato sotto le aspettative.
LA VERA SORPRESA è stata il Rikken minshuto, che ha raccolto la sinistra liberale imponendosi come secondo partito, il primo dell’opposizione. Il partito guidato da Yukio Edano, che ha svolto una campagna elettorale molto seguita nelle piazze e sui social media, ha visto eletti 55 dei suoi 78 candidati. Questo risultato «contro ogni aspettativa», spiega il professor Koichi Nakano dell’Università Sophia, «galvanizzerà l’opposizione alla revisione della costituzione».
IL MODELLO A CUI LA SINISTRA guarda è la prefettura di Niigata. Sulla mappa dei risultati elettorali è l’unico punto strappato dall’opposizione lungo la costa ovest del Giappone, per il resto tutta in mano al Jiminto: da Fukuoka a sud fino a Aomori a nord, passando per Yamaguchi – lo storico bastione del Jiminto e base di Shinzo Abe.
A Niigata era già suonato un campanello d’allarme per il Jiminto esattamente un anno fa, con l’elezione di un governatore sostenuto dalle opposizioni e oppositore della politica energetica nucleare del governo.
In queste elezioni politiche la cooperazione delle opposizioni ha dato i suoi frutti grazie a una partecipazione di 10 punti più alta del solito e vincendo così in una prefettura tradizionalmente di destra – fu base elettorale del primo ministro liberaldemocratico Kakuei Tanaka, figura chiave del dopoguerra e travolto a suo tempo dagli scandali.
LA DIRIGENZA del Partito comunista si è espressa su questa linea strategica di unità: quello che conta al momento è la vittoria della democrazia nel lungo termine. Il partito che ha fatto una campagna molto generosa ha subito un duro colpo, però, perdendo ben 9 rappresentanti. Proprio per favorire il fronte comune delle sinistre il Partito comunista aveva ritirato molti suoi candidati nei collegi uninominali.
La partecipazione alle elezioni è stata di poco superiore al 50%, il secondo peggior risultato del dopoguerra. Per Nakano, però, il fatto che non sia scesa sotto la metà degli elettori è da considerarsi comunque come un risultato in sé, se si considera che si è votato mentre un tifone colpiva il paese e che la formazione di due nuovi partiti all’ultimo minuto ha confuso gli elettori. «Se il Rikken minshuto riuscirà a consolidare la sua posizione e a lavorare sull’alleanza con il Partito comunista, il livello di partecipazione potrebbe aumentare significatamene in futuro», conclude Nakano.
LE RIFORME COSTITUZIONALI in senso militarista sono l’obiettivo di Abe per lasciare il suo marchio nella storia del paese. Non gli sarà comunque facile. Gli alleati del Komeito e alcune fazioni interne al suo partito vogliono coinvolgere l’opposizione, che è in parte condiscendente come nel caso del Kibo no to, ma che è in larga parte saldamente ancorata alla clausola costituzionale di pace. Se anche il procedimento si attivasse, Abe dovrebbe passare poi per un referendum popolare dall’esito tuttora incerto.
Se per il momento nulla cambia per il Jiminto di Abe, qualcosa cambia in Giappone. L’opposizione di sinistra ha riscoperto la forza e l’unità e si prepara alla battaglia per la costituzione e per la pace.

La Stampa 24.10.17
Xi e Abe, Il vento del nazionalismo soffia sull’Asia
di Stefano Stefanini

Tokyo risponde a Pechino. Nel manto di riti arcani, il 19° Congresso del partito comunista cinese incorona Xi Jinping nell’empireo finora riservato a Mao Zedong e, a mezza pensione, a Deng Xiaoping. Con un’elezione a sorpresa Shinzo Abe sbaraglia l’opposizione e si avvia trionfalmente ad un terzo mandato, senza precedenti nel Giappone del dopoguerra. Quanto poco penetrabili le procedure cinesi, tanto trasparenti le urne giapponesi. In comune, il risultato: entrambi i leader hanno stravinto.
Centralismo cinese e democrazia giapponese sono sistemi inaccostabili. La consacrazione di Xi è frutto di un’accurata preparazione e di una paziente accumulazione di potere; le dimensioni del successo di Abe erano invece inaspettate. Egli torna alla Dieta con una maggioranza di due terzi più per inettitudine dell’opposizione che per travolgente popolarità. Potrà proseguire la politica economica antirecessiva («Abenomics») che sta lentamente facendo uscire il Giappone dalla stagnazione. Soprattutto ha i numeri in Parlamento per la riforma della Costituzione pacifista. Le vie di Pechino e di Tokyo s’incrociano nel risveglio di assertività nazionale.
Parliamo delle due maggiori potenze dell’Asia-Pacifico, rivali storici, con un contenzioso territoriale, le isole Senkaku (o Diaoyutai), e profondamente diffidenti l’una dell’altra. Nelle sue tre ore e mezzo di discorso Xi Jinping non ha fatto mistero dell’ambizione cinese di essere (o tornare ad essere) «grande potenza» anche militare («di prima classe»). Finiti i tempi in cui Pechino chiedeva solo di essere lasciata in pace per crescere; adesso vuole riprendere il rango internazionale che le spetta.
Questa «nuova era» cinese, la terza dopo quelle di Mao e di Deng, solleva interrogativi alla Washington che pensa (qualcuno c’è ancora). L’Europa sembra troppo immersa nelle piccole diatribe catalane, britanniche, immigratorie, elettorali per riflettere. I vicini asiatici non hanno però dubbi; Pechino punta alla supremazia regionale: subordinarsi o resistere? In questo gioco di potere, non solo strategico-militare ma anche economico, riaffiorano anche brezze nazionaliste. Paesi come Cina, Corea, Vietnam, Giappone hanno una forte identità nazionale, cementata da cultura, storia, consenso politico. Ci vuole poco a mobilitarla.
L’Asia orientale è disseminata di micce, grandi e piccole, che un nonnulla può accendere: Corea del Nord, con missili e testate nucleari; Taiwan; il Mar cinese meridionale dove Pechino sta trasformando scogli in isole artificiali; persino le latenti tensioni con Hong Kong sono affiorate nel discorso di Xi. Non c’è un sistema di sicurezza collettiva come la Nato. L’equilibrio è sempre stato assicurato dalla presenza americana. Lo è tuttora, ma per quanto? Donald Trump ha iniziato la presidenza cestinando il Tpp (Partenariato Trans-Pacifico) e lasciando via libera alla Rcep (Regional Comprehensive Economic Partnership) targata Pechino. Con un’amministrazione Usa che ragiona nei termini utilitari di «America first» anziché di leadership, mondiale o regionale, bisogna pensare da soli alla sicurezza e alla stabilità.
Terza potenza economica mondiale, il Giappone è perno essenziale della stabilità regionale. E’ l’unico nell’area che abbia il potenziale industriale e militare per bilanciare crescita e modernizzazione delle capacità militari cinesi, promesse da Xi Jinping. Ma deve allentare i rigidi vincoli della Costituzione nipponica che limitano severamente operatività e utilizzo delle forze armate. Questo è quanto Abe vuole realizzare – e adesso ha la maggioranza per farlo.
Il ritocco costituzionale del pacifismo giapponese non innervosirà soltanto la Cina. L’intera regione ha la memoria lunga. La Corea non dimentica l’occupazione. A settant’anni dalla fine della guerra non c’è un trattato di pace con la Russia, causa la controversia sulle isole Kurili.
Sarebbe ingiustificato tacciare il premier giapponese di nazionalismo. Non è stato quello a rieleggerlo. A Tokyo, tuttavia, come a Pechino o a Seul, si respira oggi un’atmosfera di consenso e sensibilità nazionali che investono anche difesa e sicurezza. Sta al buon senso dei leader, a cominciare da Abe e Xi, tenerla sotto controllo; nel riformare la Costituzione, Tokyo deve rassicurare i vicini sulla propria vocazione difensiva. Sta anche agli Usa restare l’ago della bilancia nella regione. E magari non dare brutti esempi. Fra troppi «first» i conflitti diventano inevitabili.

Corriere 24.10.17
1917-2017 Da oggi in edicola con il quotidiano un libro di Silvia Morosi e Paolo Rastelli sulle cause e le conseguenze della sconfitta subita dal nostro esercitosul fiume Isonzo. Lo storico Gibelli: non vi fu alcuno «sciopero militare», i soldati lottarono ma si affermò l’idea che i «sovversivi» avessero minato la resistenza
Caporetto Fu un momento terribile Ma l’Italia riuscì a reggere
di Antonio Carioti

È passato un secolo, ma la disfatta subita dall’esercito italiano il 24 ottobre 1917 è un evento che persiste nella memoria collettiva, come sottolineano Silvia Morosi e Paolo Rastelli nel volume Caporetto , in edicola da oggi con il «Corriere della Sera». Lo ribadisce il professor Antonio Gibelli, autore di vari saggi sul Primo conflitto mondiale, il più recente dei quali è La guerra grande (Laterza, 2014). «I termini esatti di quanto avvenne restano nel vago, ma si ricorda tuttora un’emozione d’intensità straordinaria», dichiara lo studioso al «Corriere».
D’altronde i contorni della sconfitta rimasero oscuri anche cento anni fa, almeno nell’immediato: «Nelle prime due settimane dopo lo sfondamento austro-tedesco — ricorda Gibelli — si diffusero le notizie più contraddittorie, spesso inventate, che filtravano attraverso le maglie della censura e della propaganda. Come scrisse il grande storico francese Marc Bloch proprio riguardo alla Prima guerra mondiale, si pensava che tutto potesse essere vero, tranne le notizie ufficiali. Così all’emozione si aggiunse il mistero. Era chiaro che le nostre forze avevano subito una grave sconfitta, ma non se ne percepì la portata esatta, almeno fino a quando, dopo la ritirata, la linea della resistenza non si attestò sul Piave».
E il nemico venne fermato: «Sì, ma questo — nota Gibelli — non bastò per cancellare l’angoscia provata in quei giorni di panico, anche se poi la guerra terminò con la vittoria dell’Italia. Oggi nella toponomastica Caporetto non esiste più: si trova in Slovenia e si chiama Kobarid, un luogo dove la memoria della battaglia è modesta. Ma nella lingua italiana il nome proprio di quel centro abitato è diventato un sostantivo comune che si usa in modo proverbiale per indicare una vicenda terribile. È stata una Caporetto, si dice quando si verifica un clamoroso fallimento».
Quanto influì il bollettino in cui il comandante supremo, Luigi Cadorna, scaricava la responsabilità della disfatta su alcuni reparti «ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico»? Gibelli non ha dubbi: «Quelle parole ebbero un peso enorme, furono un momento chiave della crisi nazionale, anche se il governo intervenne per censurare e modificare il testo del bollettino. Passò comunque l’idea che i primi responsabili della sconfitta erano i soldati pavidi e poco patriottici, che avevano buttato le armi ed erano scappati, o addirittura avevano tradito. Si confermava così il pregiudizio verso le “classi pericolose”, quelle più umili, sospettate di un disfattismo sconfinante nella sovversione».
C’era qualcosa di vero? «Ben poco. Non vi fu alcuno “sciopero militare”. Le unità militari in prima linea fecero il loro dovere, ma furono travolte da forze nemiche superiori e meglio organizzate. Dopo la rottura del fronte ci furono episodi di dissolvimento dei reparti e fuga disordinata, di sbandamento e anche di saccheggio. Si racconta di cantine dove i soldati foravano le botti per spillare il vino o di negozi svaligiati in un clima carnevalesco. Ma tutto ciò fu una conseguenza, non certo la causa, della rotta di Caporetto».
Tuttavia il bollettino venne creduto: «La voce innescata da Cadorna — ricorda Gibelli — s’inseriva in clima generale di stanchezza per la guerra, se non di ribellione dei soldati, che impauriva molti. In Russia l’esercito era in disfacimento e i bolscevichi si apprestavano a prendere il potere. Cresceva lo spettro rivoluzionario, alimentato dall’esasperazione per un massacro senza fine».
Però Cadorna venne sostituito, l’esercito resse e si avviò un’inchiesta su Caporetto: «Con l’arrivo di Armando Diaz al comando supremo, migliorò il trattamento dei soldati e si presero misure importanti per sollevarne il morale. La commissione d’inchiesta su Caporetto, operativa dal gennaio 1918 alla primavera del 1919, fece un lavoro egregio, raccogliendo documenti e testimonianze in gran quantità. Ne uscì smentita la tesi dello sciopero militare, mentre emersero le responsabilità di alcuni alti ufficiali. Ma l’esito della guerra finì per mettere la sordina all’inchiesta: ad esempio si evitò di criticare Pietro Badoglio per la mancata azione delle sue artiglierie a Caporetto, visto che in seguito era stato il vice di Diaz nei momenti decisivi della resistenza sul Piave e della vittoria».
Poi, aggiunge Gibelli, venne il fascismo: «Quando il generale Angelo Gatti, vicino a Cadorna, gli disse che voleva ricostruire le vicende di Caporetto, Benito Mussolini gli rispose che non era tempo di storia, ma di miti. Il Duce fece cadere nel nulla l’inchiesta e anzi nominò Cadorna maresciallo d’Italia. Il fascismo aveva tutto l’interesse a non fare chiarezza per proiettare sui suoi avversari politici l’immagine del nemico interno, del disfattismo che prima aveva causato la sconfitta di Caporetto e che poi, secondo il mito ulteriore della “vittoria mutilata”, denigrava i combattenti e impediva all’Italia di cogliere i frutti dei suoi sacrifici».
Qui emerge anche l’ambiguità della reazione italiana dopo la disfatta: «Il Paese si mobilitò intorno all’esercito, visto che la guerra da offensiva era diventata difensiva: si trattava di fermare l’invasore. Ma questo slancio patriottico conteneva il germe dei conflitti futuri: le sue energie erano rivolte anche contro coloro che si erano opposti all’intervento nel 1915 ed ora erano accusati di tramare ai danni della nazione».
Giuseppe Prezzolini scrisse che Caporetto aveva giovato all’Italia, rendendola consapevole dei suoi limiti, mentre il troppo facile successo di Vittorio Veneto aveva fomentato illusioni nocive. «È una lettura un po’ autodenigratoria — risponde Gibelli — che non mi sento di avallare. Considero un errore vedere Caporetto come il paradigma e il riassunto della nostra storia. L’Italia liberale dimostrò una notevole capacità di reggere allo sforzo bellico, ben superiore a quella che ebbe il fascismo nella Seconda guerra mondiale. E anche se l’ingresso nel conflitto fu una forzatura e la vittoria fu enfatizzata, non minimizzerei la capacità del Paese di affrontare una prova così ardua».

Corriere 24.10.17
Gli errori dei comandi Le truppe abbandonate
di Lorenzo Cremonesi

Pur sapendo che il nemico avrebbe attaccato
Cadorna sottovalutò gravemente il pericolo
Fu una sconfitta. Anzi, una clamorosa disfatta. Un capovolgimento epocale, tragico per l’Italia, avvenuto in poche ore. Lo sapevamo già. Ma è bene ripeterlo. Caporetto fu davvero una Caporetto: l’esercito in rotta, i comandi confusi, il capo supremo Luigi Cadorna che getta le responsabilità sui soldati senza assumersi le proprie, una ritirata disordinata, intere unità abbandonate a se stesse. In meno di due settimane, a partire dalle prime ore del 24 ottobre 1917, si piangono oltre 40 mila tra morti e feriti, 280 mila prigionieri, più di 350 mila sbandati. Senza contare le migliaia di cannoni, le armi leggere di ogni tipo, i veicoli, le munizioni, i depositi di cibo e vestiario, andati perduti o presi dal nemico. Quasi la metà dell’intero apparato militare italiano nel suo complesso svanito, fuori gioco. Il fronte arretra di oltre 150 chilometri, sino quasi a Venezia.
Terrà il Piave? Sognavamo Trento e Trieste, si mirava a Vienna, ma scopriamo che Cadorna valuta di arretrare al Po. A Roma c’è chi pensa per un attimo a una pace separata, in effetti alla resa. E non ci sono scusanti, neppure con il senno delle ricerche storiche posteriori, dei vecchi diari scovati nei cassetti e dei fondi d’archivio emersi cento anni dopo. Non serve insistere su isolati episodi d’eroismo, non serve enfatizzare alcuni limitati scontri a fuoco che crearono certo problemi al nemico, ma ebbero l’unico effetto di ritardare di poco l’avanzata austro-tedesca.
Serve invece sottolineare quanto sia stato deleterio il ruolo della stampa allineata. I nostri giornalisti cantavano in coro la retorica della «bella morte», inventavano vittorie e successi mai avvenuti, gonfiavano il numero dei caduti nemici, edulcoravano quello dei nostri, magnificavano i «corpi bruniti e tonici» irrobustiti dalla vita in prima linea all’aria aperta, ma tacevano le difficoltà, sorvolavano sull’olezzo dei cadaveri imputriditi nella terra di nessuno, sul cibo scadente, il gelo d’inverno, l’arsura d’estate.
Le «barzinate» (dal nome dell’inviato più noto, Luigi Barzini) illudevano il grande pubblico a casa e facevano imbestialire gli ufficiali e i soldati scolarizzati che dalle trincee al fronte leggevano e bestemmiavano contro tante palesi falsità. Poi, però, quegli stessi reporter nelle lettere ai direttori e alle loro famiglie raccontavano verità che la censura non poteva tollerare e loro si erano imposti di non dire in pubblico pur di restare famosi e venire stampati in prima pagina: il morale dei soldati a pezzi, l’impreparazione dei comandi, la pochezza di risultati nelle undici offensive sull’Isonzo a fronte degli immensi sforzi, la follia delle cariche all’arma bianca contro i nidi di mitragliatrice, utili solo per sacrificare senza senso migliaia di giovani vite. Questo e tanto altro non scrissero gli «inviati di guerra». Con il risultato che i comandi militari li disprezzavano, ma al tempo stesso li utilizzavano volentieri per legittimarsi a «eroi» nazionali. E quello ancora più grave che mancò una coscienza critica, non ci fu alcun pungolo al cambiamento.
Eppure, i comandi italiani sapevano quasi tutto. Come ben sottolineano Silvia Morosi e Paolo Rastelli nel loro Caporetto , lo stesso Cadorna il 23 ottobre, poche ore prima dell’attacco nemico, scrive al ministro della Guerra Gaetano Giardino, e per conoscenza al re Vittorio Emanuele III, una «stupefacente» lettera (l’aggettivo è loro), in cui «il generalissimo prevede con estrema precisione quanto sta per succedere». In poche parole: le truppe scelte tedesche, smobilitate dal fronte orientale dopo lo scoppio della rivoluzione russa, si sono affiancate agli austriaci e hanno l’ordine di agire in modo indipendente: penetrare nel profondo delle retrovie italiane e avanzare senza sosta. Il loro attacco sarà preceduto da vasti bombardamenti con le armi chimiche. Si concentrerà nella zona di Caporetto, mirando alla dorsale del Kolovrat e alla linea Matajur-Monte Mia. Sono settimane che i disertori nemici e l’intelligence italiana rivelano l’imminenza dell’attacco.
Cadorna conosce persino l’ora dell’inizio dei bombardamenti nemici. Ma non fa nulla, non prende provvedimenti, non corregge le scelte del comandante della 2ª armata, il generale Luigi Capello, che pure da settembre non aveva obbedito al suo ordine di predisporre le truppe in assetto difensivo. Anzi, ancora Cadorna ordina agli ufficiali di tranquillizzare la truppa perché le maschere antigas in dotazione sono le «migliori esistenti». E infatti muoiono a migliaia nelle loro posizioni nel fondovalle della conca di Caporetto.
Il tenente Carlo Emilio Gadda ben racconterà nel Giornale di guerra e di prigionia l’incubo della sua compagnia d’artiglieria sul Monte Nero, che per tutta la giornata del 24 ottobre resta isolata, senza ordini, intuendo che fatti drammatici stanno avvenendo nel fondovalle, ma senza sapere che fare. Quindi la ritirata verso l’Isonzo tra gruppi di sbandati che gettano i fucili e non sanno come sottrarsi alla cattura.
Al suo racconto cupo, intristito dal senso di impotente passività, fa da contraltare quello vitale e attivo che traspare dai Diari del tenente tedesco Erwin Rommel, nato nel 1891, due anni prima di Gadda, che con la sua unità di assaltatori ha l’ordine di sfondare verso Udine, passando di corsa dal Kolovrat e dal Matajur. Sono due modi opposti di concepire la guerra e il rapporto tra soldati e comandi. Quello italiano gerarchizzato, immobile, burocraticamente lento. Il tedesco veloce, dinamico, volto a valorizzare le scelte degli ufficiali inferiori sul campo.
Cadorna sarà esonerato il 9 novembre. Ancora nel pieno della sconfitta. E mai decisione fu tanto appropriata. Tanto che appare curioso qualsiasi tentativi di riabilitarlo, anche se cento anni dopo.

La Stampa 24.10.17
Cartoon in campo contro la vergogna delle leggi razziali
I big del fumetto preparano una mostra a Torino per gli ottant’anni dalla promulgazione
di Ariela Piattelli

Se l’illustrazione fu usata per la propaganda delle leggi razziali fasciste, che calpestarono i diritti degli ebrei italiani, oggi è la stessa illustrazione a disegnare un monito per le nuove generazioni. Così il dramma delle leggi razziali si racconta ai ragazzi con la matita dei loro beniamini. Hanno aderito in massa, oltre cento autori italiani di fumetti e di animazioni, alla call di Cartoons on The Bay, il festival internazionale dell’animazione cross-mediale e della tv dei ragazzi organizzato da Rai e Rai Com che sarà a Torino dal 12 al 14 aprile 2018 (al Museo Nazionale del Risorgimento Italiano): «1938 - 2018 Ottant’anni dalle leggi razziali in Italia. Il mondo del fumetto e dell’animazione ricorda l’orrore dell’antisemitismo» è il titolo della mostra, organizzata in collaborazione con Arf, il salone del fumetto di Roma, in cui saranno presentati i fumetti, le clip di animazioni e le opere multimediali create appositamente per l’esposizione dalle grandi firme del disegno italiano. L’idea è venuta a Roberto Genovesi, direttore artistico della manifestazione, in un’epoca in cui si cercano nuovi linguaggi per raccontare e consegnare ai ragazzi la memoria della storia. «Cartoons on the Bay è un festival in cui si racconta l’universo giovanile e tutti i suoi linguaggi - spiega Genovesi -. La sfida di poter utilizzare il linguaggio del cartone animato e del fumetto per affrontare argomenti seri e drammatici è sempre appartenuta alla manifestazione e con l’anniversario degli 80 anni dalle leggi razziali ho pensato di coinvolgere gli autori italiani, che hanno aderito in centinaia. Si sono stretti tutti attorno a questo tema».
Tra gli autori ci sono Bruno Bozzetto, il più grande autore di cartoni animati italiani, Giorgio Cavazzano, il maestro della Disney Italia, Roberto Recchioni, curatore di Dylan Dog definito «la stella rock del fumetto». «Il mio interesse verso il disegno è stato sin da subito esprimere un punto di vista in quello che vedevo, dal mio primo film - spiega Bozzetto -. Continuo su questa strada: le leggi razziali furono una follia perché folle è l’idea del “diverso”. Mi interessava partecipare alla mostra con un disegno perché credo nella sua forza di raccontare la storia». Tra i fumettisti c’è chi ha conosciuto la tragedia delle leggi razziali contro gli ebrei e le loro conseguenze: «Io sono nato a Venezia, la mia casa era vicino al ghetto - racconta Cavazzano - ricordo i racconti terribili dei genitori dei miei amici ebrei, che subirono le persecuzioni e anche le leggi razziali. Erano professori di università che persero il lavoro, perché fu proibito loro insegnare. Vissero una vita diversa rispetto a quella che avrebbero potuto vivere. Trovo giusto attraverso l’immagine documentare ciò che è stato. La matita, i colori, il disegno, comunicano in modo emotivo quel periodo e questo arriva al cuore dei giovani. Penso al grande Art Spiegelman e all’impatto che ebbe e che tuttora ha il suo Maus».
Il disegno di Cavazzano è ispirato ad un ricordo specifico: «Un giorno vidi in tv, molti anni fa, l’immagine di un bambino ebreo che mostrava il numero che gli tatuarono sul braccio nel campo di sterminio. Ciò mi colpì moltissimo, per questo l’ho ricreato». La mostra è un percorso multimediale che parte da una sezione statica del fumetto, con contributi dei bambini delle scuole primarie e studenti degli istituti specializzati, ad una sezione dinamica, con clip dei maestri dell’animazione, come Maurizio Forestieri, Alessandro Rak e Guido Manuli, passando per tutti i generi, dal western e l’horror, arrivando al fantasy. «Io sto lavorando ad un pezzo analogico su carta e china - anticipa Recchioni -. La china si presta al tema del contrasto, tra la ragione e l’oscurantismo delle leggi razziali. Noi artisti abbiamo il compito di testimoniare contro l’assurdità delle leggi razziali e contro ogni forma di razzismo. L’arte è un linguaggio e va declinato per la via giusta, al servizio di qualcosa che abbia un senso».

La Stampa 24.10.17
1938, le vite spezzate degli ebrei italiani mostrano il vero volto del fascismo
di Amedeo Osti Guerrazzi

Che nel 1938 Mussolini abbia deciso di perseguitare gli ebrei con delle leggi che li escludevano dalle scuole, da quasi tutti i lavori e, in generale, dalla società, è cosa nota. Gli effetti sulle persone di queste leggi razziste e infami è meno noto. Ancora oggi si sente spesso dire che Mussolini non era un sanguinario come Hitler, e quella fascista era stata una dittatura all’acqua di rose. Questa leggenda storica (oggi si direbbe «fake news», tempo addietro si diceva baggianate), viene ripetuta non soltanto a livello popolare, ma anche da libri (alcuni anche recentissimi) che vorrebbero essere scientifici.
La storia è nota, ma è forse opportuno ricordarla, ancora una volta, attraverso le vicende di una famiglia, per capire cosa ha voluto dire, per dei cittadini italiani di religione ebraica, essere improvvisamente spogliati del loro lavoro, del loro diritto all’istruzione, del loro posto nella società.
Giulia Spizzichino era una ragazzina ebrea romana, nata nel 1926 e cresciuta nel quartiere di Testaccio da una famiglia di piccoli commercianti di tessuti. Aveva quattro fra fratelli e sorelle e la vita, per un nucleo così numeroso, era difficile. Soltanto nei tardi Anni Trenta, grazie al duro lavoro dei genitori, gli Spizzichino raggiunsero una modesta agiatezza. Come tanti, anche Giulia indossava le divise delle organizzazioni giovanili del Partito fascista, andava alle parate, partecipava alle cerimonie. Era una famiglia normale, quella degli Spizzichino, perfettamente integrata nella società dell’epoca. Non erano neanche particolarmente religiosi. Rispettavano le feste ebraiche, almeno quelle più importanti, ma si scambiavano regali all’Epifania e festeggiavano il capodanno cristiano.
Eppure anche per Giulia l’apertura dell’anno scolastico 1938/1939 fu un trauma. «L’elemento personale che associo alle leggi razziali - ha scritto nel suo libro La Farfalla impazzita - sono le lacrime di mia madre, il brutto giorno in cui io venni allontanata dalla scuola. Lì per lì mi colpirono molto, non l’avevo mai vista piangere».
Fu un trauma che tutti i testimoni dell’epoca ricordano con particolare amarezza. Il punto di svolta nelle loro vite. Ma quello che i ragazzi ebrei ancora non sapevano, ma impareranno molto presto, è che si trattò solo del primo passo. A novembre, dopo la cacciata dalle scuole e dalle università, arrivarono le leggi antiebraiche vere e proprie. Migliaia di persone furono costrette a lasciare il lavoro, l’esercito, il Partito. Molti emigrarono, altri tentarono la difficile strada della «discriminazione». Alcuni, non pochi, si toglieranno la vita.
Ma ciò che fece più male, negli anni successivi, fu il progressivo isolamento dalla società. Vicini di casa, colleghi, amici o presunti tali, levavano il saluto agli ebrei, ormai considerati degli appestati, cambiavano marciapiede quando gli incontravano per strada, fingevano di non vederli. Altri, i peggiori, approfittarono delle leggi per prenderne i posti nel lavoro.
Nonostante le leggi, gli Spizzichino continuarono ad avere una vita quasi normale. Cesare, il padre, riuscì a mantenere in piedi il suo negozio fino a quando, nel 1941, a causa di un atto di generosità verso dei correligionari in difficoltà, fu inviato al confino. «Ho visto mio padre allontanarsi in mezzo a due fascisti, una scena che nel mio cuore è come se fosse accaduta ieri».
Fu una vita difficile, difficilissima quella degli Spizzichino durante la guerra. Ma il peggio arrivò con l’occupazione tedesca. Privati delle tessere per il cibo, il padre fu costretto a vendere ciò che restava della merce del suo negozio clandestinamente. Poi, in autunno, la famiglia decise di fuggire fuori Roma. Ma dopo poco anche in provincia la situazione si fece troppo pericolosa. Gli Spizzichino dovettero tornare a Roma, nascondendosi in via Madonna dei Monti dove, per colpa di un collaboratore italiano dei nazisti, furono scoperti. Giulia, assieme al padre, riuscì a sfuggire alla retata, ma buona parte della famiglia venne catturata. I maschi furono portati nel carcere di Regina Coeli e dopo tre giorni uccisi nella strage delle Fosse Ardeatine.
Giulia scampò alla razzia, ma tutto il resto della sua vita è stato segnato da questo lutto terribile. Alla fine del secolo scorso, ha avuto un ruolo fondamentale nel processo ad Erich Priebke, uno dei carnefici delle Ardeatine.
Le leggi antiebraiche sono state un vulnus a secoli di civiltà giuridica italiana, hanno causato enormi sofferenze a migliaia di cittadini italiani colpevoli soltanto di andare il sabato in sinagoga invece che la domenica a messa, ma soprattutto hanno creato quel clima orribile di ostilità e diffidenza nei confronti di una minoranza che ha facilitato enormemente la persecuzione delle vite tra il settembre 1943 e l’aprile del 1945. Hanno avvelenato un popolo, il nostro, segnando una macchia indelebile di vergogna per il nostro Paese.

il manifesto 24.10.17
Il «discorso di troppo» di ogni filosofia
Michel Foucault. Tradotto «Soggettività e verità», a cura di Pier Aldo Rovatti per Feltrinelli. Tra il 1980 e il 1981, un ciclo di lezioni al Collège de France su testi tra il IV secolo a.C. e il II secolo d.C. In continuità con la sua storia della sessualità, piano iniziato nel 1976 con «La volontà di sapere». Una costellazione di atti sessuali, «aphrodisia» per i greci, «veneria» per i latini. Il mondo greco-romano getta le condizioni per l’invenzione della «verità del desiderio»
Jean-Paul Sartre, Gilles Deleuze e Michel Foucault
di Massimiliano Nicoli e Luca Paltrinieri

Che cos’è un soggetto politico? Che cosa fa di noi, presi singolarmente o collettivamente, dei soggetti capaci di azione nel mondo? La risposta del liberalismo politico, da Locke a Smith fino a Cavell e Nozick, è che il soggetto è in primo luogo un individuo che possiede, in sé, le risorse per farsi azione nel mondo. La politica comincia con l’etica, con la costruzione di sé a partire da sé, e solo dopo incontra la questione dell’altro e della collettività.
La relazione con l’altro è espulsa dal cuore della soggettivazione, che si presenta come un rapporto trasparente e autosufficiente del sé con sé. Nessuno più di Michel Foucault ha visto questo paradosso della padronanza di sé implicito nella mitologia tutta «occidentale» della soggettività. Per lui il soggetto non poteva essere un nucleo di volontà autosufficiente, ma sempre, in primo luogo, relazione. Foucault ha scelto, fin dal primo dei suoi corsi al Collège de France, nel 1970-71, Lezioni sulla volontà di sapere, di indagare sperimentalmente l’ambito delle relazioni costitutive della soggettività a partire dal ruolo politico che vi svolge la verità: verità ambigua e controversa di un sapere medico e psichiatrico dell’anima, verità di una «natura sociale» dell’uomo che permette di governarlo, verità oscura e pericolosa, nascosta nel più profondo di un sé che bisogna imparare a decifrare per governare gli altri e condurre se stessi senza perdersi nel peccato e nella tentazione.
IL CORSO DEL 1981, Soggettività e verità, ora tradotto in italiano da Deborah Borca e Carla Troilo (a cura di Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, pp. 352, euro 35) è uno snodo essenziale di tale progetto, e permette di gettare un ponte tra il corso del 1980, Del governo dei viventi, e quelli successivi, dall’Ermeneutica del soggetto a Il coraggio della verità, già noti ai lettori italiani. Se il corso dell’anno precedente attaccava il mito del soggetto della conoscenza situandone la nascita all’interno del problema del governo degli individui, nel 1981 è il soggetto del desiderio sessuale che viene passato al vaglio della genealogia, attraverso una manovra di arretramento storico nel I e II secolo, in epoca ellenistica e romana, «nel passaggio fra ciò che chiamiamo un’etica pagana e una morale cristiana».
In questo senso le lezioni proseguono il progetto di una storia della sessualità, cominciato nel 1976 con La volontà di sapere, e centrato sull’indagine dell’esperienza moderna della sessualità, di quella cristiana della carne, e dell’esperienza antica degli aphrodisia (i piaceri del sesso).
Il regime classico degli aphrodisia, infatti, era strutturato secondo un sistema di valorizzazione differenziata dei comportamenti che, invece che definire un insieme di interdetti e divieti, organizzava positivamente la «percezione etica» degli atti sessuali. Si trattava principalmente di due principi, il «principio di attività» – che valorizza la penetrazione e squalifica ogni forma di passività –, e il «principio di isomorfismo socio-sessuale», secondo cui la forma del rapporto sessuale coincide con la gerarchia socio-politica esistente.
IL SOGGETTO di questa economia degli aphrodisia era naturalmente il maschio libero e attivo, per cui era apprezzabile il matrimonio, segno e strumento di prosperità, così come il rapporto sessuale con uno schiavo o una serva, in quanto inferiori, ma non con una donna sposata, in quanto appartenente a un altro maschio.
Ciò che accade in epoca ellenistico-romana è che per una serie di processi storici, politici e sociali, la pratica, dapprima elitaria, del matrimonio si generalizza e diviene istituzione pubblica. La percezione etica degli aphrodisia si riconfigura nell’ambito della centralità della relazione coniugale, attraverso una localizzazione esclusiva della sessualità al suo interno, una devalorizzazione di ogni piacere sessuale e la costituzione di un’etica del matrimonio fatta di fedeltà, affetti reciproci e virtù coniugali: è l’invenzione della coppia.
CIÒ PROVOCA, oltre alla confisca dell’eros da parte della relazione coniugale, la rottura del «continuum socio-sessuale» che permetteva al maschio di imporre ovunque la propria sessualità, e conseguentemente la sua spaccatura in due forme di virilità: quella pubblica, che dovrà essere desessualizzata, e quella privata e coniugale, che dovrà essere continuamente sorvegliata, così da padroneggiare non solo i comportamenti, ma anche ciò che li precede, l’epithymia, il desiderio.
Nell’ambito dei doveri dell’uomo sposato che si autocontrolla, si compie il passaggio da una soggettivazione dell’attività sessuale in forma di atti a una «soggettivazione sotto forma di rapporto permanente di sé con se stessi», ed emerge il desiderio come «principio di oggettivazione/soggettivazione degli atti sessuali».
Il mondo greco-romano ha posto le condizioni per l’invenzione della verità del desiderio, preparando il terreno su cui il cristianesimo impianterà le tecniche di confessione e l’esperienza della carne.
Queste tesi storiche sono state espresse in seguito, in una forma più compiuta, nel terzo volume della Storia della sessualità, La cura di sé. La vera sorpresa del corso è piuttosto l’attenzione di Foucault per un certo tipo di «gioco di verità» connesso all’avvento del matrimonio come istituzione pubblica: il discorso elogiativo della sessualità coniugale tenuto dai moralisti, dai direttori di coscienza, dai filosofi, per lo più di scuola stoica.
È UN DISCORSO di verità che fa parte della letteratura sulle arti di vivere e di condurre se stessi, una letteratura che ha storicamente perso la sua autonomia per essere integrata nella formazione professionale e nella pedagogia (e infine nel «management di sé», potremmo dire oggi). Foucault si chiede quale sia la funzione di un discorso che esalta i doveri matrimoniali se nella società greco-romana, nel reale – come attestano gli storici –, il matrimonio e la sua regola erano già divenuti centrali: perché tradurre in una veridizione qualcosa che era già acquisito nei comportamenti reali?
Se certamente non è stato il discorso a determinare i processi storici, tuttavia la sua esistenza, il suo giungere al reale come evento, non si spiega in termini di rispecchiamento delle pratiche reali o di loro mistificazione ideologica. Il reale, di per sé, non reclama l’esistenza di un discorso che pretenda di dire il vero su questo reale, o di nasconderlo, o di razionalizzarlo. Le arti di vivere che prescrivono ai soggetti la trasformazione della propria esperienza di sé in relazione a una parola vera sono un «discorso di troppo», inutile – come ogni gioco di veridizione – rispetto alla presa che permette sul reale, ma efficace in termini di effetti di soggettivazione.
COME NEL CASO della follia, del crimine, o delle pratiche di governo, è l’inserzione dei giochi di verità sulle pratiche umane il luogo in cui vanno cercati gli effetti dei discorsi veri: in questo caso, quel luogo è il bios – la vita come soggettività e come rapporto con se stessi. Quei supplementi di verità che sono i discorsi filosofici sul matrimonio si presentano come technai peri ton bion, «tecniche di sé», procedure di soggettivazione che si incaricano di accompagnare il soggetto nella trasformazione del suo rapporto con se stesso, in modo che possa abitare e praticare il nuovo codice matrimoniale cambiando la percezione etica dei propri comportamenti sessuali.
QUAL È LA POSTA IN GIOCO politica di questo «discorso di troppo»? Foucault sembra suggerire che la filosofia, ogni filosofia, è sempre un «discorso di troppo» che appunto non determina né rispecchia la realtà, ma che si trova di fronte a un’alternativa: o essa funziona come un gioco di verità che permette al soggetto di adeguarsi alla morale dominante, ovvero, oggi, il credo liberale nel primato indiscutibile di un «sé» capace di determinarsi liberamente nel labirinto infinito delle relazioni di sé con sé; oppure la filosofia si definisce come una genealogia inquieta della soggettivazione in quanto processo costitutivamente preso in un insieme di relazioni politiche, e quindi asimmetriche, ineguali e non reciproche con gli altri.
Più che prescrivere delle buone pratiche di soggettivazione etica, essa disarticola la triade individuo/soggetto/sé per dissolvere l’illusione del sé eroico e performativo della società neoliberale. In questo senso, Soggettività e verità ci convoca a un’esperienza veramente politica e ci ricorda come la trasformazione della soggettività non possa essere scollegata da quella dei sistemi di valorizzazione differenziata dei comportamenti a cui rinviano tutte le morali, e che non cessano di interpellare un soggetto che si crea – da solo – in relazione a un’idea più o mena esplicita di padronanza individuale.

Il Fatto 24.10.17
Lutero e il nazismo. Soltanto coloro che non hanno dubbi vivono felici
di Anna Belli

Scrivo in merito all’articolo di Paolo Isotta “La stretta parentela tra Lutero e Hitler” pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 18 ottobre 2017, che riconosce, bontà sua, che la Riforma di Lutero “modificò la storia del mondo”. Poi l’articolo diventa sempre più caotico: taccia la Riforma di fanatismo; come se non si rendesse conto che, all’epoca, da parte cattolica c’era anche molto fanatismo.
Continua con argomentazioni così disordinate che ci vorrebbe troppo tempo per dipanarle e spiegare perché sono inesatte.
Segnalo solo due perle: l’idea che la Controriforma abbia portato a una “fioritura artistica d’incommensurabile valore: il luteranesimo (e non parliamo dell’ancor più fanatico calvinismo) non riesce a liberarsi dall’idea che l’arte abbia essenza peccaminosa”.
Paolo Isotta è musicologo; stupisce che abbia potuto scrivere queste parole chi conosce senza dubbio Schütz, Buxtehude, Bach, per nominare i primi che vengono in mente. La seconda perla è alla fine, quando parla del luteranesimo come radice del nazismo, citando soprattutto filosofi a riprova della sua tesi.
A quella lista di nomi, si può ribattere citando Adriano Prosperi, Heinz Schilling e Giancarlo Pani, che in tempi più vicini a noi si sono occupati e si occupano di Lutero e della Riforma con approcci scientifici differenziati e fondati.
In questo 2017, anno della Riforma, da luterana italiana sono rimasta piacevolmente sorpresa sia dalla quantità di volte in cui i mezzi di comunicazione si sono occupati di Lutero e della Riforma sia dalla qualità media, alta, con cui l’hanno fatto.
Purtroppo, l’articolo di Paolo Isotta fa parte degli articoli che abbassano la media.
Sono già in programma altri miei articoli su la musica e il luteranesimo. Quanto al resto, le certezze, come quelle della firmataria della lettera, rendono felici; e io invidio tanta felicità.

Corriere 24.10.17
«I ricchi evitarono il fronte» È sul Vietnam l’ultimo duello tra McCain e la Casa Bianca
di G. Sar.

WASHINGTON Nel 1971 John McCain iniziava il suo quarto anno di prigionia nel carcere storico di Hoa Lo, soprannominato l’Hanoi Hilton. In quello stesso anno Donald Trump si trasferiva a Manhattan e cominciava a costruire i suoi di alberghi, quelli veri. Il futuro presidente aveva scansato la chiamata obbligatoria alle armi, presentando un certificato medico di «inidoneità». È una cosa che proprio non va giù all’ottantunenne senatore dell’Arizona. In un’intervista al canale Abc , McCain ha detto di non poter considerare Trump un «draft dodger», un renitente alla leva. Ma l’attacco è pesante: «Il sistema era fatto così. Venivano arruolati i ragazzi provenienti da famiglie con i redditi più bassi, mentre i più ricchi trovavano sempre un dottore che diagnosticava uno “sperone osseo”». Guarda caso è proprio la giustificazione che si legge nell’esenzione dal servizio concessa a Trump.
È una polemica che torna periodicamente negli Stati Uniti. Nella lista di chi è rimasto a casa ci sono personalità che poi hanno fatto parte dell’establishment del Paese: George W.Bush, Dick Cheney, Mitt Romney, Rudy Giuliani, Bill Clinton che si aggregò ai corpi di addestramento volontari.
Ma a McCain, ora, preme marcare la differenza antropologica, prima ancora che politica con Donald Trump. L’anno scorso il costruttore aveva preso in giro l’ex pilota della Marina, abbattuto nel 1967, quasi linciato dai vietcong e liberato solo nel 1973. «Non è un vero eroe, io preferisco quelli che non si fanno catturare», aveva detto l’allora candidato repubblicano.
McCain aveva già cominciato a marcarlo in modo asfissiante su ogni tema. E in questo primo anno di governo, il senatore ha affossato, praticamente da solo, la riforma sanitaria e ha costantemente criticato la politica estera della Casa Bianca, con qualche eccezione, come l’appoggio alla linea dura sull’Iran.
Il 16 ottobre scorso, ha sintetizzato con una formula quella che considera la contraddittoria e confusionaria stagione di Trump: «Una specie di nazionalismo spurio, cotto a metà da gente che si preoccupa di cercare sempre un capro espiatorio invece di risolvere i problemi».
A metà luglio si venne a sapere che McCain era stato colpito da un tumore al cervello. Trump gli mandò un messaggio: «Torna presto, ci manca la tua voce burbera». McCain è tornato e ha ripreso il suo posto da outsider . Ieri è intervenuto anche sul caso di La David Johnson, il soldato ucciso in Niger. Da giorni Trump è coinvolto in un’aspra polemica con la moglie del militare, Myeshia Johnson, e la parlamentare democratica Frederica Wilson. «Ma non dovremmo accapigliarci su un coraggioso americano che ha perso la sua vita», firmato McCain.


Il Fatto 24.10.17
Ultima follia da ultrà laziale: Anna Frank vestita in giallorosso
Alcuni tifosi biancocelesti hanno lasciato degli adesivi antisemiti nel settore della Roma. Ora la squadra romana rischia di dover disputare dei match a porte chiuse
Ultima follia da ultrà laziale: Anna Frank vestita in giallorosso
di Vincenzo Bisbiglia

Una decina di adesivi a chiaro sfondo antisemita, appiccicati a un vetro dello Stadio Olimpico, e la tifoseria della Lazio finisce di nuovo al centro delle polemiche. Domenica sera, durante la gara di campionato fra i biancocelesti e il Cagliari, qualcuno ha attaccato in Curva Sud alcune “figurine” raffiguranti un fotomontaggio di Anna Frank con la maglietta della Roma; sulla stessa lastra divisoria c’erano anche altri adesivi, con le scritte “Romanista Aronne Piperno”, “Romanista ebreo” e un altro paio di figure con il logo degli Irriducibili, il gruppo ultras più rappresentativo nella curva laziale.
La Nord, che solitamente ospita i sostenitori biancocelesti, era stata squalificata dal giudice sportivo in seguito agli ululati razzisti eseguiti da una parte della tifoseria ai danni di due giocatori del Sassuolo, durante l’ultimo match casalingo sostenuto dalla squadra di Simone Inzaghi. Per l’occasione, la società aveva dato la possibilità agli abbonati di assistere ugualmente alla partita, entrando al prezzo simbolico di 1 euro, ma in Curva Sud, ovvero il settore da sempre “casa” del tifo giallorosso. Iniziativa che avrebbe dovuto ripetersi – a questo punto il condizionale è d’obbligo – anche per l’incontro con l’Udinese.
Evidentemente, vistosi catapultato nel fortino avversario, qualcuno ha reputato opportuno recuperare il fotomontaggio che già indignò mezza Europa nel 2013, ridando vita al disgustoso sfottò che adesso rischia seriamente di penalizzare lo straordinario avvio di stagione di Immobile e compagni. Proprio il carattere recidivo dell’iniziativa, infatti, potrebbe pesare sul giudizio della Procura federale della Figc, che sta vagliando l’episodio, con sanzioni che in questi casi vanno dalla disputa di alcuni match a porte chiuse, alla squalifica del campo fino addirittura alla penalizzazione in classifica. Secondo quanto apprende Il Fatto da fonti interne alla Questura di Roma, in realtà, quanto accaduto andrebbe ricondotto all’iniziativa di qualche singolo, o comunque di poche persone, anche in relazione ai pochi adesivi rinvenuti.
Non è un caso, tra l’altro, che sia stata mobilitata la polizia scientifica, nel tentativo di risalire i responsabili, poiché gli steward non avrebbero segnalato nulla alle forze dell’ordine. Chi indaga, tuttavia, non esclude che dietro l’apparente “bravata” possa nascondersi una spaccatura all’interno della Curva Nord, un piccolo gruppo ostile agli Irriducibili, i quali già dalla scorsa stagione hanno deciso di sospendere l’aperta contestazione al presidente della Lazio, Claudio Lotito, e sostenere la squadra allo stadio, timore condiviso anche dalla Ss Lazio, che attraverso il suo portavoce parla di “azione votata a danneggiare la squadra”; e poi ha aggiunto: “Alle 12 una delegazione della Lazio, della quale farà parte anche il presidente Claudio Lotito, porterà una corona di fiori alla sinagoga di Roma”. Dopo il match con il Sassuolo, infatti, e in vista della gara di coppa contro il Nizza di Mario Balotelli, gli Irriducibili avevano diffuso un comunicato in cui rivendicavano di aver “introdotto per primi questa modalità”, ma anche dove invitavano i tifosi a fermarsi “per il bene del cammino della nostra squadra”. Per il momento, dalla pagina Facebook de “La Voce della Nord” (la trasmissione radiofonica ufficiale del gruppo ultras) non ci sono stati commenti alla vicenda e anche i tentativi de Il Fatto di ottenere una versione ufficiale del gruppo non sono andati a buon fine.
L’episodio è stato duramente stigmatizzato dalla Comunità Ebraica di Roma, con la presidente Ruth Dureghello che su Twitter ha commentato: “Questa non è una curva, questo non è calcio, questo non è sport. Fuori gli antisemiti dagli stadi”. Ferma la condanna della sindaca di Roma, Virginia Raggi, che nel rilanciare il cinguettio ha scritto: “Questo non è calcio, questo non è sport, ha ragione Dureghello”. Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, che si trova presso il campo di sterminio nazista di Treblinka, in Polonia, ha annunciato di essere “ancora più indignato”.

Il Fatto 24.10.17
La luccicanza 37 anni dopo: un maestro, nessun allievo
Torna nelle sale con un corto che fa parlare anche le gemelle
di Federico Pontiggia

Sosteneva Kubrick, “è molto facile fare un film, ma molto difficile fare un buon film. E quasi un miracolo fare un grande film”. Stephen King non vi riconobbe nulla, o quasi, del proprio romanzo. Ognuno di noi vi trovò potente e non negoziabile il talento di Stanley Kubrick. Anzi, il talento Kubrick: inventore di mondi, ri-definitore di generi, innovatore di cinema. Dopo il noir (Rapina a mano armata, 1956), dopo la fantascienza (2001: Odissea nello spazio, 1968), dopo il film storico (Barry Lindon, 1975, ma già il rinnegato Spartacus, 1960), Kubrick fece del fantastico qualcosa di mai visto e, ci perdoni King, mai scritto prima: Shining modellizzava un’idea-mondo di cinema e, insieme, un’idea-cinema di mondo.
Il plastico e il labirinto, la narrazione messa in abisso e la scoperta tecnica, quella Steadicam creata ex novo da Garrett Brown che s’avanza fluida e ineluttabile per i corridoi dell’Overlook Hotel. Sono passati 37 anni, ma non abbiamo dimenticato nulla, non potevamo: come tanti – tutti i suoi 13? – film di Kubrick, Shining ha fatto scuola, senza peraltro fare allievi. Nessuno – né Christopher Nolan, né Denis Villeneuve, né David Fincher, né chi vi pare – ha superato il maestro, nessuno gli si è anche solo avvicinato: a 18 anni dalla morte (7 marzo 1999), Kubrick rimane inarrivabile, sinonimo, di più, allografo stesso di Cinema. Caso strano, la tenzone Kubrick-King non s’è esaurita, e sta per trovare nuova vigoria in sala: se It frantuma anche da noi record su record con un incasso nel weekend d’esordio di 6 milioni e 700 mila euro, Shining ritorna sul grande schermo per soli tre giorni, dal 31 ottobre di Halloween al 2 novembre dei Morti.
Ebbene, chi vincerà? Aspettando la risposta del pubblico, ce n’è una da mandare agli annali di Storia del Cinema: Kubrick, su King e il regista di It Andy Muschietti, per ko tecnico alla prima ripresa. Non stupisce, e come potrebbe? Disse bene il grande critico francese Michel Ciment alla Rivista del Cinematografo nel marzo del 2009: “Kubrick mi fa pensare a un rabbino che studia il Talmud, o a un alchimista del Medioevo che vuole trasformare il piombo in oro. C’era in lui qualcosa che faceva pensare alla ricerca della pietra filosofale. Alla ricerca dell’assoluto”. Un assoluto luccicante che al buio in sala rinviene in combo con il corto Work and Play di Matt Wells: sette minuti di materiali inediti, provenienti dagli archivi personali del regista newyorchese e illustri talking heads. Ad aprire le danze sul filo della memoria sono le gemelline Grady, al secolo Lisa e Louise Burns, e qualcosa non è cambiato: simbiotiche ma dialettiche, si sovrappongono, si mangiano le parole a vicenda, si specchiano uguali e contrarie. E ricordano, sì, ricordano il profluvio di sangue e il loro essere fanciulline e quasi ignare, i vestitini buffi, la follia di Jack Nicholson e il freddo là fuori. Soprattutto, rammentano che sul set la paura si tagliava col coltello. Pardon, con l’accetta. Passano gli appunti di Kubrick, scorrono “redrum” e “murder”, sovvengono le indicazioni, le rettifiche e gli accorgimenti sulla strada del capolavoro, ricompaiono gli uomini e le donne che accompagnarono il genio: Garrett Brown e la co-sceneggiatrice Diane Johnson, la figlia Katharina e il cognato e produttore Jan Harlan.
Sono questi ultimi a sfatarne il mito negativo, a ripulire Stanley dalle incrostazioni del sentito dire: non era né recluso né musone, dice Katharina, ma “parlava con il mondo al telefono”, “eravamo una famiglia di cinema, era il padre migliore”. Insomma, Jack Torrance non abitava in Kubrick, e questo titolo monco – Work and Play viene da “All work and no play make Jack a dull boy”, nella versione italiana l’inopinato “Il mattino ha l’oro in bocca” – gli rende giustizia: lavoro e gioco, cinema e famiglia. E, ovvio, l’assoluto cui tendere: “Non gli interessava – precisa Harlan – fare film tanto per fare, ne erano già stati fatti a iosa. Lui voleva realizzare qualcosa che restasse, quel 5% dei film che rimane”.

Il Fatto 24.10.17
“È il tessuto sociale a essersi incarognito”
Emanuele Trevi - Lo scrittore: “Non è il saluto fascista di un cretino: si scambia l’orrore per uno sfottò
di Lorenzo Giarelli

Emanuele Trevi, le curve italiane si rendono protagoniste di un altro episodio di odio. Questa volta tocca all’antisemitismo.
È un gesto orrendo e la condanna non può che essere totale, soprattutto perché il fatto è avvenuto a Roma, città con una comunità ebraica molto viva e in cui si è sviluppato uno dei ghetti più antichi del mondo.
Proprio l’immagine di Anna Frank, poi, ha un significato particolare.
Utilizzare un simbolo di luminosità e di libertà come fosse un insulto per qualcuno, se possibile, aggrava la situazione: la storia di Anna Frank è servita a milioni di persone in tutto il mondo per sopravvivere in contesti anche molto diversi.
Dobbiamo ricondurre il fatto all’opera di qualche deficiente o c’è di più?
Quando c’è di mezzo l’antisemitismo c’è sempre qualcosa di più profondo. È un punto di non ritorno per la società ed è facile che sia anche legato a rigurgiti di violenza.
È una parte di società malata, quindi?
Gesti del genere sono molto gravi, non è il saluto fascista di qualche cretino: è la spia di un incarognimento del tessuto sociale che ci indica che ancora, nel 2017, c’è una parte della società marcita, che scambia una cosa orribile per qualcosa che può rientrare nel gioco, negli sfottò del tifo.
A proposito di saluti romani, abbiamo visto anche quelli a Roma…
Sì, ma i gesti di Di Canio (l’ex capitano della Lazio che si era rivolto col saluto fascista alla sua curva, ndr) erano molto meno gravi degli episodi di antisemitismo.
Non è la prima volta che il fotomontaggio di Anna Frank viene fatto circolare e non è la prima volta che dobbiamo parlare di antisemitismo negli stadi. Come mai questo problema ritorna a distanza di mesi?
Questi episodi tornano perché qualcuno li vuole far tornare, è evidente che ci sia una regia dietro, considerando anche che adesso, con i social network, le immagini possono essere riprodotte all’infinito e quindi messaggi di questo tipo hanno molto più potenziale di diffusione.
Ma ci siamo arresi a non poter fare niente per contrastare certi atteggiamenti negli stadi?
Non può essere così, sarebbe un pensiero insopportabile. Non possiamo accettare che in alcune forme di aggregazione – in questo caso gli stadi – ci possa essere un tasso di inciviltà che non riusciamo a governare e su cui non si può intervenire.
Le leggi sono insufficienti?
Le varie norme, dalla legge Mancino alla recente legge Fiano, pur avendo nobili intenti, credo non siano efficaci. Le leggi spesso vanno a strascico, ma l’antisemitismo è qualcosa di più serio, non può essere trattato come un caso di maleducazione qualsiasi.
Come se ne esce, allora?
Credo che la strada migliore siano ancora la scuola e l’educazione in genere. Questi strumenti hanno un effetto continuato nel tempo, formano le generazioni e sono i pilastri su cui si regge la società.
Più che occuparsi dell’estremismo nelle curve, quindi, bisogna fare i conti con un tema più ampio?
La chiave deve essere ricostruire il tessuto sociale e civile e fare in modo che atteggiamenti come l’antisemitismo siano condannati da tutti. La nostra società, non solo le curve, non può permettersi l’antisemitismo, allo stesso modo di come non può permettersi il jihadismo o altre atrocità del genere.

Il Fatto 24.10.17
È povertà umana di minoranze in cerca di visibilità
di Stefano Disegni

In una famosa scena di Ricomincio da tre a Troisi chiedevano “Napoletano? Emigrato?” (ancora non c’erano sbarchi a Lampedusa, i poveracci sbarcavano a Torino). Lui rispondeva “No. Ma perché se uno è napoletano deve essere per forza un emigrante?” Così m’è capitato di sentirmi dire “Laziale? Fascista?”. Io sono laziale per tanti motivi, ma fascista proprio no. Sono laziale per questioni cromatiche: a primavera mi fermo sul Lungotevere a godermi il celeste inimitabile del cielo di Roma punteggiato di nuvolette bianche, rosso con le nuvole gialle sarebbe un incubo che neanche sotto LSD. Sono laziale perché in classe c’erano ventidue romanisti e dieci laziali e per me è stato istintivo schierarmi con la minoranza oppressa, mi parve peraltro scelta meno banale. E sono laziale perché mio padre e i suoi fratelli che da soli tifavano più di tre curve m’hanno fatto respirare ossigeno biancoceleste da quando sono nato. Ma non sono fascista. Anzi. Come me tanti, la maggioranza, fatta di gente di tutte le opinioni compresa nessuna opinione, che non si sognerebbe mai di fare una schifezza come il penoso adesivo con Anna Frank in giallorosso. Perché il problema non è il colore delle maglie sennò dovremmo dire che tutti i veronesi sono nazisti (vedi certi festeggiamenti) e poi gli interisti e poi gli juventini e poi e poi. No. Il problema è nella desolante povertà umana di minoranze in cerca di visibilità, che di quelle maglie e di quei colori umiliano storia e rispettabilità con penose esibizioni muscolari che nulla hanno a che vedere col tifo e col calcio, bellissimo gioco e non certo campo di battaglia. Ignorarli è la strategia migliore, infatti chiudo qua, ne ho scritto pure troppo.