Repubblica 23.10.17
Maro Isnenghi
“Solo chi cade può risorgere così Caporetto si trasformò in un’occasione di riscossa”
intervista di Paolo Rumiz
A
cent’anni dalla disfatta italiana più celebre lo storico Mario Isnenghi
invita a sfatare i luoghi comuni nazionali e a guardare i fatti in
prospettiva
Professor Mario Isnenghi, storico e studioso della
Grande Guerra: cosa fu Caporetto per l’Italia? «Uno scatenamento
dell’immaginario, il virtuale che si sovrappone al materiale. Qualcosa
che va molto oltre la dimensione militare ed entra nella psicologia e
nella politica. In due settimane di caos si giocano i destini d’Italia.
Un momento quasi onirico della nostra storia, in cui, in assenza di
informazioni effettive, ciascuno reagisce secondo le proprie ideologie e
pregiudizi ».
Un incubo.
«Le classi dirigenti possono
leggervi la fine della passività del popolo, quindi dell’obbedienza. Si
pensa a uno sciopero militare, alla Russia in Italia. Il ’17 è un anno
di cambiamenti: in Russia è stato rovesciato lo Zar, a Roma il Papa ha
gridato contro la “inutile strage”. I popoli sono stanchi di guerra, lo
slogan “Basta trincee” si diffonde».
Figurarsi Cadorna.
«Per
il generalissimo il migliore degli eserciti è quello apolitico e
passivo. Così egli legge nella resa in massa che attribuisce ai soldati
un sogno inaudito delle classi popolari. Il sovvertimento dell’ordine.
Cosa che non è. Non esistono rivolte disarmate».
Che cos’è Caporetto allora?
«Liberata
dalla sconfitta, l’affiorante voglia di finirla con la guerra. Nel
libro La rivolta dei santi maledetti, Curzio Malaparte, interventista e
volontario già nel ’14 in Francia, spiega Caporetto come l’insofferenza
di un popolo in divisa che non ne può più dei suoi comandanti. Il gregge
è stanco, insomma.
Ma dopo la ribellione ritorna il gregge di prima».
E poi c’è il caos degli ordini.
«Certamente.
Dei soldati hanno avuto, dicono, l’ordine di andar via. Subordinati
anche nella ribellione... O non hanno ricevuto nessun ordine. Come da
parte di Badoglio, le cui disposizioni non sono mai arrivate alle
artiglierie. Gli stessi giornalisti embedded aggregati al quartier
generale non lesineranno critiche agli alti comandi».
Ma si dà la colpa ai soldati...
«Nel
famigerato bollettino del 28 ottobre, Cadorna addossa tutta la
responsabilità a reparti della Seconda armata. Un proclama che rischia
di abbattere ulteriormente il morale e tace sui tanti episodi di
resistenza anche disperata. E questo in un momento in cui tutto può
accadere, anche il tracollo. In quelle ore il Piave non è ancora
nell’aria. Si parla di arretrare fino al Mincio. O addirittura al
Po...».
E poi c’è l’efficacia tedesca.
«I tedeschi non erano
gli austriaci. Il concetto di passività di un esercito-massa non era
preminente. Nelle truppe germaniche anche un piccolo sottufficiale era
autorizzato a prendere iniziative in funzione di un obiettivo da
raggiungere. L’Italia si è trovata, così, di fronte a una cultura
militare e, direi, anche a un tipo di cittadinanza diversa».
Italiani cattivi soldati?
«Giorgio
Rochat, storico militare, dimostra che il nostro soldato è all’altezza
degli altri, se ben comandato. Non dimentichiamo che i francesi sono
stati bastonati esattamente come noi dalle nuove, agili strategie
tedesche impostate sulle Sturmtruppen. Ma hanno fatto assai meno
autoflagellazione».
Come ci leggiamo come popolo?
«Caporetto
sembra fatta apposta per confermare i pregiudizi degli “anti-italiani”
d’Italia, presenti in ogni schieramento. In quella destra che lamenta
che non saremo mai un popolo guerriero, e in quegli “azionisti” che
leggono in noi un difetto di cittadinanza in senso europeo, a causa di
un nostro irrimediabile familismo amorale. Giorgio Bocca per capirci».
Fu uno shock salutare?
«È
l’idea di Prezzolini. Vittorio Veneto che si spiega con Caporetto; la
redenzione che nasce dal peccato... C’è del vero in questo: tutta la
memorialistica dice che la batosta genera una frustata di orgoglio. Il
“noi” che rinasce dalla fondo della disgregazione. A Caporetto l’Italia
poteva andare a pezzi, e frammentarsi per linee sociali. Esattamente
come nel ’18 l’Austria si sarebbe decomposta per linee nazionali ».
Cambia anche lo stile di comando...
«Intendiamoci,
la repressione c’è ancora. Ma Diaz si cura del morale della truppa, si
lascia affiancare da collaboratori. Discute con i politici, tiene conto
della pubblica opinione. Costruisce una propaganda efficace con i
giornali di trincea. Tutte cose che Cadorna non faceva. Diaz ha anche il
vantaggio della difensiva, in una guerra dove chi attacca subisce
perdite maggiori. E ha 200 chilometri di fronte in meno da difendere».
Caporetto resta un mistero?
«No.
Semplicemente è un evento che non si è mai finito di studiare. I libri
recenti di Gaspari, di Falsini e anche di Labanca evidenziano, nella
disfatta, un arcipelago di focolai di resistenza finora rimasti
nell’ombra. Una cosa è la memoria collettiva, oggetto di studio essa
stessa, naturalmente . Altra cosa sono i fatti appurati ».
Com’è Caporetto vista dal nemico?
«Qui
sto lavorando a un libro assieme allo storico militare Paolo Pozzato.
C’è una corposa mole di memorialisti e narratori da esplorare. I loro
scritti trasudano incredulità per l’armistizio chiesto da un’Austria che
fin quasi all’ultimo aveva costretto l’Italia in difesa sul Piave. È
una visione solo militare della guerra. Non capiscono che le rivoluzioni
nazionali dei popoli dell’Impero non sono “altra cosa” rispetto al
conflitto militare».
Questi narratori come descrivono gli Italiani?
«Come
un popolo inadatto alla guerra. Figli di una nazione fedifraga. Non
dicono che i tedeschi disprezzavano gli austriaci, che anni prima erano
stati annichiliti dalla Prussia nella battaglia di Sadowa. Vivono un
latente pangermanesimo che li rende subalterni ai tedeschi stessi, senza
i quali, del resto, niente Caporetto ».
Che differenza c’è fra Caporetto e l’8 settembre?
«Furono
entrambi un “Tutti a casa”, no? Se è vero che l’8 settembre è
riassorbito dalla Resistenza, perché non riassorbire Caporetto in
Vittorio Veneto?».
Che memoria abbiamo del ’18?
«La vedremo
presto in azione. Sono curioso di vedere se ci sarà interesse a parlare
di Vittorio Veneto, finale effettivo, e anche di Caporetto come finale
possibile. Eppure, paradossalmente, spremuto il mistero di Caporetto,
non sarebbe il caso di dedicarsi al... mistero di Vittorio Veneto?».