lunedì 23 ottobre 2017

Repubblica 23.10.17
I segreti del sogno
Un tempo predicevano il futuro oggi ci rivelano chi siamo. Un libro di Maurizio Bettini ci guida in una terra inafferrabile
di Marco Belpoliti

Niente è più inafferrabile del sogno. Un momento ci avvolge, ci affascina, ci eccita, ci atterrisce, e un momento dopo non c’è più: dissolto. L’intensità del sogno sovente è inversamente proporzionale alla nostra capacità di trattenerlo, di ricordarlo. Insomma i sogni, come recita la quarta di copertina dell’appassionante
volume di Maurizio Bettini, Viaggio nella terra dei sogni (il Mulino, pagg. 467, euro 50), riccamente illustrato, sono nostri, ma non ci appartengono.
I sogni sono sempre stati oggetto d’interesse da parte degli uomini, ma se un medico viennese non avesse dato alle stampe all’alba del XX secolo un libro con l’ambizioso titolo di L’interpretazione dei sogni, forse non saremmo qui a parlarne, e certamente non nel modo con cui lo facciamo ora.
La principale differenza tra noi e gli antichi — greci e romani — è che i sogni per loro predicevano il futuro, mentre per noi, dopo Sigmund Freud, ci comunicano informazioni relative al nostro passato. Da questa forbice aperta tra antico e moderno parte il libro che Bettini, classicista e scrittore, ha costruito intorno a questo mondo inafferrabile, eppure così presente nelle nostre esistenze.
Tutte le notti sogniamo, che lo ricordiamo o no, e tutte le mattine interroghiamo il sogno, quando lo rammentiamo, chiedendogli, come facevano gli antichi, premonizioni rispetto a ciò che ci sta per accadere, oppure risposte su perché siamo così come siamo. Per i nostri antenati i sogni giungevano dalle divinità; non appartenevano ai singoli, erano “mandati”, e gli uomini e le donne avevano solo il compito di interpretarli. Ma poiché era molto raro che il dio si rivolgesse in modo diretto e comprensibile agli umani, serviva chi lo facesse. Ecco allora comparire la “onirocritica”, scienza dell’interpretazione del sogno, che permette di conoscere in anticipo gli eventi futuri. Il contrario di quanto facciamo noi.
Freud ha sostenuto che nel sogno la nostra psiche allenta le sue difese ed esercita una censura minore, e permette ai desideri rimossi e ai traumi dolorosi di salire alla superficie, seppure in modo distorto e deformato, così da fornirci la chiave per capire chi siamo. Per quanto intriso di classicità, al medico viennese era estranea la nozione di fato, che invece connota il mondo classico, o almeno Freud non l’aveva con la stessa convinzione dei suoi amati greci. Diverso era per Carl Gustav Jung, il più greco degli psicoanalisti, su cui Bettini, solido razionalista, non si sofferma. Per l’autore, non solo ai sogni non si possono chiedere certezze di alcun tipo, ma neppure sulla divinità, «che certa non è neppure fuori dai sogni».
Tuttavia è proprio questa visione a rendere affascinante il libro di Bettini, che si muove nella terra dei sogni da abile detective, determinato a svelare, se non proprio il segreto, almeno il modo in cui si è stratificato nel corso dei secoli il sapere intorno al sogno. Bettini è convinto che lo smarrimento, l’incapacità di raccapezzarsi, sia propria degli stati onirici, come per altro ci mostra direttamente raccontando due suoi sogni. La differenza tra noi e i greci riguardo al sogno è abissale anche per un’altra ragione. Se noi usiamo l’espressione “fare un sogno”, i Greci invece il sogno lo “vedevano”. Per loro «il sogno era un’esperienza eminentemente visiva». Ciò che si sogna per il greco antico è un “oggetto” esperito dalla vista. Per noi moderni il sogno è prima di tutto un’affezione della persona. Non a caso la parola “affezione” ritorna più volte nel libro per indicare l’aspetto sentimentale proprio degli individui, cosa che fa la differenza tra noi moderni e gli antichi.
I sogni erano per i greci “immagini”, éidola, apparizioni, fantasmi; i romani, concreti com’erano, usavano il termine simulacra, che significa “simulare”, “imitare”. La catalogazione del sogno fatta da Artemidoro, spiegata con efficacia da Bettini, comprende una casistica assai complessa: sogni premonitori e sogni non-premonitori, ma anche sogni “rappresentativi” e sogni “allegorici”; e poi, per dettagli progressivi: sogni “personali”, sogni “altrui”, sogni “comuni”, sogni “politici”, sogni “cosmici”. Se il sogno era per loro fuori dal soggetto che sogna, poteva essere sia un dono sia qualcosa di richiesto. Tra il mondo umano e quello divino esisteva un via vai continuo; i canali tra terra e cielo, mondo inferiore e mondo superiore, erano aperti, così come quelli tra i vivi e i morti. C’erano delle porte, come nel sogno che Penelope narra nell’Odissea al mendicante che ancora non sa essere suo marito, Ulisse. Due porte a doppio battente: una di corno e una di avorio. I sogni che vengono dall’avorio recano parole infruttuose, portano danno; quelli che provengono dal corno, nel caso un umano li veda, s’avverano. Quale sia la ragione di questa differenza di porte non si sa, scrive Bettini.
La cosa importante è però la distinzione tra sogni ingannatori e sogni veri. Tutta la mitologia classica, con storie di dei, dee, eroi, semieroi e umani ruota intorno a questa diversità. Freud ha secolarizzato il sogno, ci ha liberati dal gioco fausto e infausto degli dei, dissolvendo, per quanto riguarda l’universo onirico, il mondo del sacro. In questo modo ci ha affidati a noi stessi, trasformando l’esperienza notturna in qualcosa di personale; ci ha resi autori del nostro destino. Per fare questo ha rovesciato la retorica del sogno: tutto è già dato, possiamo solo interpretare i sogni in funzione di qualcosa che non sappiamo di noi stessi. Con il suo “Acheronta movebo”, stampigliato sul frontespizio della Interpretazione dei sogni, ha indicato la scaletta che ci permette di scendere nella cantina della nostra psiche, per trovare ciò che vi è custodito, qualcosa che abbiamo messo noi stessi e che ci grava, anche se non lo sappiamo.
Nel libro dell’illuminista ben temperato Maurizio Bettini ci sono molte altre cose: incubi, demoni, succubi, fantasmi, allucinazioni; ci sono tante storie che rendono questo tragitto in sua compagnia affascinante, viaggio che si ferma sulla soglia di una domanda che tuttavia s’impone: era meglio sognare con gli dei e gli aruspici, o sognare da soli con gli psicoanalisti? Domanda probabilmente capziosa, visto tutto quello che sta succedendo intorno a noi. Ci sono altri sogni che bussano alle nostre porte, da svegli e non solo da dormienti, e spesso hanno la forma degli incubi.
Forse ha ragione Roger Callois, citato da Bettini. Nel suo libro L’incertezza dei sogni sosteneva che la realtà è ben più contraddittoria dei sogni. Non possiamo dargli torto.
IL SAGGIO Viaggio nella terra dei sogni di Maurizio Bettini (Il Mulino pagg. 467, euro 50). Con oltre 200 illustrazioni a colori

Il Fatto  23.10.17
La pagliacciata del voto sull’autonomia lombarda
di Leonardo Coen

Caro Enrico, ieri non ho votato. Il quesito proposto mi è parso superfluo, pretestuoso. La Regione Lombardia a guida leghista con Roberto Maroni chiedeva a noi lombardi (ci provò già nel 2007 Roberto Formigoni, ma fallì) se eravamo d’accordo per una maggiore autonomia, considerata “la sua specialità”, manco fosse un ristorante. A parte l’aggrovigliato lessico, si chiede ciò che avrebbe già potuto pretendere lo stesso Consiglio regionale, al quale spetta per legge il passo formale per rivendicare “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.
Penso piuttosto che per ragioni puramente propagandistiche si sono gettati dalla finestra 23 milioni di euro (più altri 3 per la polizia): che se ne faranno le scuole delle 24 mila Voting machine? Pur riconfigurati, il loro utilizzo sarà limitato rispetto ai modelli in commercio. Quei soldi potevano essere investiti in modo più proficuo ed intelligente. Per esempio, cercando di contrastare le nuove povertà che affliggono la ricca Lombardia: il 15 per cento della popolazione con redditi più bassi detiene infatti poco più del 5 per cento del reddito regionale, mentre il 2,7 per cento di quella più agiata si pappa il 10,7 per cento del Pil, come attesta la Banca d’Italia (rapporto sull’Economia regionale, luglio 2017). Leggendo poi Altreconomia (ottobre 2017), mi hanno assalito dubbi antichi. La società che ha vinto a metà giugno l’appalto è la SmartMatic International Holding BV (domiciliata in Olanda, dove la fiscalità è agevolata). Ad agosto ha iscritto alla Camera di Commercio di Milano la propria “sede secondaria”, rappresentata da Diego Chiarion, il project manager, consigliere comunale di Guarda Veneta dal 2009 al 2014. L’8 agosto, su Facebook, ha condiviso un post in cui il ritratto di Einstein era accompagnato da questa didascalia: “Se uno dovesse correre nudo intorno a un albero alla velocità della luce molto probabilmente rischierebbe di incularsi da solo. Lo stesso risultato si ottiene votando Pd”. Così vanno le cose, nel Nord “virtuoso”…

Corriere 23.10.17
Il leader pd chiude al dialogo con i bersaniani
No alle richieste di Mdp sulla legge elettorale. La replica: le parole arroganti un punto di non ritorno
di Alessandro Trocino

ROMA Il dialogo, appena ripartito, sembra già finito. Perché, come dicono in molti, il botta e risposta tra Roberto Speranza e Matteo Renzi somiglia più al gioco del cerino, per capire su chi ricade la responsabilità della rottura, piuttosto che a un reale tentativo di riavvicinamento. Roberto Speranza, con un’intervista a Repubblica , si è detto pronto a incontrare Renzi, per intavolare un dialogo, a partire da legge elettorale e legge di bilancio. La prima risposta, di Ettore Rosato, va in direzione opposta: ok al dialogo, ma prima votate il Rosatellum. A seguire, Matteo Renzi, che dice sì, «se è un dialogo serio», ma poi sbatte la porta sul Rosatellum: «Rimetterlo in discussione, vuol dire rinunciare ad approvarlo».
Chiusura contrastata dai molti pontieri al lavoro nel Pd, da Dario Franceschini a Andrea Orlando, da Gianni Cuperlo fino a Luigi Zanda. Ma sarà probabilmente proprio il voto sul Rosatellum, con il prevedibile no di Mdp, a sancire la fine del dialogo e l’apertura ufficiale della campagna elettorale. A meno di un colpo di scena, e che cioè Renzi venga convinto a fissare almeno un incontro, per evitare, appunto, di rimanere con il cerino in mano. Ma anche in quel caso, le speranze di un riavvicinamento tra Pd e sinistra restano più che esigue.
Basta sentire cosa dicono dalle parti di Mdp. Pier Luigi Bersani, ancora prima delle risposte, aveva profetizzato: «C’è da augurarsi che le risposte a Speranza siano serie e non arroganti o propagandistiche. Sarebbe un punto di non ritorno. Maria Cecilia Guerra, capogruppo Mdp al Senato, si dice «sconfortata» dalle risposte. Massimo Paolucci, esponente vicino a Massimo D’Alema, guarda già avanti: «Le reazioni di Renzi e degli altri sono state deludenti e arroganti. L’oracolo Rosato dice: votate Rosatellum e poi parliamo. È impressionante il silenzio sul merito, zero riflessione, roba da far cadere le braccia. Lo spiraglio mi sembra che si sia già chiuso, serve un progetto alternativo». In linea Miguel Gotor: «Mi pare chiaro che abbiano risposto picche su tutta la linea. Non modificare la legge elettorale, non diminuire i nominati, non introdurre il voto disgiunto, sono tutti atti che mettono benzina sul fuoco delle forze anti sistema». Gotor, Paolucci e molti altri sono convinti, il Pd di Renzi ha scelto la strada «di un governicchio con Forza Italia». E a noi, aggiunge Arturo Scotto, «ci hanno già fatto ciaone». Ma è un ciaone che probabilmente Speranza, Bersani e D’Alema avevano ampiamente previsto.

Il Fatto  23.10.17
Sul voto segreto ci fu battaglia pure nell’antica Roma
di Orazio Licandro

Il voto segreto, secondo le cronache parlamentari, è stato uno dei protagonisti dello scontro politico sull’ultimo capitolo della riforma elettorale. Dopo la ‘macellazione’ del Porcellum da parte della Corte costituzionale, con il venir meno dell’Italicum schiantato dalla bocciatura popolare delle riforme costituzionali, siamo giunti al Rosatellum. Sorvolando sul penoso uso giornalistico del latinorum, nel primo passaggio parlamentare gli oppositori della proposta invano hanno confidato appunto nel voto segreto, che non è certo una peculiarità delle democrazie postmoderne né sempre una garanzia di trasparenza. A Roma, agli esordi della giovane democrazia militare sorta con l’abbattimento della monarchia, il sistema di voto era orale. Componenti delle assemblee comiziali però non erano i rappresentanti del popolo, come nei moderni parlamenti, ma i cittadini che partecipavano direttamente alle scelte politiche, votando ad esempio le leggi ed eleggendo i magistrati; e nel votare esprimevano la propria volontà ad alta voce dinanzi al presidente e a tutti coloro che erano intorno. Tale sistema di votazione più avanti, quando la lotta politica si fece più accesa e aspra, esponeva i cittadini a pressioni e violenze fisiche e morali assai gravi. Così, nella seconda metà del II secolo a.C. numerose furono le leggi elettorali volte a introdurre il voto per tabellam, cioè scritto su schede (tabellae) e segreto. Il nuovo sistema garantiva ai votanti condizioni di maggiore ‘agibilità’ e libertà politica, non però tali da eliminare ‘influenze indebite’, che continuavano a dipendere dalla soglia etica dei protagonisti della lotta politica e dalla capacità di resistenza dei votanti.

Il Fatto  23.10.17
“Basta scimmiottare Risappia. Sinistra alla Corbyn anti-Pd”
Autoreferenziale - “Ai disperati cosa gliene frega dei giochini tattici di Speranza che apre al Pd? Noi dobbiamo competere con i Cinquestelle”
di Fabrizio d’Esposito

L’inclinazione al tafazzismo della sinistra provoca sempre un rinnovato stupore, per modalità e contenuti. Nemmeno il tempo di godersi la fine del tormentone Pisapia, durato la bellezza di sei mesi, ed ecco che Roberto Speranza, giovane volto di Articolo 1, apre al Pd dalle colonne di Repubblica, giornale-partito alle prese con un compito immane: rendere “potabile” il partito renzusconiano di Matteo Renzi.
Tomaso Montanari, storico dell’arte e presidente di Libertà e Giustizia, è stato il promotore insieme con Anna Falcone della sinistra civica nata al teatro Brancaccio di Roma.
Professore, Speranza apre al Pd su Rosatellum e manovra. Sembrava Pisapia: il Paese capirà?
Ma a quante persone ha parlato Speranza. Trecento?
Lei infierisce. In realtà Articolo 1 vuole passare il cerino a Renzi, giusto per farsi dire di no e togliersi ogni scrupolo.
Ma chi può capire questi giochini tattici? Davvero siamo a questo punto? Davvero pensiamo che nel 2017 questo sia il modo di fare ancora politica? Ma alla gente non gliene frega nulla della tattica, è disperata e arrabbiata. Mi faccia aggiungere che il discorso pubblico non può essere più diverso da quello privato.
Che intende dire?
Dopo la fine delle ambiguità di Pisapia, è nato un confronto tra noi e Speranza e Articolo 1 e si pensava di essere tutti insieme sullo stesso autobus. Poi uno legge questa intervista e s’interroga su quello che ha sentito nei vari colloqui avuti sinora.
Sono i tic della politica autoreferenziale.
Sono uno storico dell’arte e anche il mio è un mondo completamente autoreferenziale. I professori sono capaci solo di parlare a se stessi, con un linguaggio chiuso per addetti ai lavori. Le cito una meravigliosa frase di Federico Zeri: “Le mostre sono come la merda, che fa bene solo a chi la fa e non a chi la vede”. Anche la politica è così.
Peraltro Speranza non dice neanche una parola sullo scandalo del conflitto d’interessi bancario di Maria Elena Boschi.
Non solo. Ho letto pure di una correzione maggioritaria al Rosatellum. Ma scherziamo? È l’opposto della battaglia referendaria che abbiamo fatto. Tutto il mondo del no è per una legge proporzionale.
Si dia un pizzico sulla pancia. In fondo domani è un altro giorno e Renzi ha detto subito di no come Speranza sperava.
Benissimo. Diciamo che da qui a marzo dobbiamo dare agli italiani un quarto polo che competa più con i Cinquestelle che con il Pd.
Il renzismo è irriformabile.
La teologia mariana afferma che la Madonna è vergine prima, durante e dopo il parto. Io dico che prima durante e dopo non ci si allea con il Pd. L’Italia rovinata da Berlusconi non si distingue da quella rovinata dal Pd.
Lei è radicale.
Io voglio una sinistra radicale alla Corbyn, non settaria o manesca, che entro Natale celebri una grande assemblea. Il centrosinistra non ha alcun senso, così come non ha senso pensare di vincere le elezioni al centro.
Così ci liberiamo anche dell’equivoco ulivista dei democristiani di ieri e di oggi.
Esatto. Se la sinistra non rovescia il tavolo delle diseguaglianze qual è il suo compito? Fare solo tattica o essere ossessionata dalla governabilità?
Ricapitolando: Articolo 1, sinistra civica, Sinistra Italiana, Civati e Rifondazione, per il momento.
Dobbiamo fare una sinistra unitaria.
Con Grasso leader?
Per me viene prima il programma, ma su Grasso dico che sarà decisivo il passaggio al Senato sulla fiducia al Rosatellum.
Se la concede non è un bel segnale.
Appunto.

Il Fatto  23.10.17
Roma e non solo: la carica dei mille “bangladini” d’Italia
I piccoli negozi di prossimità, aperti a tutte le ore, in grado di vendere a prezzi stracciati. Un fenomeno della Capitale in rapida espansione
di Vincenzo Bisbiglia

“I’m proud to be a businessman”. Aprire una frutteria, una lavanderia, un autolavaggio o, ancor meglio, un minimarket. È ciò a cui aspirano tutti i migranti bengalesi in Italia: diventare imprenditori. Anche a costo di violare la legge o finire in circuiti poco raccomandabili di usura, racket e sfruttamento del lavoro. Un punto di arrivo per i quarantenni di quella comunità, dopo gli anni della gioventù passati a vendere rose, ombrelli o cianfrusaglie cinesi, presidiare per ore le bancarelle dei signorotti anti-bolkenstein, cucinare negli scantinati fumosi delle trattorie locali o dormire in dieci negli appartamenti affittati da italiani in fuga dalla città e in cerca di denaro contante.
Non è un caso che, secondo i dati Uil Roma e Lazio, siano proprio i bengalesi gli stranieri con la maggiore “predisposizione imprenditoriale” (47,7%). Secondo Confesercenti, in tutto il Paese ci sono ben 7.000 minimarket, cui vanno aggiunti altri 4.000 esercizi di altra natura. In particolare quello noto come “bangladino” – piccolo negozio di prossimità aperto a tutte le ore in grado di vendere a prezzi stracciati alcolici e prodotti alimentari confezionati – è un fenomeno in gran parte romano. Nella Capitale – dove vivono ben 40.000 dei 142.000 cittadini del Bangladesh presenti in Italia – insistono oltre 3.200 di queste attività, in parte documentabili perfino da una App, chiamata proprio “Bangladino”, una specie di tripadvisor del minimarket.
Fortissima è la rivalità con gli esercenti locali che denunciano una “concorrenza sleale”, specie nel centro città. Perché queste persone sembrano non conoscere riposo: la maggior parte dei negozi apre alle sei del mattino e chiude a mezzanotte, altri tirano tardi fino alle due o alle tre di notte o addirittura vanno avanti 24 ore su 24, sette giorni su sette, la domenica come a Pasqua o a Natale.
“Quasi sempre nei negozi rinveniamo un angolo dormitorio – racconta Lorenzo Botta, vicecomandante generale della Polizia Locale di Roma – e la presenza di lavoratori-schiavi che segnaliamo all’Inps”. Anche sul fronte della qualità dei prodotti, non va molto meglio. “Dal 90% dei controlli – prosegue – emerge qualcosa che non va. C’è chi invade il marciapiede con la merce esponendola allo smog; chi vende la birra oltre l’orario consentito; soprattutto, chi esibisce prodotti scaduti, a volte coprendo o falsificando l’etichetta”.
Problemi anche negli autolavaggi e nelle lavanderie, dove “non troviamo mai scarichi a norma per i saponi, e addirittura i veicoli vengono spostati da personale sprovvisto della patente di guida”.
Oltre 500 le multe dei vigili urbani, nel corso di questo 2017, dati ai quali si aggiungono le 600 multe effettuate dalla Guardia di Finanza per emissione di scontrini irregolari (diffusa l’abitudine di applicare l’Iva al 4%) e le 55 “proposte di chiusura dell’esercizio”, sistematicamente girate alla Procura di Roma: “Da un po’ di tempo puntiamo al sequestro del negozio, stiamo stringendo le maglie – riprende Botta – ma siamo in pochi e non riusciamo a controllare tutto”.
C’è dell’altro. Sempre secondo i dati Confesercenti, i minimarket fanno registrare un turn-over vicino al 20% (il doppio di quanto avviene fra imprenditori italiani). In pratica, quasi ogni anno un quinto dei negozi cambia gestore. Oppure, la società cui viene assegnata la licenza – basta una semplice richiesta in municipio, chiamata tecnicamente Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) – modifica i suoi componenti, continui ricambi che destano sospetti.
“L’alternanza dei nomi – spiega una fonte della Guardia di Finanza a Il Fatto Quotidiano – spesso serve per far prendere o rinnovare il permesso di soggiorno ad altri soggetti, anche se chi ci lavora è sempre la stessa persona. Chi arriva resta comunque ‘debitore’ e a disposizione della comunità, in una sorta di mutua assistenza e microcredito fai-da-te”.
Il sospetto è che dietro questa “società comunitaria” si nascondano attività di usura o, peggio, riciclaggio: l’associazione Codici, in un report risalente ormai al 2014, parlò senza mezzi termini di “criminalità” e di “racket degli alcolici”, mentre Alberto Civica (segretario regionale Uil), descrive “una situazione agghiacciante per i lavoratori, basti pensare che il 46,3% dei 90 mila imprenditori stranieri residenti nel Lazio ha vissuto l’esperienza del lavoro irregolare”.
“Questi fenomeni esistono – ci racconta Ejaz Ahmed, giornalista pakistano in Italia – ma è vero che queste persone lavorano moltissimo, dormono in tanti in un unico appartamento e non hanno alcuna vita sociale”. Una gavetta spesa, in particolare, “negli Internet point o al soldo dei cinesi”, oppure “nelle bancarelle”, le cui autorizzazioni a Roma appartengono per la maggior parte alla famiglia Tredicine, che da anni ha messo in piedi una documentata “collaborazione” con la comunità bengalese per la manovalanza negli spazi. Alla fine di questo “iter”, “intorno ai 35-40 anni, queste persone sono riuscite ad accantonare i 20mila euro necessari ad avviare la loro attività”.
Una “predisposizione imprenditoriale” dei bengalesi, che secondo Ahmed non rischia di mettere in crisi quella italiana, anzi. “Il commercio di prossimità a Roma – spiega – è in difficoltà per altri motivi. C’erano 6.000 negozi chiusi a Roma, gli stranieri hanno solo riempito quel vuoto”.
Iter che ha percorso anche Islam, “bangla” del quartiere Appio Latino, da 22 anni in Italia: “C’è crisi per tutti. Io – ci racconta – facevo il cuoco, ora ho aperto questo negozio. Se va bene lo tengo, sennò cambio. Mi piacerebbe arrivare alla pensione, ma mi sa che l’Inps non sta messo molto bene”.
Farouk, invece, racconta: “Con il quartiere e gli altri esercenti non ho mai avuto difficoltà, ci rispettiamo e andiamo d’accordo. Solo gli ubriaconi ci creano qualche problema, ma quello succede ovunque”. Sui cambi di licenza, poi, allude: “Siete giornalisti, no? Ne dovreste sapere più voi che io”.

Repubblica 23.10.17
Tra post-verità e informazione emotiva
di Antonio Nicita

È passato un anno da quando “post-verità” è stata dichiarata parola dell’anno da Oxford Dictionaries.
È stato un anno di studi, analisi, proposte di policy e di regolazione dei nuovi media, a partire dai social media, sui temi dell’hate speech e delle strategie di disinformazione che si nutrono di falsità. E sull’impatto della post-verità sulla qualità della democrazia deliberativa. Un dibattito destinato a continuare nei prossimi anni.
C’è chi ritiene che tutta quest’attenzione sulla post- verità sia un abbaglio, la denuncia elitaria di chi ha perduto il controllo sui vecchi media. È vero, bufale e menzogne sono sempre esistite, specie nei rapporti tra potere e media, tra propaganda e libertà di espressione. Ma, come spiega bene nel suo nuovo libro ( Post- verità e altri enigmi, Il Mulino) Maurizio Ferraris, l’avvento del paradigma della post-verità è qualcosa di intrinsecamente nuovo nella relazione tra verità e libertà d’espressione.
Ciò che oggi appare nuovo nel rapporto tra libertà d’espressione e verità è il ruolo di quella “rivoluzione tecnica” rappresentata dal web — anche nella interazione con i media tradizionali — la “documedialità” di cui parla Ferraris che mette al centro le emozioni nella selezione delle informazioni.
Il paradosso cui assistiamo, dopo un anno di dibattiti e riflessioni, è il possibile divorzio tra libertà e verità nel passaggio dai vecchi ai nuovi media. O se si vuole, la cesura tra concorrenza e pluralismo. Motori di ricerca, social network e social media, da luogo di free speech e free access, di pluralismo per antonomasia, rischiano di cementificare le premesse materiali della post-verità.
Nel mercato digitale delle idee, l’offerta di informazioni tende ad essere sempre più profilata, con algoritmi che tendono a raccontarci una realtà che somiglia ai nostri desideri, al nostro “tipo”, in base al comportamento che riveliamo nel web. Allo stesso modo, dal lato della domanda, tendiamo a ricercare ciò che ci interessa, che ci dà ragione, che conferma i nostri “pre-giudizi” (confirmation bias), trascurando o cancellando dal nostro orizzonte informativo tutto ciò che falsifica la nostra pregressa visione del mondo.
Questo doppio filtro dal lato della domanda e dell’offerta, fatto di echo chamber e di profilazione, ci restituisce un mondo informativo parziale e “su misura”, la cui effettiva dimensione dipende dalla nostra curiosità, dalla disponibilità a sperimentare cose nuove, a misurarci con idee diverse dalle nostre e così via. E più diamo spazio alle emozioni nella ricerca di “verità”, più quel mondo informativo diventa uno specchio delle nostre brame, con l’illusione che ciò che lo specchio ci restituisce sia la verità su come vanno effettivamente le cose, dalla politica ai vaccini.
Sono i limiti cognitivi dal lato della domanda di informazione, studiati dai premi Nobel Daniel Kahneman e Richard Thaler, a generare le distorsioni informative. Non le bugie in sé, dunque, ma le illusioni, dal momento che — come scriveva Demostene — «ciò che un uomo desidera, crede anche che sia vero».
Il risultato — misurato da un numero crescente di studi sperimentali e di indagini statistiche — è che è aumentata la polarizzazione su molti temi rilevanti del nostro vivere comune e individuale. Parliamo di tutto, ma ci confrontiamo sempre meno con chi la pensa diversamente. “Bannare” è diventato l’antitesi di “condividere” in Rete.
Non sorprende che questo fenomeno sia alimentato anche da quella che Tom Nichols, in un recente libro, ha chiamato «la morte dell’expertise», la tendenza, cioè, a sostituirci agli esperti. Un’illusione generata dall’ignoranza di ciò che non sappiamo o dalla presunzione, come scrisse Asimov, che «la mia ignoranza è altrettanto valida della tua conoscenza».
Per anni abbiamo pensato che fosse sufficiente la concorrenza tra chi parla nel mercato delle idee a garantire il pluralismo e, attraverso di esso, l’affermazione di fatti veritieri. Oggi, il destino della relazione tra pluralismo e verità in Rete è affidato alla domanda di informazione, al ruolo attivo di chi ascolta, alla disponibilità a ricercare la qualità nell’informazione e a mettersi in discussione prima di discutere. A “depolarizzare”, come scrive Sunstein, sottraendo al dominio esclusivo dell’emozione la ricerca della verità.
L’autore, professore alla Sapienza, ora è commissario Agcom

Il Fatto  23.10.17
Il nuovo “balzo in avanti” della Cina: l’economia pianificata con i Big Data
Nella seconda parte del suo mandato il leader Xi trasformerà il Paese in una potenza tecnologica ma senza mercato
di Mario Seminerio

Con un discorso di quasi quattro ore, il presidente cinese Xi Jinping ha illustrato al congresso del Partito comunista cinese, che gli conferirà il secondo mandato quinquennale, il luminoso avvenire che attende il Paese, dipinto come una forza tranquilla ma determinata a farsi rispettare e a procedere verso un nuovo “Grande Balzo in avanti” tecnologico.
La visione di Xi reitera quella espressa nel 2013: un’economia di mercato ibridata con forti imprese pubbliche e una progressiva apertura ai capitali internazionali. La presa del partito sulla società resta saldissima e appare destinata a rafforzarsi con la definizione di “spina dorsale della nazione”. La Cina aspira addirittura a sviluppare un soft power, cioè una fascinazione culturale e valoriale in Paesi terzi, che appare piuttosto singolare, per un Paese a partito unico.
Più concretamente, utilizza i fondi incanalati nel grande progetto della “nuova via della seta”: la Belt and Road Initiative e la Asian Infrastructure Investment Bank, versione cinese delle istituzioni multilaterali di sviluppo di emanazione occidentale, grande esca per un emisfero eurasiatico affamato di crescita economica, con l’Africa eterna Cenerentola ma sulla quale Pechino sta da tempo investendo, e le forniture di petrolio e materie prime dal Sudamerica della dittatura venezuelana, dell’affanno economico ecuadoriano e del tentativo di rilancio argentino. Mentre Donald Trump insegue la distopia isolazionista e regressiva della Old America a carbone, causando ansia alle imprese statunitensi, Pechino punta sulle tecnologie verdi come nuovo strumento di conquista dei mercati globali.
La Cina ha sin qui vampirizzato la tecnologia sviluppata in Occidente, consentendo l’accesso al proprio mercato solo dopo condivisione delle tecnologie, poi sviluppate su base domestica. Ai colossi digitali privati cinesi (Tencent, Alibaba, Weibo, Baidu) è concesso di prosperare dietro “collaborazione” con lo Stato costruita su Big Data e intelligenza artificiale, in un audace esperimento di ingegneria sociale: riprodurre condizioni di mercato in un’economia a comando statale, grazie a flussi informativi in tempo reale sull’attività degli agenti economici. I Big Data come strumento surrogato del valore segnaletico dei prezzi di mercato: la nuova giovinezza del Pianificatore centrale, che nella precedente era comunista non era in grado di prevedere la domanda di mercato e finiva a produrre una “economia della penuria”, che ha fatto collassare il sistema.
La scommessa cinese è quella di usare le nuove tecnologie per creare una superpotenza politica ed economica senza le libertà individuali che hanno sino a questo punto della storia accompagnato lo sviluppo. La logica dei “nuovi blocchi” avanza, l’Occidente rischia di essere spiazzato dal “mercato digitalmente pianificato” cinese.

La Stampa 23.10.17
L’altra marcia su Roma
Cesare passa il Rubicone e il gioco d’azzardo gli riesce per l’implosione della classe dirigente dell’Urbe Uno storico rilegge la vicenda
di Luciano Bossina

Cesare si perde nella notte. Per non farsi riconoscere ha rinunciato al suo cavallo, noleggiato un traino di muli, e si muove nel bosco con pochi compagni. Ma sbaglia strada. All’alba trova finalmente un pastore che lo guida alla riva di un fiumiciattolo, il Rubicone, destinato a una fama postuma che resiste persino al suo diverso tracciato (il corso d’acqua, di fatto, non è più nel suo letto originario). Lì ritrova una parte, modesta, del suo esercito, che aveva mandato innanzi. Passare o non passare? Tutti sanno, anche i suoi soldati, che se attraversano il fiume in armi saranno dichiarati da Roma «nemici pubblici». Scoppierà la guerra civile. E il nemico sarà Pompeo. L’imprevisto della notte ha causato un ritardo di ore: incidenti di questo tipo, in uomini abituati a leggere i segni, possono riuscire paralizzanti. Cesare pronuncia una frase celeberrima. È un gioco d’azzardo: e c’è un dado che rotola.

È l’11 gennaio dell’anno 49: uno degli episodi più noti della storia antica. Eppure il libro di Luca Fezzi (Il dato è tratto. Cesare e la resa di Roma, Laterza) riesce a offrirne uno sguardo nuovo, con rigoroso vaglio delle fonti e diverso focus storico. Il punto prospettico infatti non è l’avanzata inarrestabile di Cesare, la pervicacia di un condottiero che si trovava, come diceva Droysen, «nel centro del divenire delle cose», ma la decisione inaudita, sull’altro fronte, di Pompeo, che pochi giorni dopo, il 17 gennaio, ordina a tutti i senatori di abbandonare Roma. Il panico è generale: le fonti descrivono le carovane dei boni viri che lasciano la città coi familiari, i servi, le masserizie, mentre l’incorruttibile Catone, da quel giorno, veste il lutto.
Un modello per Mussolini
Ma per misurare il rilievo di questo sconvolgente trapasso era necessario ripercorrere la storia romana su due assi portanti. In primo luogo, la lunghissima serie delle precedenti «marce su Roma», a partire dai celebri casi di Tarquinio il Superbo e di Porsenna, fino alle più spaventose minacce di Pirro o di Annibale, passando attraverso l’indimenticabile shock del 390, quando i Celti di Brenno riuscirono a penetrare in città («Guai ai vinti»). «L’Urbe, di fronte ai pericoli seri, fu sempre difesa»: e invece di fronte a Cesare fu abbandonata. Neanche questa, come tutti sanno, sarà l’ultima marcia su Roma: nel futuro prossimo il modello servirà a Ottaviano, nel futuro remoto a Mussolini. E sulla resistenza della città si misurerà sempre la tenuta delle istituzioni. In secondo luogo, la storia ravvicinata dei tre convulsi anni che avevano portato al trauma del Rubicone, e che a partire dall’omicidio di Clodio e dall’uso della corruzione come strumento ormai acquisito della lotta politica avevano segnato un degrado non più reversibile delle istituzioni centrali. Pompeo prova alcune riforme, cancella storture procedurali e politiche di cui tutti a Roma si lamentano, ma che nessuno in realtà, né tra il popolo né tra i nobili, ha convenienza a riformare. Il sistema è imploso.
Di qui la scelta irreversibile, dettata dal sospetto che il popolo non fosse più governabile, dal timore che qualcuno avrebbe aperto a Cesare (come infatti a Brindisi sarebbe di lì a poco avvenuto). Ma di qui anche il tormento dei senatori: partire e schierarsi con lui? Restare e sfidare la sua ira? Il disorientamento degli ottimati si condensa nelle ciniche ma immortali parole di Celio: «nelle guerre civili», scrive a Cicerone, «fintanto che la lotta si mantiene in termini politici, senza ricorrere alle armi, si dovrebbe seguire la parte più rispettabile; ma quando si giunge allo scontro armato, allora bisogna scegliere il più forte».
Una scelta disastrosa
Modelli minacciosi agiscono alle spalle dei due nemici: Cesare deve stornare il ricordo dei Celti, per non avallare l’idea, già serpeggiante, che il trionfatore della Gallia marci su Roma aiutato dai barbari. Pompeo deve far dimenticare il suo passato con Silla, e l’ombra truce delle proscrizioni. Ma un altro paradigma analogico lo scuote. Come dovrà agire: come Pericle, che aveva difeso Atene asserragliandosi all’interno? O come Temistocle, che aveva evacuato la città, trasferendola sulle navi? Lo strapotere della sua flotta, e l’appoggio che aveva a Oriente, persuadono Pompeo a portare senatori e «marescialli» verso Brindisi, a lasciare la terra d’Italia come altre volte avverrà nella storia. Una decisione che anche Fezzi giudica forse inevitabile, ma che darà esito per lui disastroso. E nondimeno occorrerà ricordare che tutto in quel momento doveva ancor compiersi, e che se Pompeo l’anno dopo avesse vinto a Farsalo - come pure sembrava possibilissimo - oggi saluteremmo in lui il nuovo Temistocle.
In preda al panico
Un ultimo pensiero: il libro potrebbe essere proficuamente letto, tra continuità e discontinuità, nel confronto con il Cesare di Luciano Canfora (Il dittatore democratico), uscito poco meno di una ventina d’anni fa, sempre per i tipi di Laterza. Ma è bene precisarlo: il libro di Fezzi è più pessimistico. Perché il cuore di queste pagine non pulsa attorno allo spudorato ma geniale calcolatore politico, che ha saputo guadagnarsi, da nobile, il favore del popolo. Qui il principio ordinatore lascia spazio al panico. La capitale di un impero con ambizioni universali (Polibio), popolata ormai da 500.000 abitanti, è abbandonata a sé stessa; la «feccia di Romolo» non ha più fiducia nella sua classe dirigente, prona e fuggitiva, e la città non sa più resistere. A chi solo minacci, o a chi sappia promettere, Roma apre le porte.
Vent’anni non passano invano: nemmeno nell’Italia di oggi.

La Stampa 23.10.17
Quante storie per un passaporto
Creato per individuare le spie, il più accettato è il tedesco, il meno l’afghano
di Vittorio Sabadin

I cittadini tedeschi hanno, insieme a quelli di Singapore, il passaporto più potente del mondo: possono visitare 158 Stati su 218 senza avere bisogno di un visto. Gli italiani non sono distanti in classifica, e possono andare liberamente in 156 nazioni, una in più degli americani. Sono molte le cose che non sappiamo del nostro passaporto e uno sguardo al divertente sito passport index e al libro The Secrets of Your Passport di Martin Lloyd riserva sorprese molto interessanti.
I colori, per esempio. I passaporti del mondo ne usano solo quattro: rosso, verde, blu e nero. Il verde, per motivi religiosi, è legato a Paesi islamici come l’Arabia Saudita, il Pakistan o il Marocco. Il bordeaux è caratteristico dei Paesi europei e della Turchia. Il blu identifica subito i cittadini americani e del Regno Unito, il nero Paesi africani come Ciad, Burundi, Botswana, Gabon, Malawi e Angola. Chi vuole distinguersi, come gli svizzeri, utilizza passaporti di un rosso accesso, preferito anche nei Paesi scandinavi.
Regine e spie
I passaporti dicono di noi molte più cose di quelle che crediamo e per chi li controlla all’aeroporto basta un’occhiata alla copertina per decidere l’atteggiamento da tenere: i titolari di passaporti blu o bordeaux se la caveranno in fretta, mentre chi ha un passaporto nero o verde sarà tormentato da mille domande e controlli, anche se sta andando a partecipare alle Olimpiadi. I siriani, ad esempio, hanno libero accesso a meno di 29 Stati, e gli afghani, ultimi in classifica, solo a 22. C’è poi il problema dei falsari, contro i quali si battono da decenni gli specialisti dei governi che riempiono di codici segreti sempre più difficili da imitare ogni pagina del documento. I passaporti norvegesi rivelano disegni delle aurore boreali se sottoposti a luce ultravioletta, quelli della Finlandia mostrano un alce in movimento se le pagine vengono fatte scorrere velocemente.
La Bibbia
Notizie del primo passaporto si trovano nella Bibbia, nel libro di Neemia: il re Artaserse I di Persia chiede ai governatori «oltre il fiume» di garantire libero accesso nella terra di Giudea al titolare del documento. La stessa formula è presente in molti passaporti contemporanei, ma non in quelli svizzero, finlandese e austriaco. Il primo a imporre che sul passaporto fosse indicato anche il nome del possessore fu il re inglese Enrico V, che comunque non lo usò quando invase la Francia. Ancora oggi, i passaporti britannici sono emessi nel nome della regina Elisabetta, l’unica persona autorizzata a non possederne uno. Molte novità che hanno riguardato i passaporti vengono dalla Gran Bretagna. La foto sul documento divenne obbligatoria nel 1914, dopo che una spia tedesca, Hans Lody, era riuscita a entrare nel Paese usando un passaporto americano.
La storia
Furono proprio le spie, che alla vigilia della Prima guerra mondiale andavano e venivano come gli pareva, a imporre in ogni Paese l’uso del passaporto e della fotografia. Le prime foto ritraevano i titolari a figura piena o in compagnia dei parenti. Arthur Conan Doyle, nel 1915, mise sul suo passaporto una sua foto con la moglie e i due figli, tutti seduti sul calessino. Prima della foto, sui passaporti britannici venivano annotati i lineamenti del titolare e, particolare anatomico decisivo, la grandezza del suo naso. Dal 2004 nella foto del passaporto è vietato sorridere. Bisogna mantenere un’espressione neutra per facilitare il riconoscimento facciale digitale. I selfie non sono ammessi e le fototessere tengono ancora in vita gli ultimi laboratori di fotografia non ancora sterminati dall’iPhone.
Il passaporto più ambito è quello diplomatico, che offre numerosi vantaggi: trattamento vip all’aeroporto, upgrade in volo, esenzione dai visti e dalle perquisizioni dei bagagli. Il presidente americano ne dispone a vita, anche dopo che il suo mandato è finito. Altrettanto potente è il passaporto del Sovrano Ordine di Malta, il più raro del mondo: ne sono stati emessi solo 500, destinati ai membri del Sovrano Consiglio, ai diplomatici e alle loro famiglie e agli inviati in particolari missioni. Molto più facile, se si ha bisogno di un passaporto raro, andare nelle isole Tonga il cui re Taufa’ahau Tupou IV lo vendeva per 20 mila dollari a chiunque ne facesse richiesta: esuli politici, rifugiati e delinquenti di tutto il mondo.

Corriere 23.10.17
Abe sbanca e può armare il Giappone
Trionfo del premier alle elezioni anticipate: ora avrà la maggioranza per riformare la Costituzione pacifista
di Guido Santevecchi

PECHINO La scommessa di Shinzo Abe ha pagato: il primo ministro del Giappone ha vinto le elezioni anticipate e può diventare il capo di governo di più lunga durata nella storia giapponese del dopoguerra. E anche lo statista che legherà il suo nome alla fine della Costituzione pacifista scritta nel 1947 sotto dettatura americana, sull’onda della disastrosa disfatta del Sol Levante imperialista.
Lo spoglio è stato ritardato da un tifone che sta spazzando l’arcipelago. Ma il Partito liberaldemocratico di Abe avrà almeno 283 seggi sul totale di 465 della Camera bassa della Dieta. Agli alleati di governo del Komeito sono attribuiti 29 deputati. Il resto all’opposizione: una cinquantina a testa al Partito democratico costituzionale (centro-sinistra) di Yukio Edano e al Partito della Speranza (centro-destra) della signora Yuriko Koike. I numeri sono importanti: il conservatore nazionalista Abe, 63 anni, per far passare in Parlamento la riforma costituzionale ha bisogno di una super-maggioranza dei due terzi, 310 seggi: sulla carta ne ha almeno 312. Dopo, potrà convocare un referendum popolare e cancellare l’Articolo 9 che per 70 anni ha consacrato la rinuncia giapponese alla guerra, in qualsiasi circostanza.
Ma con la vicinissima Nord Corea che si arma di missili a testata nucleare ha senso proclamarsi pacifisti a oltranza? Si può rinunciare a un esercito pronto a combattere? Lo spettro di Kim Jong-un ha avvolto la campagna elettorale e rilanciato l’immagine di Abe. A fine estate due missili lanciati per ordine del Maresciallo di Pyongyang hanno sorvolato l’isola di Hokkaido, poi Kim ha minacciato di «affondare» il Giappone intero. Secondo Abe il Giappone ha il diritto ad essere un Paese normale con una Costituzione e un esercito adeguati al pericolo. E ha anche il dovere di sostenere militarmente gli alleati americani in caso di conflitto. Mostrarsi pronto a tutto di fronte all’incubo di Kim ha aiutato il premier a recuperare popolarità dopo una serie di scandali che lo avevano indebolito portando il suo gradimento sotto il 30%.
Il premier ha giocato sull’inconsistenza dell’opposizione. Si è trovato di fronte la signora Yuriko Koike, 65 anni, ex giornalista tv, dal 2016 governatrice di Tokyo. Koike ha formato il Partito della Speranza e all’inizio volava nei sondaggi. Ma la bolla della Speranza si è sgonfiata quando Koike non si è saputa distinguere dal governo per programma economico e politico. La signora non ha neanche avuto il coraggio di candidarsi direttamente alle elezioni, preferendo la sicurezza della poltrona di governatrice della capitale. E ieri era a Parigi per una riunione di sindaci, in una missione-fuga dalla sconfitta annunciata.
L’avventura di Koike però non finisce. Siccome il Komeito, di ispirazione buddhista, non è convinto che cambiare la costituzione pacifista sia giusto, per far passare la riforma in Parlamento i voti della pattuglia della Speranza potrebbero contare parecchio. Koike, che in passato era stata ministra della Difesa con Abe, si è detta disposta ad appoggiare la revisione.
Nei primi cinque anni di governo la «Abenomics», basata anzitutto sulla leva finanziaria (il «quantitative easing» utilizzato anche da Usa ed Europa) ha garantito crescita, dopo vent’anni di recessione e stagnazione. Il Pil sale intorno al 2,5% annuale, la Borsa è al massimo dal 1996. Il tasso di disoccupazione è al 3%, quota fisiologica secondo gli economisti.

Repubblica 23.10.17
Elezioni a Tokyo e congresso comunista: così le leadership delle potenze regionali si consolidano davanti al bellicoso Kim Jong-un
Abe si rafforza come Xi Jinping Sono loro le due tigri asiatiche
Il premier giapponese ha ora i numeri per cambiare la Costituzione pacifista del paese Pechino vuole avere un ruolo più attivo anche grazie a un “esercito di livello mondiale”
di Angelo Aquaro

PECHINO QUAGGIÙ in Asia c’è un signore che ha cambiato le regole del gioco per rafforzare il suo potere: e quel signore non è, o non è solo, Xi Jinping. La scommessa del voto anticipato stravinta in Giappone da Shinzo Abe è l’ultimo atto dell’arroccamento del piccolo imperatore, che in primavera aveva già modificato lo statuto del partito per poter ricandidarsi una terza volta — e diventare così il premier più longevo del Sol Levante.

PECHINO LE elezioni indette sotto la minaccia della Bomba di Kim Jong-un gli consentiranno adesso di riformare la costituzione pacifista imposta dagli americani dopo gli orrori di una guerra mondiale culminata con il fungo di Hiroshima: e oggi rinnegata, nominalmente, sull’onda dell’atomica di Kim, ma sotto sotto su quella lunga e indicibile del potere crescente della Cina. E che succede, intanto, a Pechino?
IL PARTITO COMUNISTA
Il 19esimo congresso del partito comunista si chiuderà domani iscrivendo nella costituzione il pensiero del leader: un privilegio fin qui spettato soltanto al padre della patria Mao Zedong. Ma quando, il giorno seguente, la tradizionale sfilata sul palco del plenum svelerà, appunto platealmente, gli equilibri del nuovo gruppo di potere, tra i Magnifici Sette del Comitato permanente potrebbe non spuntare il profilo dell’erede designato. Xi è ormai così forte da poter pensare, anche lui, a un terzo mandato: e da poter cambiare, da subito, le regole per la verità non scritte della designazione del delfino.
LA PARTITA GLOBALE
Non è una diatriba tra politicanti. La partita riguarda anche noi, e molto da vicino. Perché questo è l’Impero che secondo le previsioni degli economisti sorpasserà entro il 2025 l’America oggi nelle mani di Donald Trump: sancendo «per la prima volta dagli inizi del XIX secolo», nota Richard McGregor nel suo “Asia’s Reckoning”, l’ascesa al numero uno al mondo di una potenza «che non parlerà inglese, non sarà occidentale e non sarà democratica». E che nelle parole al Congresso di President Xi è pronta — realizzato «un esercito di livello mondiale» — a «offrire un’opzione agli altri paesi che vogliono accelerare sullo sviluppo preservando la loro indipendenza»: vera e propria alternativa al modello capitalistico sbandierato negli ultimi settant’anni dagli Usa. È il Chinese Dream di Super Xi: che sogna entro vent’anni una potenza davvero «globale ». Domanda: la Cina entrata in un “nuova era” è irrimediabilmente destinata alla guerra, secondo il pronostico del fortunato saggio di Graham Allison?
La geopolitica non rispetta la geometria, e qui le rette parallele del nuovo Mao e del piccolo Imperatore rischiano di incrociarsi pericolosamente. Shinzo Abe è stato il primo leader mondiale a correre alla Trump Tower, terrorizzato dall’ascesa del Dragone bruciato per sempre dalla ferita dell’invasione giapponese che capovolse millenni di vassallaggio non solo intellettuale. E dopo l’addio del nuovo presidente al Tpp, l’alleanza commerciale Transpacifica sognata dal presidente democratico Barack Obama per contrastare l’espansione made in China, è lui l’ultimo leader pronto a sdraiarsi sulla nuova via della seta da mille miliardi, opponendo l’alleanza tecno-commerciale con l’India del premier Narendra Modi.
LA VISITA DI TRUMP
Due tigri, dice un proverbio cinese che non promette nulla di buono, non possono stare sulla stessa montagna. Tanto più adesso che sul cucuzzolo si sta per affacciare quel presidente che vorrebbe presentarsi come domatore ma finora, in gabbia, sta spingendo la diplomazia. La prossima settimana quaggiù in Asia arriva dunque Trump per una visita che servirà certo a lanciare l’ultimatum a Kattivissimo Kim, a rassicurare Abe (anche sulla modifica di una costituzione scritta dagli yankees) e a piantare gli ennesimi paletti con Xi. Ma servirà soprattutto a farci capire — ha spiegato a Repubblica lo storico Rana Mitter — come il leader del mondo libero intende, se intende, continuare ad allungare la sua ombra fin qui.
Riassunto dei paragrafi precedenti: quaggiù in Asia ci sono almeno due signori che stanno cambiando le regole del gioco per rafforzare il proprio potere. Ma chi fermerà mai il signorino che le regole non le ha mai seguite, e l’unico gioco che conosce è la Bomba?


Repubblica 23.10.17
Steve Bannon era lo stratega di Trump
Anzi, lo è ancora
di Alberto Flores D’Arcais

NEW YORK. Quando il 18 agosto scorso Steve Bannon venne cacciato dalla Casa Bianca (dopo le marce e le violenze dei gruppi neo-nazisti a Charlottesville), furono in molti a pensare che la incredibile carriera da ‘eminenza nera’ dello stratega (che aveva fatto vincere le elezioni a The Donald) avesse avuto un alt decisivo. Quando un mese fa si schierò nelle primarie in Alabama contro il senatore uscente repubblicano (sostenuto proprio dal presidente Trump), portando alla vittoria un suo protetto, venne considerato definitivamente fuori dai giochi: e la sua dichiarazione di sfida aperta («è iniziata una stagione di guerra nel partito repubblicano») venne accolta con scetticismo dai vertici del Grand Old Party, dall’entusiasmo (un po’ miope) dei democratici e da qualche analisi di troppo sulla ‘svolta moderata’ del presidente.
Un mese dopo la situazione è un po’ diversa. The Donald e il suo (ex) profeta nel frattempo tornato alla direzione di Breitbart, il sito della destra ‘suprematista’, razzista e alternativa che ha sempre più peso nell’elettorato populista di Trump - non soltanto continuano a sentirsi molto spesso (più volte alla settimana rivela il Washington Post), ma il presidente chiede (e accoglie) oggi più che mai i consigli, ritenuti preziosi, del suo (ex) ispiratore-principe.
Poco importa se (per evitare la rottura definitiva con l’establishment repubblicano e i suoi grandi finanziatori) Trump abbia deciso di appoggiare altri candidati senatori invisi a Bannon. Quello di The Donald appare più come un gioco delle parti che non come una scelta convinta.
Perché sa che l’uomo che lo ha portato alla Casa Bianca (e che oggi si definisce un ‘gregario’ di The Donald) è quello che meglio interpreta gli umori del suo elettorato.

Repubblica 23.10.17
Maro Isnenghi
“Solo chi cade può risorgere così Caporetto si trasformò in un’occasione di riscossa”
intervista di Paolo Rumiz

A cent’anni dalla disfatta italiana più celebre lo storico Mario Isnenghi invita a sfatare i luoghi comuni nazionali e a guardare i fatti in prospettiva
Professor Mario Isnenghi, storico e studioso della Grande Guerra: cosa fu Caporetto per l’Italia? «Uno scatenamento dell’immaginario, il virtuale che si sovrappone al materiale. Qualcosa che va molto oltre la dimensione militare ed entra nella psicologia e nella politica. In due settimane di caos si giocano i destini d’Italia. Un momento quasi onirico della nostra storia, in cui, in assenza di informazioni effettive, ciascuno reagisce secondo le proprie ideologie e pregiudizi ».
Un incubo.
«Le classi dirigenti possono leggervi la fine della passività del popolo, quindi dell’obbedienza. Si pensa a uno sciopero militare, alla Russia in Italia. Il ’17 è un anno di cambiamenti: in Russia è stato rovesciato lo Zar, a Roma il Papa ha gridato contro la “inutile strage”. I popoli sono stanchi di guerra, lo slogan “Basta trincee” si diffonde».
Figurarsi Cadorna.
«Per il generalissimo il migliore degli eserciti è quello apolitico e passivo. Così egli legge nella resa in massa che attribuisce ai soldati un sogno inaudito delle classi popolari. Il sovvertimento dell’ordine. Cosa che non è. Non esistono rivolte disarmate».
Che cos’è Caporetto allora?
«Liberata dalla sconfitta, l’affiorante voglia di finirla con la guerra. Nel libro La rivolta dei santi maledetti, Curzio Malaparte, interventista e volontario già nel ’14 in Francia, spiega Caporetto come l’insofferenza di un popolo in divisa che non ne può più dei suoi comandanti. Il gregge è stanco, insomma.
Ma dopo la ribellione ritorna il gregge di prima».
E poi c’è il caos degli ordini.
«Certamente. Dei soldati hanno avuto, dicono, l’ordine di andar via. Subordinati anche nella ribellione... O non hanno ricevuto nessun ordine. Come da parte di Badoglio, le cui disposizioni non sono mai arrivate alle artiglierie. Gli stessi giornalisti embedded aggregati al quartier generale non lesineranno critiche agli alti comandi».
Ma si dà la colpa ai soldati...
«Nel famigerato bollettino del 28 ottobre, Cadorna addossa tutta la responsabilità a reparti della Seconda armata. Un proclama che rischia di abbattere ulteriormente il morale e tace sui tanti episodi di resistenza anche disperata. E questo in un momento in cui tutto può accadere, anche il tracollo. In quelle ore il Piave non è ancora nell’aria. Si parla di arretrare fino al Mincio. O addirittura al Po...».
E poi c’è l’efficacia tedesca.
«I tedeschi non erano gli austriaci. Il concetto di passività di un esercito-massa non era preminente. Nelle truppe germaniche anche un piccolo sottufficiale era autorizzato a prendere iniziative in funzione di un obiettivo da raggiungere. L’Italia si è trovata, così, di fronte a una cultura militare e, direi, anche a un tipo di cittadinanza diversa».
Italiani cattivi soldati?
«Giorgio Rochat, storico militare, dimostra che il nostro soldato è all’altezza degli altri, se ben comandato. Non dimentichiamo che i francesi sono stati bastonati esattamente come noi dalle nuove, agili strategie tedesche impostate sulle Sturmtruppen. Ma hanno fatto assai meno autoflagellazione».
Come ci leggiamo come popolo?
«Caporetto sembra fatta apposta per confermare i pregiudizi degli “anti-italiani” d’Italia, presenti in ogni schieramento. In quella destra che lamenta che non saremo mai un popolo guerriero, e in quegli “azionisti” che leggono in noi un difetto di cittadinanza in senso europeo, a causa di un nostro irrimediabile familismo amorale. Giorgio Bocca per capirci».
Fu uno shock salutare?
«È l’idea di Prezzolini. Vittorio Veneto che si spiega con Caporetto; la redenzione che nasce dal peccato... C’è del vero in questo: tutta la memorialistica dice che la batosta genera una frustata di orgoglio. Il “noi” che rinasce dalla fondo della disgregazione. A Caporetto l’Italia poteva andare a pezzi, e frammentarsi per linee sociali. Esattamente come nel ’18 l’Austria si sarebbe decomposta per linee nazionali ».
Cambia anche lo stile di comando...
«Intendiamoci, la repressione c’è ancora. Ma Diaz si cura del morale della truppa, si lascia affiancare da collaboratori. Discute con i politici, tiene conto della pubblica opinione. Costruisce una propaganda efficace con i giornali di trincea. Tutte cose che Cadorna non faceva. Diaz ha anche il vantaggio della difensiva, in una guerra dove chi attacca subisce perdite maggiori. E ha 200 chilometri di fronte in meno da difendere».
Caporetto resta un mistero?
«No. Semplicemente è un evento che non si è mai finito di studiare. I libri recenti di Gaspari, di Falsini e anche di Labanca evidenziano, nella disfatta, un arcipelago di focolai di resistenza finora rimasti nell’ombra. Una cosa è la memoria collettiva, oggetto di studio essa stessa, naturalmente . Altra cosa sono i fatti appurati ».
Com’è Caporetto vista dal nemico?
«Qui sto lavorando a un libro assieme allo storico militare Paolo Pozzato. C’è una corposa mole di memorialisti e narratori da esplorare. I loro scritti trasudano incredulità per l’armistizio chiesto da un’Austria che fin quasi all’ultimo aveva costretto l’Italia in difesa sul Piave. È una visione solo militare della guerra. Non capiscono che le rivoluzioni nazionali dei popoli dell’Impero non sono “altra cosa” rispetto al conflitto militare».
Questi narratori come descrivono gli Italiani?
«Come un popolo inadatto alla guerra. Figli di una nazione fedifraga. Non dicono che i tedeschi disprezzavano gli austriaci, che anni prima erano stati annichiliti dalla Prussia nella battaglia di Sadowa. Vivono un latente pangermanesimo che li rende subalterni ai tedeschi stessi, senza i quali, del resto, niente Caporetto ».
Che differenza c’è fra Caporetto e l’8 settembre?
«Furono entrambi un “Tutti a casa”, no? Se è vero che l’8 settembre è riassorbito dalla Resistenza, perché non riassorbire Caporetto in Vittorio Veneto?».
Che memoria abbiamo del ’18?
«La vedremo presto in azione. Sono curioso di vedere se ci sarà interesse a parlare di Vittorio Veneto, finale effettivo, e anche di Caporetto come finale possibile. Eppure, paradossalmente, spremuto il mistero di Caporetto, non sarebbe il caso di dedicarsi al... mistero di Vittorio Veneto?».