domenica 22 ottobre 2017

Repubblica 22.10.17
Una nuova cortina di ferro dilaga a destra della vecchia Europa
di Paolo Garimberti

L’ATTRAZIONE per l’uomo forte è radicata nel Dna di quella parte di Europa che per decenni è stata racchiusa al di là della “cortina di ferro”, quella linea divisoria tra democrazie e totalitarismi, tra la libertà e la repressione, che dal 1945 al 1989 ha spaccato in due il continente.
La caduta del muro di Berlino e, a seguire, la fine dell’Unione Sovietica e del suo impero satellitare, sembravano aver provocato una mutazione genetica, sollecitata nella coscienza popolare da una generazione di leader visionari, che avevano patito l’emarginazione e il carcere negli anni del comunismo e avevano impersonato la riscossa raccogliendo nelle piazze decine di migliaia di persone osannanti quando gli oppressori erano fuggiti in modo disonorevole.
Ma le “primavere” democratiche di Walesa, di Havel e dei loro epigoni non ebbero lunga durata, nonostante l’assistenza e l’accoglienza di quell’altra Europa, che da tempo aveva voluto chiamarsi Comunità e poi Unione e che a partire dal 2004 fece diventare membri del suo club gli ex satelliti dell’Urss. L’“intelligentsija” liberal-democratica, che aveva preso la guida della transizione post-comunista, finì per essere travolta dalla sua stessa ingenuità politica e di un approccio amatoriale ai grandi temi dell’economia e dei bisogni della popolazione, cedendo il passo a un’ondata demagogica e populista, che ha portato al governo i partiti di personaggi improbabili, come Jaroslaw Kaczynski in Polonia, Viktor Orban in Ungheria, lo stesso Robert Fico in Slovacchia, con il denominatore comune dell’euroscetticismo e dell’ostilità agli immigrati. L’ultimo della serie è Andrej Babis, vincitore ieri delle elezioni nella Repubblica Ceca con un partito il cui nome è già un manifesto programmatico: Ano (che in ceco vuol dire “sì”, acronimo di “Azione per i cittadini insoddisfatti”). Babis è un condensato di una tipologia politica che ha forti connotati comuni con gli oligarchi che hanno popolato la galassia russa dopo la fine dell’Urss. È molto facoltoso (ma le origini della sua fortuna sono opache), tanto da essere definito «il Trump ceco», ha un padre che faceva parte della “nomenklatura” comunista, ha tracce di servizi segreti nel suo passato, che evocano una vaga somiglianza con Vladimir Putin. E, comunque, come ha detto un giornalista ceco, è «un populista universale».
Il paradosso è che la deriva nazional-populista ed euroscettica degli ex satelliti dell’impero sovietico è cresciuta parallelamente al loro inserimento nell’Europa comunitaria. Come se il loro passaporto biologico reclamasse delle coordinate storiche insopprimibili, che si sono manifestate perfino nei dati elettorali della vecchia Germania Est, mai del tutto integrata e convinta dell’unificazione voluta da Helmut Kohl e benedetta allora da Mikhail Gorbaciov come auspicio di un’Europa che andasse davvero «dall’Atlantico agli Urali». Il cosiddetto “gruppo di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), che era nato appunto nel segno di quella «casa comune europea» evocata dall’ultimo leader sovietico, è diventato il capofila dell’ostilità alla «euroburocrazia», al centralismo di Bruxelles, alla politica dell’accoglienza, e il vociante portavoce della lotta contro la «discriminazione basata sulla moneta» (l’eurozona). Con il risultato che gli ultimi arrivati dall’Est hanno sopravanzato i vecchi campioni dell’euroscetticismo, da Silvio Berlusconi a Le Pen per finire con i “brexiters”, attraendo nuovi alleati a Ovest, come Sebastian Kurz, vincitore delle recenti elezioni austriache.
La vecchia Mitteleuropa diventa così il bacino dove confluiscono tutti i rivoli dello scontento, sia di quei Paesi che della Ue sono già membri, ma si sentono di “serie B” (come la Romania e la Bulgaria, sia di quelli che avrebbero voluto entrare ma sono ancora fuori dall’uscio. A cominciare dai Balcani, dove ci sono ben sei aspiranti: cinque (Albania, Bosnia, Kosovo, Macedonia e Montenegro) più la Serbia, il pesce più grosso dove il disincanto è ai più alti livelli: solo il 43 percento dei serbi dice oggi di voler entrare in Europa contro il 67 percento nel 2009. Con Putin che alimenta il fuoco, sventolando la bandiera della fratellanza slava. Così come minaccia rappresaglie verso le ex repubbliche sovietiche che dal 2009 sono oggetto delle attenzioni della Ue con un programma di “partnership”, che langue sempre di più: dall’Armenia alla Georgia per finire alla più concupita (e più minacciata da Putin), cioè l’Ucraina.
Così una serie di fattori (interessi nazionali, differenti valori, divergenti visioni sul futuro) hanno reso la vecchia Mitteleuropa e le vestigia dell’impero sovietico un terreno minato per l’Unione europea. Come se la cortina di ferro, che sembrava sradicata per sempre, fosse rinata dalla sue ceneri.