Repubblica 21.10.17
La falsa ribellione
di Ezio Mauro
C’È
un’evidente ansia da campagna elettorale permanente, ben più che una
preoccupazione per la sicurezza dei correntisti bancari e dei
risparmiatori, nell’offensiva di Matteo Renzi contro il governatore
della Banca d’Italia Visco. Non c’è alcun dubbio che il tema del
risparmio, del credito e della solidità delle nostre banche agiti la
pubblica opinione, che dopo i casi Monte Paschi, Etruria e Vicenza si
sente esposta, raggirata e ben poco tutelata dai meccanismi e dagli
istituti di salvaguardia del sistema. Quindi è comprensibile e persino
doveroso che i leader trattino la questione in vista del voto, quando è
il momento del rendiconto sul passato e degli impegni per il futuro. Ma
Bankitalia non è l’Anas o la Cassa del Mezzogiorno: e delle banche si
può discutere, e anzi si deve, ma senza gettare un’istituzione di
garanzia nel tritacarne del vortice elettorale.
Che ci sia stato
un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle
fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio,
perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire
sulla solidità certa dell’impianto, a partire da via Nazionale, e dallo
stesso Governatore.
MA SE si considera che questa miopia viene da
lontano, anche prima di Visco, nasce una domanda obbligatoria: dov’era
la politica nel frattempo, che cosa capiva e che cosa faceva?
Soprattutto,
l’interrogativo è se la politica era dalla parte dei cittadini e dunque
dell’interesse generale o piuttosto se era coinvolta negli ingranaggi
più bassi che hanno rallentato e deviato il corretto procedere del
mercato bancario: con una commistione insieme provinciale e onnipotente,
che considerava il credito come un prolungamento della politica con
altri mezzi, impropri ma utili a creare consorterie, consolidare
confraternite, insediare nomenklature locali. Comperando consenso e
potere, e inseguendo il conflitto d’interessi certificato dallo slogan
“abbiamo una banca”, piuttosto che la cornice di garanzia costruita con
l’obiettivo di poter dire “abbiamo una regola”.
Se si apre il
libro delle responsabilità — in ritardo, con tutti i buoi già scappati e
nutriti da un buon pascolo abusivo nel prato dei risparmiatori — il
rendiconto deve essere dunque a 360 gradi e ogni soggetto politico e
istituzionale della lunga stagione della crisi deve rispondere. A
partire dalla Banca centrale, certamente, ma anche da chi ha avuto in
questi anni responsabilità di governo e di indirizzo. Altrimenti si
trasmette l’idea di un piccolo cortocircuito elettorale, con il giglio
appassito che appicca l’incendio a via Nazionale perché non riesce a
spegnere il fuoco che lo perseguita ad Arezzo.
E qui nasce
un’altra questione, che va al di là della campagna elettorale e della
stessa vicenda bancaria. Di fronte all’isolamento di cui ha parlato qui
Stefano Folli, alla “biografia” civile di Bankitalia rievocata da
Scalfari, Renzi ha infatti risposto ricordando che lui nasce
rottamatore, e non intende cambiare. Forse non si è accorto che in
questo modo ha evocato una natura più che una cultura, addirittura una
postura mimetica invece che una politica. A parte la distorsione
concettuale per cui la cosiddetta rottamazione per il segretario Pd si
applica agli uomini, alle persone fisiche, e non ai loro progetti e alle
loro azioni politico- programmatiche, viene da domandarsi quale sia
l’universo di riferimento culturale di un leader se dopo tre anni di
guida del governo è ancora prigioniero del ring agonistico di un
wrestling sceneggiato che non finisce mai: dove lui e coloro che eleva
di volta in volta ad avversari indossano maschere di comodo, sostituendo
l’azione fisica all’azione politica.
Quando passa in rassegna il
drappello d’onore della Repubblica, dopo aver ricevuto dal Quirinale
l’incarico di formare il governo, anche lo sfidante più outsider si deve
trasformare in uomo di Stato, facendosi carico di una responsabilità
complessiva, che naturalmente interpreterà secondo la sua cultura e la
sua vocazione politica. Renzi sembra fermo al ground zero della sua
avventura nazionale. Senza avvertire che quella sfida iniziale ha
portato nel sistema una fortissima tensione per il cambiamento, ma
quando il cambiamento non si è realizzato la sfida permanente ha
lasciato sul campo soltanto la tensione, che Gentiloni sta stemperando a
fatica.
In questo ribellismo delle élite c’è la sciagurata
illusione di inseguire il grillismo sui suoi temi, impiegando il suo
linguaggio e mimando la sua riduzione della politica a continua
performance, in una sollecitazione perenne dell’elettorato contro nemici
ogni volta diversi, ma che evocano costantemente il fantasma della
casta. È la costruzione succube di un universo gregario. Anche se in
realtà Renzi insegue il se stesso delle origini, senza capire che
proprio l’esperienza di governo dovrebbe aver arricchito il rottamatore
trasformandolo in ricostruttore.
Resta una domanda: il Pd tutto
questo lo sa? Ha mai discusso di questi temi? Ha mai chiesto al
segretario di illustrare politicamente la sua cultura invece di
limitarsi a esibire la sua natura? Ma arrivati a questo punto, proprio
qui, si dovrebbe aprire la questione decisiva della natura del Pd: che
resta l’unico segreto davvero custodito in Italia.