Repubblica 2.10.17
A 3 mesi dalla morte
Rodotà, giurista che metteva la persona sopra le regole
di Gustavo Zagrebelsky
Oggetto
polemico di tanti suoi scritti è la logica proprietaria che fagocita
tutto e tutti nei meccanismi del mercato e mercifica ogni bene Fin dagli
anni Settanta, quando nessuno ne parlava, pubblicò un saggio sul
controllo sociale prodotto dagli elaboratori elettronici “ “
Sapeva
benissimo che al di là del diritto c’è molto altro che guida più o meno
degnamente le condotte umane: cultura, etica, interessi
Difendendo
la Costituzione poneva al centro la tutela di una democrazia
partecipativa contro la cosiddetta “democrazia decidente”
NEL
1968, se la memoria non m’inganna, si tenne a Bologna nella sede della
casa editrice il Mulino un incontro tra giovani e giovanissimi giuristi
promosso da quell’infaticabile cercatore di idee nuove e di studiosi
innovatori che fu Giovanni Evangelisti. Stefano Rodotà, che aveva 35
anni ed era già considerato da tutti i presenti un punto di riferimento e
di rinnovamento, fece una relazione inquadrata in quel tempo, un tempo
che si pensava potesse essere, se non epocale, almeno fecondo di novità.
La sua relazione si sarebbe potuta intitolare: «Sullo stato presente e
sui compiti futuri dei giuristi e della scienza giuridica». Non so se
sia stata mai pubblicata. C’ero anch’io, ma non temiate ch’io voglia
parlare di qualcosa come “Io e Rodotà”. Questo accenno serve solo a
introdurre un altro ricordo: Evangelisti che, a incontro concluso, disse
ad alcuni dei presenti: attorno a quel giovanotto voglio costruire
qualcosa come una comunità di giuristi che guardino avanti, che
rinnovino la cultura giuridica, la pongano al servizio non di vuoti
concetti o di poteri ormai screditati: in una parola, una visione del
diritto capace di contribuire alla costruzione di una società rinnovata.
Stefano
doveva occupare il posto centrale di un mosaico. Queste, naturalmente,
sono parole mie, non i concetti; ma “quel giovanotto” è testuale. Che
cosa accadde allora? Sempre sotto l’egida del Mulino, si promossero
alcuni incontri a Tirrenia, comune di Pisa, noto per l’architettura e
l’urbanistica fascista e per le dune di sabbia sul mare, di cui non si
approfittò perché, dati i prezzi degli alberghi, era sempre bassa
stagione e il tempo proibitivo. Stefano stava al centro. Attorno,
ricordo tra gli altri Alessandro Pizzorusso, Sabino Cassese, Natalino
Irti, Franco Ledda, Franco Levi, Franco Merusi, Valerio Onida, Franco
Bassanini, Giorgio Berti e un già allora spumeggiante Giuliano Amato. Si
formò quello che allora si definì il “Gruppo
di Tirrenia”, tra
persone unite da una vaga aspirazione riformatrice del nostro mondo: se
non una corazzata, certo un potente incrociatore del diritto. Gli
incontri proseguirono a Venezia (auspice Feliciano Benvenuti), Napoli,
Cortona. I più giovani tenevano particolarmente a essere invitati a
partecipare, come a una sorta di promozione sul campo e come viatico per
future carriere accademiche. Evidentemente, però, le riforme non sono, e
non furono allora, un collante sufficiente a tenere insieme tanti
brillanti intelletti: diciamo pure, tante prime donne. Molti di quelli
che ho nominato non ci sono più. Quelli che restano sono andati ciascuno
per la propria strada e il progetto iniziale è andato perduto. Non del
tutto, però.
Nel 1969 fu fondata una rivista, Politica del
diritto, che raccoglieva se non il programma di Tirrenia — un vero e
proprio documento con questo nome non è mai stato partorito — ma certo
lo spirito, l’impegno e le speranze. Questa rivista, alla quale
collaborarono giuristi di cui ho già fatto il nome e altri a lor
compagni, suscitò reazioni nel sereno mondo dell’accademia tradizionale,
più disposta a privilegiare la quiete sulle novità che possono portare
scompigli. Si ricorderà che, quasi come reazione alle teste calde di
Politica del diritto, nel 1976 fu fondata da illustri giuristi
rappresentativi dell’establishment, Giovanni Cassandro, Vezio Crisafulli
e Aldo Maria Sandulli, un’altra rivista dal tono più rassicurante,
Diritto e società. Questo per dire dello spirito di novità e delle
reazioni suscitate. Politica del diritto esiste tuttora e Stefano fino
all’ultimo ne è stato il direttore. Se mi soffermo su questa
pubblicazione è perché il suo progetto scientifico, al di là della sua
attuale diffusione, corrispose e tuttora corrisponde a una tendenza e a
una esigenza ancora presente che Stefano Rodotà ha rappresentato e
interpretato come meglio non si sarebbe potuto, per quasi mezzo secolo.
Si trattava di fare del diritto e della sua cultura una forza efficiente
di trasformazione della politica e della società, nel segno e nel solco
che i principi della Costituzione prefigurano. A questo fine, il mondo
stretto del diritto avrebbe dovuto aprirsi e guardare il vasto mondo, un
mondo che, allora, stava cambiando. Politica del diritto non era certo
una proposta di asservimento del diritto alla politica e ai suoi attori.
Non proponeva affatto che i giuristi diventassero forze collaterali di
questo o di quel partito. Non voleva politicizzare il diritto in questo
senso. Semmai aspirava a giuridificare la politica, cioè a inquadrare
quest’ultima in categorie giuridiche adeguate alle esigenze dei tempi,
esigenze che erano di rinnovamento, di espansione della democrazia, di
valorizzazione di diritti e di uguaglianza. In breve, era anche una
proposta di etica per gli studiosi del diritto: né soltanto avvocati e
nemmeno solo consulenti, ma soprattutto attori nella sfera del dibattito
pubblico con gli strumenti del diritto.
Se guardiamo alle idee e
ai propositi di quel tempo giovanile, dobbiamo constatare che molto s’è
perso per strada, che poco è rimasto e non molto di quelle speranze ha
fatto scuola. L’energia originaria si è dispersa in tanti rivoli. La
cultura giuridica rappresentata da quel progetto e da quel gruppo di
giovani e meno giovani di belle speranze non ha resistito alle tante
tentazioni che, come da sempre, propongono ai giuristi funzioni
ancillari di interessi particolari, interessi che dispongono di numerosi
e molto persuasivi strumenti seduttivi.
Non così Stefano Rodotà.
In questo “ non così” possiamo dire essere racchiuso il segreto d’una
certa aura di autorevolezza che lo circondava, riconosciuta anche da
coloro che ne hanno contestato la figura pubblica, talora non temendo di
dar di sé prove di trivialità e prove d’ignoranza. Tutto nella sua
attività scientifica: libri, articoli, conferenze, interviste, commenti
giornalistici, promozione — come si dice — di eventi ( soprattutto il
Festival del diritto di Piacenza, di cui lamentiamo l’interruzione);
tutto, dicevo, testimonia una coerenza che non è solo un aspetto della
sua personalità ma è anche l’adesione a una certa idea del diritto e del
giurista. Il diritto non esiste se i giuristi non esitano a farne usi
occasionali che finiscono con il coincidere con l’interesse personale.
Se non esiste qualcosa come “ i giuristi”, rappresentativi di un’unità
se non di risultato almeno d’intenti, il diritto è distrutto e, invece
di contribuire alla convivenza, alimenta la discordia. Quanto ho detto
adesso si vede facilmente quando da “ i giuristi” passiamo a quella
categoria particolare che sono “ i costituzionalisti”. Che cosa è la
Costituzione se ogni questione di diritto costituzionale alimenta le
opinioni più diverse in contrasto le une con le altre e motivate da
finalità divergenti? La conseguenza è una sola: la Costituzione sparisce
e nella lotta politica, che dovrebbe trovarvi la sua regola, prevalgono
gli interessi politici di breve durata. Chiunque, per quasi qualsiasi
buona o cattiva azione, trova il parere del costituzionalista, talora il
“parere pro veritate”, che gli conviene. Non so perché l’essere
“costituzionalisti” goda d’un certo plusvalore presso i formatori della
pubblica opinione. Stefano Rodotà era spesso definito tale ma, tutte le
volte che poteva, reagiva con un piccolo sorriso sardonico: non
costituzionalista, non sum dignus sembrava sottintendere con un poco
d’ironia, ma civilista. Insomma, sembrava volesse marcare una distanza e
non confondersi rispetto a un mondo che, da questi anni, è andato
disgregandosi e contribuendo alla confusione.
Ma i confini delle
discipline accademiche hanno un senso per chi si interroga a partire non
dai dogmi e dai concetti, ma dalla funzione del diritto nella vita
civile? Il percorso intellettuale di Stefano Rodotà è particolarmente
significativo. È stato giurista al di sopra delle classificazioni
disciplinari. Aggiungo: giurista non totalizzante, non fanatico delle
cosiddette “regole”. Sapeva benissimo che al di là del diritto c’è molto
altro che guida più o meno degnamente le condotte umane: cultura,
etica, interessi. C’è, del 2006, un suo libro che mi pare dovrebbe
essere letto e meditato di più di quanto lo sia stato. S’intitola La
vita e le regole. Tra diritto e non diritto. Non tratta soltanto degli
aspetti giuridici di ciò che da qualche anno si usa definire “la nuda
vita”; tratta dei limiti del diritto, dei pericoli del guardare il mondo
solo con occhi del giurista, dell’illusione di credere che il mondo
stia in piedi perché c’è il diritto e ci sono i giuristi. I suoi studi
sul concetto di “persona” dicono quanto è sbagliato considerare la
persona solo come “persona giuridica”, cioè come fascio, punto
d’imputazione di diritti e di doveri, secondo la concezione kelseniana.
Fatta questa delimitazione delle pretese del diritto, tra ciò che
rientra nel suo ambito, è oggi impossibile costruire steccati. Stefano è
stato un illustre civilista ma, evidentemente, non soltanto.
Consultiamo i temi delle sue opere maggiori, seguendone i percorsi.
All’inizio
stanno due libri su temi del diritto civile che più “classici” non
potrebbero essere, la responsabilità civile ( Il problema della
responsabilità civile del 1964) e il contratto ( Le fonti d’integrazione
del contratto, del 1969). Chi consultasse questi primi scritti vi
troverebbe una traccia che avrebbe portato lontano: l’impostazione non
formalistica che collega il diritto non al diritto, cioè con sé stesso
in un circolo vizioso, ma al diritto in funzione della sua — potremmo
dire — “giustezza” rispetto alle aspettative sociali. Del 1967 è lo
scritto che mette in rapporto l’oggetto dei suoi studi con il contesto
culturale in cui si posa, si è posato in passa- to e si vorrebbe che si
posasse in futuro, Ideologie e tecniche della riforma del diritto
civile. Di quegli anni è il libro forse più famoso, Il terribile diritto
(1981) più volte ripubblicato fino all’edizione del 2013 che porta
un’aggiunta nel titolo: Studi sulla proprietà privata e i beni comuni.
Questa riedizione- integrazione è una testimonianza della continuità del
suo impegno scientifico e civile. L’idea, anzi la categoria ricorrente
come oggetto polemico in tutti i suoi scritti è la “logica proprietaria”
o, potremmo dire, rapace, la logica che fagocita tutto e tutti nei
meccanismi del mercato e mercifica ogni bene mettendolo a disposizione
della predazione dei più forti e sottraendolo ai deboli. Contro questa
forza distruttiva delle relazioni tra gli esseri umani stanno
innumerevoli scritti e interventi nelle più diverse sedi. Mi limito a
ricordare Logica proprietaria tra schemi ricostruttivi e interessi reali
del 1978. Ma la critica alla logica proprietaria e, in fin dei conti,
all’egoismo dei potenti che schiaccia gli impotenti dividendo la società
in due parti è il filo conduttore di tutti gli scritti, direi di tutto
il suo impegno a favore di un’etica dei diritti. Di diritti e libertà,
Stefano si confessò “innamorato” nel suo intervento del 2004 alle
Lezioni Bobbio (Einaudi, 2006) e, in effetti, come tutti gli innamorati
che non sanno staccarsi dal loro amore, le occasioni per ritornare a
esso, approfondire, denunciarne i tradimenti sono state numerosissime.
Non è possibile, in questa sede, nemmeno farne un elenco. La summa del
suo pensiero è raccolta nel fortunatissimo volume Il diritto di avere
diritti del 2012 che già nel titolo — una citazione da Hannah Arendt la
quale si riferiva alla condizione degli ebrei d’Europa sradicati,
privati d’ogni diritto e esposti a qualsiasi impune violenza — si volge a
considerare la condizione di coloro, sempre più numerosi nel tempo
attuale, che dalla concentrazione dei capitali, dall’economia e dalla
tecnologia alleate in una corsa frenetica, dalla depredazione dei
territori e dai disastri ecologici, sono privati della base stessa da
cui poter reclamare una qualsiasi protezione: gli sradicati della terra.
Non sempre, dunque, i diritti producono frutti benigni. I diritti dei
potenti, quando entrano in conflitto con la condizione degli impotenti,
producono effetti perversi. Diventano volano per accrescere le
ingiustizie e le distanze sociali nell’economia, nella conoscenza, nella
partecipazione politica. Possono trasformarsi da strumenti della
libertà e della liberazione in strumenti dell’oppressione. Ciò non solo
per la prepotenza degli uomini ma anche per lo sviluppo distorto di
tecnologie capaci di massificare l’umanità, di trasformarla in una
grande arena dell’ubbidienza dominata dall’inganno, di aprire la
stagione del “post-umano” in cui l’uomo entrerà in competizione con le
macchine pensanti da lui stesso pensate e sarà soggetto — beneficato o
maledetto — alle ingegnerie genetiche. Nell’ultima fase delle sue
riflessioni, Stefano si è aperto a temi che sono al confine tra la
filosofia e il diritto, trattando di persona umana, dignità,
solidarietà, verità, autodeterminazione, perfino di amore ( Diritto
d’amore, 2014). Questi entrano nei titoli di suoi brevi saggi e nelle
diverse parti del
Diritto di avere diritti, di cui occorrerebbe
leggere con attenzione il Prologo. Vi troviamo testimoniata ancora una
volta la fede nei diritti, ma in modo sorprendentemente problematico per
un “innamorato”. Proietta un’ombra inquietante il timore circa le
disfunzioni sociali ch’essi possono provocare già oggi e ancor di più
nel prossimo futuro quando essi entrano nel grande affare della
mercificazione generalizzata di tutti i beni della vita e perfino degli
esseri umani come tali. Si potrebbe dire che i diritti, pilastri della
civiltà che abbiamo concepito, tra tante cose buone portano in sé non
poche tossine e che queste stanno crescendo e occorre richiamare su di
esse la nostra attenzione. In un discorso del 1987 Norberto Bobbio aveva
tracciato un bilancio della storia dei diritti umani e, avventurandosi
sorprendentemente (per uno come lui) sul terreno infido e controverso
del “progresso morale” dell’umanità, aveva sostenuto che almeno sotto un
aspetto si poteva vedere un segno positivo: «La crescente importanza
data nei dibattiti internazionali, tra uomini di cultura e politici, in
convegni di studio e in conferenze di governi, al problema del
riconoscimento dei diritti dell’uomo». Rodotà certamente condivideva
questo giudizio. Solo in base a tale condivisione si comprende la
quantità di energie intellettuali ch’egli ha dedicato a questo tema. Ma,
forse, nel bilancio finale si è insinuata la domanda: progresso sì, ma
verso che cosa? Per questo, occorre ora concentrare l’attenzione sulle
degenerazioni, non per tornare indietro come sognano coloro che
rimpiangono tempi andati che non ritorneranno mai più. Rodotà non era
affatto un nostalgico. Il suo sguardo è stato sempre rivolto al futuro, è
stato un precursore. I suoi scritti sulle tecniche informatiche, sulla
“rete”, fino alla “rivoluzione digitale” non si contano. Già nel 1973,
quasi cinquant’anni fa, quando ancora nessuno ne parlava, aveva
pubblicato un testo dal titolo piuttosto démodé, addirittura
archeologico, che fa pensare alle macchine che allora leggevano le
schede perforate ed ora farebbero sorridere qualunque tecnico
informatico alle prime armi: Elaboratori elettronici e controllo
sociale. In breve tempo, questo tema, collegato ai diritti della privacy
e alla formazione dei grandi imperi informatici capaci non solo di
abbattere le barriere che proteggono la vita privata, ma anche di
controllare e ricattare i governi, sarebbe diventato cruciale e Rodotà
in Italia e non solo in Italia, sarebbe diventato uno dei maggiori
esperti in materia.
Se ho indugiato su queste citazioni e su
questi ricordi è perché essi testimoniano di una fedeltà e di una
coerenza che, al di là dei bilanci sull’opera scientifica che certamente
sarà adeguatamente studiata in sede accademica, sono ciò che con
maggiore vivezza mi si presenta alla mente a poco più di tre mesi dalla
scomparsa di Stefano, il nostro compagno che abbiamo ammirato prima e
rimpiangiamo ora e che possiamo avere ancora tra noi nel ricordo e nello
studio di ciò che ci ha lasciato.
Questa mia testimonianza, pur
nella sua brevità, sarebbe gravemente incompleta se non menzionassi il
suo rigoroso contributo alla difesa e alla valorizzazione della
Costituzione, anche qui in coerenza col programma di quel gruppetto di
giovani giuristi che alla fine degli anni ’60 si ritrovarono per farne
il programma d’una politica del diritto. Quanti dibattiti, quanti
articoli di giornale e quante interviste, quanta generosità nell’aderire
a iniziative di associazioni e circoli culturali. È stato detto che
Rodotà e tanti altri con lui avevano idealizzato la Costituzione come
“la più bella del mondo”, sciocca espressione usata per accusare i suoi
difensori di vuoto idealismo, di estetismo costituzionale cieco di
fronte a cose concrete come le esigenze di semplificazione del sistema
politico, di velocità del decidere, di “governabilità”. Non è stato
affatto così: si trattava di un’altra visione istituzionale che aveva a
cuore la difesa di una certa idea di democrazia partecipativa
perfettamente in linea con la difesa dei diritti. Questa visione per
anni ha alimentato idee anticostituzionali, ispirate a quella che si
potrebbe dire la “democrazia decidente” che è (se così si può ancora
chiamare) democrazia “discendente”. Non si sarebbe trattato, dunque, di
ingegneria costituzionale indirizzata al miglioramento delle istituzioni
ma di uno stravolgimento, anzi di un rovesciamento oligarchico.
Sappiamo che cosa è l’oligarchia. Ce lo dicono i classici: il governo
dei privilegiati, i diritti dei più forti, dei più ricchi. Questo è
spiegato in un libretto che Stefano ha scritto in occasione del
referendum del 4 dicembre, Democrazia e costituzione. Perché dire no:
uno scritto militante a favore della Costituzione, dei diritti di tutti,
di quella che si chiama la “cittadinanza attiva” dei cittadini.
Anche
in questo ultimo impegno pubblico vediamo la sua coerenza, associata
alla costante denuncia del degrado crescente della classe politica e
della corruzione dilagante. La retorica delle riforme è stata il
tentativo fraudolento di dirottare l’indignazione sulle istituzioni per
liberarsi delle responsabilità proprie e, addirittura, per dotarsi di
regole costituzionali protettive che avrebbero reso ancora più difficile
di quanto già sia il contrasto ai mali della nostra vita pubblica.
Rodotà ha denunciato tutto questo in un altro libro in cui egli non ha
esitato a darsi del moralista ( Elogio del moralista, 2013), ben sapendo
che questa parola gli avrebbe attirato la critica, anzi l’ironia, dei
realisti cinici che la sanno lunga e si fanno beffe dell’etica in
politica. Ciò che ha impedito a Rodotà di assurgere a cariche anche più
importanti di quelle pur importanti che ricoprì è precisamente la sua
indisponibilità a partecipare ai giri, ai circoli di quel tipo di
realismo.
Per queste e per tante altre ragioni ci troviamo qui a
ricordare il nostro amico e a dolerci della sua scomparsa, a dolerci
d’un vuoto nel mosaico in cui amiamo collocare noi stessi. Ma c’è molto
d’altro che difficilmente potremmo esprimere in pubblico e più
facilmente conserveremo dentro di noi. Riempiremo a lungo il vuoto
ricordando spesso e con rimpianto l’immagine austera di Stefano,
un’immagine che creava attorno a lui un’aura di rispetto. E ricorderemo i
modi affabili, il volto scavato e pensieroso e anche, purtroppo,
sofferente degli ultimi mesi in cui l’abbiamo avuto con noi, sempre fino
all’ultimo, generoso del suo tempo, della sua cultura e della sua
passione.