Repubblica 18.7.17
Le sassate populiste in campagna elettorale
di Massimo Giannini
LA
POLITICA non compie nessun atto di “lesa maestà”, nel criticare
l’operato di un banchiere centrale. O persino nell’auspicare che un
governatore venga rimosso e sostituito. Ma la mossa del Pd contro
Ignazio Visco non ha precedenti nella storia repubblicana. In una
settimana la principale forza della maggioranza impone al Parlamento
prima un voto di fiducia sulla legge elettorale, ora una “mozione di
sfiducia” contro il governatore della Banca d’Italia. Due “atti di
forza” che rasentano quasi l’abuso di potere.
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ECHE
sollevano seri dubbi sulla natura di un partito che si propone agli
italiani come architrave del sistema politico-istituzionale.
Nessuno
si meraviglierebbe se il testo approvato alla Camera portasse la firma
di Brunetta o Di Battista. Per toni e argomenti, quel documento è in
linea con le posizioni oltranziste di Forza Italia o con quelle
giustizialiste dei Cinque Stelle. Ma c’è una coerenza oggettiva nella
linea di Matteo Renzi, che adesso rivendica il suo dissenso rispetto
alla riconferma di Visco e prende Via Nazionale a colpi di piccone. Il
leader del Pd ha sempre sostenuto che, dopo i dissesti bancari di questi
ultimi anni, sarebbe stata utile una forte “discontinuità”. Un mese fa,
a Radio Capital, aveva detto testualmente: «Il governo e le forze
parlamentari facciano una scelta all’altezza del compito della Banca
d’Italia». Più chiaro di così non poteva essere. Ora la mozione dei
democratici ricalca esattamente lo schema del segretario, che dunque
lancia il sasso contro Palazzo Koch e non nasconde la mano. Ma restano
due problemi, insormontabili.
C’è innanzitutto un problema di
“forma”. Mettere in relazione l’esigenza di promuovere “un maggior clima
di fiducia dei cittadini” con l’esigenza di individuare “a tal fine” un
degno sostituto di Visco è un argomento da talk show per moderni
tribuni della plebe, non un tema da confronto in un’assemblea
legislativa. Tanto più se proprio per discutere la questione cruciale
dell’efficacia della vigilanza nelle crisi bancarie di questi ultimi
anni è stata appena costituita una Commissione d’inchiesta. Un partito
di governo non può muoversi con le logiche di un movimento di piazza. Se
lo fa, destabilizza il capo del governo stesso, Gentiloni, costretto a
una delicata mediazione. E al tempo stesso crea una frattura profonda
con il Capo dello Stato, che non a caso richiama “tutti gli organi della
Repubblica” al rispetto del proprio ruolo, dell’indipendenza
dell’Istituto, e dell’interesse del Paese.
C’è poi un problema di
sostanza. Dal disastro del Montepaschi al collasso delle quattro banche
“in risoluzione”, dal crac delle due popolari venete a quello di Carige:
è evidente che qualcosa non ha funzionato, nei controlli di Bankitalia e
Consob. È altrettanto evidente che spesso è passato troppo tempo tra le
prime ispezioni negli istituti in stato pre-agonico (che nonostante
questo hanno continuato a dare credito ad aziende amiche ma fallite e a
piazzare bond-spazzatura all’ignara clientela) e i decreti di
commissariamento degli amministratori. Ma nessuno è ancora in grado di
stabilire se ci siano state responsabilità dirette della Vigilanza, se
invece il problema sia di natura giuridica (i poteri che la legge gli
conferisce) o se infine ci siano stati ritardi inspiegabili anche da
parte della magistratura.
È chiara l’intenzione del leader Pd, che
prende a sassate Palazzo Koch perché in questo momento nel Paese non
c’è nulla di più impopolare che difendere le banche. Ma anche nella
macelleria creditizia di questi anni, che ci è costata oltre 20 miliardi
di denaro pubblico, la politica non può scagliare la prima pietra. C’è
da chiedersi quanto sia credibile questo Pd renziano “di lotta e di
governo”, che finisce per recitare troppe parti in commedia. Come fai a a
chiedere la testa del governatore “che non ha vigilato”, quando hai
nell’armadio lo scheletro di Banca Etruria e di papà Pierluigi Boschi?
Come fai a contestare il rigore morale e amministrativo di Via
Nazionale, quando hai tenuto per mesi e mesi come consulente a Palazzo
Chigi il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, che stava indagando
proprio sui misfatti di Banca Etruria?
Può anche darsi che Ignazio
Visco non meriti la riconferma. Ma se non la meritasse lui, dovrebbe
essere rimosso l’intero direttorio. E comunque, in piena campagna
elettorale, tutto questo non lo può stabilire una mozione parlamentare
voluta e votata da un partito che pretende di essere “l’unico argine al
populismo”, e che invece finisce per cavalcarne l’onda insieme a
Berlusconi e Grillo. Se fosse ancora vivo, un grande governatore del
passato come Guido Carli non avrebbe avuto dubbi: li avrebbe chiamati
“atti sediziosi”.