martedì 17 ottobre 2017

Repubblica 17.10.17
Atrofia vulvovaginale
Menopausa. Over 50 il sesso è possibile
Si chiama atrofia vulvovaginale Provoca dolori e sanguinamenti dovuti a carenza di estrogeni Le terapie ci sono. Ma non se ne parla. E le donne rinunciano
di Anna Lisa Bonfranceschi

È CONSIDERATA la cenerentola degli studi sulla menopausa. Perché l’atrofia vulvovaginale viene spesso dimenticata, lasciata a casa, nascosta sotto le lenzuola. Un disturbo di cui non si parla, a volte nemmeno con la ginecologa. Perché crea imbarazzo. Molte donne, poi, pensano che sia una condizione inevitabile: si invecchia, arriva la menopausa, quindi i rapporti sessuali diventano più difficili. E invece no. La secchezza vaginale, la perdita di elasticità, il prurito e la dispareunia (il dolore durante un rapporto sessuale) che caratterizzano l’atrofia vulvovaginale sono, certamente, sintomi di qualcosa di naturale, ma contro cui molto si può fare. «Quando si parla di menopausa si citano le vampate, i disturbi dell’umore, l’aumento di peso, ma raramente si parla di quello che accade a livello genitale, con la conseguenza che l’atrofia vulvovaginale rimane una delle conseguenze più marcate del calo degli estrogeni, sottodiagnosticata, e ancor meno trattata », ricorda Rossella Nappi ginecologa dell’università di Pavia e all’ospedale San Matteo. La comunità scientifica sa invece da tempo che il calo degli estrogeni che accompagna la menopausa comporta dei cambiamenti visibili e tangibili a livello del tratto urogenitale: le mucose diventano più sottili, meno idratate, più pallide, insorge bruciore, la vagina si accorcia e si restringe. Una condizione progressiva. «Possono esserci anche cambiamenti nel pH e nel microbioma locale correlati a cisti ricorrenti e disturbi urinari, con corse ripetute al bagno con la sensazione di avere la vescica piena anche se non lo è», riprende Nappi. Tanto che il famigerato calo della libido, ora legato al calo degli estrogeni e del testosterone, in molti casi in realtà nasconde un problema fisico. Lo ha ribadito, proprio nei giorni scorsi, uno studio presentato al meeting annuale della North American Menopause Society, secondo cui il dolore e i problemi alla vescica pesano per circa un terzo complessivamente nei motivi per cui ci si tiene lontani dal sesso.
Negli ultimi anni non si parla solo di atrofia vulvovaginale, ma più propriamente di sindrome genitourinaria della menopausa, a indicare tutta la rosa di sintomi che interessano la zona. Sintomi che possono anche non manifestarsi o comparire solo più in là con gli anni, ma che mediamente interessano circa la metà delle donne in menopausa, e non solo. «Anche le giovani donne con menopausa indotta dai trattamenti oncologici possono ritrovarsi a fare i conti con l’atrofia vaginale – continua la ginecologa – mentre nei casi in cui gli stessi disturbi compaiono in donne nella fase post-partum, magari per calo degli estrogeni associati ad allattamento prolungato, o in donne con pillole anticoncezionali a bassissimo dosaggio ormonale, parliamo più propriamente di pseudo atrofie vaginali». Ma se da un lato le donne spontaneamente ne parlano poco, quando sono interpellate ammettono facilmente che il problema esiste. Dall’altra parte, nemmeno tutti i medici sono ancora pronti a farlo: lo studio europeo Revive, condotto su oltre 3700 donne in Italia, Germania, Spagna e Regno Unito mostra che appena il 10% ha introdotto l’argomento dell’atrofia vaginale con le proprie pazienti. Ma se i sintomi ci sono, incoraggiano gli esperti, è necessario parlarne perché le soluzioni esistono.
«Solo negli ultimi tempi le donne hanno imparato timidamente a parlarne. Prima erano bloccate dal pudore, e davano per scontato che certi aspetti della sessualità non dovessero più interessarle dopo una certa età», ricorda Elsa Viora, presidente dell’Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani. Ma la sessualità è un aspetto importante della qualità di vita, anche dopo i 50 anni. «Abbiamo diverse soluzioni per alleviare i sintomi dell’atrofia vulvo-vaginale, così ampie che se ne possono trovare praticamente per ogni donna – continua Viora - con terapie locali, a base o meno di estrogeni oppure sistemiche, quest’ultime da preferirsi quando sono presenti anche altri sintomi della menopausa ». Tra le soluzioni locali ci sono creme e gel idratanti, a base di acqua, acido ialuronico, vitamina E e colostro, ovuli, anelli e creme a base di estrogeni, per il rilascio localizzato di ormoni. O ancora, terapie orali che agiscono come regolatori dei recettori per gli estrogeni, ma che non sono ormoni e agiscono in modo selettivo solo sui tessuti genitali. Infine le terapie fisiche quali radiofrequenza o laser, che riscaldando il tessuto promuovono la produzione di nuovo collagene, sebbene l’American College of Obstetricians and Gynecologist consigli cautela, in attesa di nuove prove di efficacia. Senza dimenticare la ‘palestra’, allenando i muscoli del pavimento pelvico con gli esercizi di Kegel, e soprattutto l’attività sessuale: avere rapporti ricorrenti aiuta a mantenere più elastici i tessuti.

Repubblica 17.10.17
La coppia sul lettino
Non abbiate paura. È venuta l’ora della fantasia

CHE SIA UN periodo di transizione è certo. E spesso non passa indenne. «Quello che più intimorisce è l’idea che da lì in poi cambi la storia del corteggiamento, si smetta di essere gradevoli d’aspetto, si perda il potere seduttivo e la ricaduta che questo possa avere sul proprio partner o su potenziali compagni, generando apprensione», racconta Chiara Simonelli, Psicosessuologa alla Sapienza di Roma.
La paura resta, troppo spesso, nonostante il mondo sia cambiato. Perché di certo con la menopausa non scatta l’ora X. Anche i sintomi più comuni, come le sudorazioni, le vampate, la secchezza vaginale, i disturbi urinari, che possono rendere più complicata, dolorosa e frustante la vita sessuale, non sono una condanna certa e definitiva. E possono essere affrontati e gestiti. Anche a letto, perché il sesso è terapia: continuare a farlo aiuta non solo a riconfermarsi come donne, ma allevia anche i fastidiosi sintomi genitali. «Invece spesso la paura di provare dolore, di non piacere e non piacersi, la vergogna, si ripercuotono direttamente sulla frequenza dei rapporti e sul desiderio, e le donne sono spesso meno invogliate, in un circolo vizioso in cui l’associazione rapporto-dolore le tiene sempre più lontane dal sesso», aggiuge Roberta Rossi, presidente della Federazione italiana di sessuologia scientifica. Le soluzioni potrebbero venire non solo dal ginecologo ma anche da un nuovo modo di intendere la sessualità: per esempio cercando nuove vie di eccitazione per arrivare all’orgasmo, avvicinandosi al partner con gesti che non siano mirati subito alla penetrazione, continua Rossi: «Una sorta di petting, che potrebbe aiutare le donne anche a riconoscersi e a ricominciare, prendendo confidenza con i cambiamenti sopraggiunti nel tempo». Che non sono necessariamente negativi, anzi. È proprio alla soglia della mezza età, infatti, che le donne raggiungono più esperienza e consapevolezza: «A partire dai quarant’anni le donne cominciano tendenzialmente a essere meno competitive, meno aggressive. Hanno imparato a conoscere il proprio corpo, anche da un punto di vista erotico. E dovrebbero fare di questa consapevolezza un punto di forza, non di debolezza», riprende Simonelli.
Ma non è detto che siano solo le donne ad avere problemi, a volte sono gli uomini a rifiutare le avances, perché il pregiudizio sulla menopausa colpisce la coppia. «Quando il sesso in una coppia non funziona è opportuno verificare lo stato di salute di entrambi, perché potrebbe essere l’altro ad avere problemi, ed evitare così di far ricadere il peso del sesso che non va solo sulla donna in menopausa», conclude Rossi.

il manifesto 17.10.17
Lo tsunami della ribellione collettiva
Habemus Corpus. Di ora in ora sempre più attrici e artiste parlano, di qua e di là dall’oceano, delle molestie subite da registi, produttori, attori fuori e sui set cinematografici
di Mariangela Mianiti

È ormai una gigantesca onda, uno tsunami inarrestabile. Di ora in ora sempre più attrici e artiste parlano, di qua e di là dall’oceano, delle molestie subite da registi, produttori, attori fuori e sui set cinematografici. Asia Argento chiama in causa un attore e regista italiano che a 16 anni, mentre parlavano del personaggio che lei doveva interpretare, tirò fuori il pene, e poi di un regista statunitense con il complesso da Napoleone che dieci anni dopo la violentò dopo averle somministrato GHB, la cosiddetta droga dello stupro.
Claudia Cardinale ha rievocato il comportamento del suo compagno, il produttore Franco Cristaldi, che pretendeva che il figlio nato dalla violenza sessuale subita a 16 anni fosse tenuto nascosto e vivesse lontano da lei. Non fu sopraffazione sul posto di lavoro, ma predominio da produttore e maschio sì. E poi ci sono le parole della cantautrice islandese Bjök che in un post su Facebook racconta di quando un regista danese la molestò durante le riprese di un film. Björk non fa il nome del regista, ma non può che essere Lars von Trier con il quale girò nel 2000 Dancer in the Dark.
Björk aggiunge alla denuncia parole importanti con le quali dice che, provenendo da un Paese che è uno dei mondi più vicini all’uguaglianza tra i sessi e da una posizione di forza e indipendenza nel mondo della musica duramente guadagnata, le fu subito chiaro che le umiliazioni e le molestie del regista in quell’ambiente erano la norma, per di più incoraggiate e sostenute da dozzine di membri della troupe. Lei si ribellò e tenne testa al regista perché era forte, protetta dal suo entourage e non le interessava fare l’attrice. Ma che è successo alle altre, quelle che non sono riuscite a fare altrettanto e si sono trovate imprigionate in un sistema compiacente e omertoso?
Weinstein quindi è in abbondante compagnia e questo spiega perché l’inchiesta del New York Times da cui è partito tutto abbia scoperchiato il vaso di Pandora.
Non siamo in presenza di sporadiche denunce tardive, ma di una presa di coscienza e ribellione collettiva contro un sistema troppo a lungo sopportato e/o appoggiato dalle connivenze. Di certo non tutte le attrici sono state abusate o molestate, di certo c’è chi ha detto di no, ma questo non può essere una giustificazione usata contro chi non ha saputo opporsi, perché se ci si muove in una palude, uscirne è molto più difficile e faticoso. E poi siamo sicuri di sapere che cosa è costato, in termini di carriera, a chi si è ribellata? La verità è che non ci si dovrebbe trovare nella condizione di dover dire di no. Succede anche nella vita.
Non tutte le donne sono picchiate dai mariti, così come non tutte subiscono umiliazioni sul lavoro. Se da una parte questo dimostra che non tutti gli uomini sono uguali, dall’altra ci ricorda che la ribellione è un percorso individuale e collettivo reso possibile, nel caso delle libertà femminili, dal doppio salto mortale fatto dal femminismo che ha reso praticabili consapevolezze e assertività prima impossibili o molto difficili.
Ora c’è da fare un altro salto mortale e non solo nel mondo del cinema e dello spettacolo perché nessuna conquista resta tale in eterno e ovunque. C’è sempre qualcosa in più da conquistare o riprendersi, un testimone da consegnare, un’eredità da trasmettere, consapevolezze da costruire. Non si tratta di fermarsi a guardare quello che finora non si è riusciti a fare, ma ciò che si è conquistato per dirsi che, se abbiamo potuto ottenere ciò che si è ottenuto, molto altro e di più è possibile, e necessario, non solo nel mondo dello spettacolo, ma in ogni ambito e luogo.

Il Fatto 17.10.17
Il no vuol dire sempre no
di Silvia Truzzi

Il ricatto, è noto, ha due attori: ricattatore e ricattato. Vogliamo metterli sullo stesso piano, in questo caso un piano orizzontale? No, né dal punto di vista della morale né da quello del diritto. Tralasciamo l’apparentemente dorata Hollywood e il produttore-predatore, traslocando questo bel giochino in una fabbrica o in un più moderno call center, dove lavorano donne che più che fare carriera hanno l’ambizione di sopravvivere: probabilmente il giudizio cambierebbe.
Quindi attenzione con i distinguo: le molestie sessuali sono un reato, come lo è lo stupro. Gli unici, tra l’altro, in cui la vittima si trova nove volte su dieci nella terribile situazione di doversi, lei, discolpare: è un dato culturalmente inaccettabile, perché dà per implicita l’equazione femmina-puttana. E a questo, sia consentito, dovrebbero anche pensare le donne che stanno scambiando le libertà e i diritti conquistati dopo anni di lotte con la libertà di fotografarsi il culo e metterlo su Instagram. È ugualmente irricevibile l’affermazione del nostro stimato collega a proposito dei “no” che sarebbero “sì”: portata alle estreme conseguenze può giustificare perfino lo stupro. Chiarite queste non marginali questioni preliminari, dire che esistono donne che si concedono (senza costrizioni) per ottenere favori dal capo è scoprire l’acqua calda. Ma ci sono tanti modi in cui, nei luoghi di lavoro, i maschi adulano e lusingano i loro superiori. Sono due forme di prostituzione, solo che una è moralmente condannata, l’altra passa inosservata quasi sempre. Certo però si deve guardare l’intera vicenda Weinstein anche dal punto di vista di quelle che hanno detto no e per questo hanno pagato vari prezzi, talvolta salati: Massimo Fini ha perfettamente ragione quando dice che le donne sono, in questo, le peggiori nemiche delle donne. La tentazione della scorciatoia nasce dall’opportunismo e spesso anche dall’insicurezza: le donne competenti e autorevoli non hanno bisogno di esibire la sessualità, di essere equivoche e persino di darla via, per farsi strada e ottenere ciò che vogliono. Lo spettacolo che danno di sé, a Hollywood e dappertutto, è di una tristezza infinita: potessero osservarsi da fuori, vedrebbero solo pietà (che non è mai un bel sentimento da suscitare).
Ps: la siepe (che è femmina e mai come in questo caso ci si augura che il guardo escluda), ci fa sapere di essere stanca delle molestie che Massimo Fini minaccia da anni. A breve invocherà l’intervento di Laura Boldrini.

Il Fatto 17.10.17
Il “Fica Power” colpisce ancora
di Massimo Fini

Quante volte ci ho provato con una donna nella mia vita? Infinite. Quante volte sono andato “in bianco”? Moltissime. Quante volte mi è riuscito il colpo? Parecchie. Devo per questo essere considerato un molestatore sessuale seriale?
Alla radice della questione delle molestie sessuali – tralasciando per il momento il “caso Weinstein” che attiene al potere – c’è il fatto che, per ragioni biologiche e antropologiche, poi diventate culturali, è all’uomo che spetta l’iniziativa. Perché checché se ne pensi, e lui stesso si vanti, l’uomo non è sempre pronto per il sesso. Nemmeno la donna lo è, ma la sua scarsa predisposizione ha effetti meno drastici della defaillance del maschio che rende impossibile la penetrazione. L’uomo è cacciatore proprio perché non sempre ha il colpo in canna. Ecco perché tocca a lui aprire la partita. C’è perciò sempre un momento in cui lui deve fare necessariamente un atto intrusivo nella sfera personale e latus sensu sessuale di lei: una carezza sui capelli (che, come pensano giustamente i musulmani, non sono affatto innocenti dal punto di vista erotico) tentare di attrarla a sé, cercare di strapparle un bacio. Se ha equivocato sulla disponibilità di lei si beccherà un diniego. Peraltro un tempo le donne, se non volevano starci, sapevano benissimo come fartelo capire.
Il linguaggio sessuale, erotico, amoroso ha i suoi codici, anche abbastanza precisi, ma rientrano nell’inespresso, nel non detto, fanno appello alla sensibilità di ciascuno, non possono appartenere all’esplicito. Quando ero ragazzo se nel ballo (“il ballo del mattone” come cantava Rita Pavone) lei ti metteva un braccio sul petto voleva dire che era meglio lasciar perdere, se ti poggiava la mano sulla spalla era un segno neutro, se ti metteva le braccia al collo e si lasciava stringere non le dispiacevi, il che non significava ancora nulla se non che eri autorizzato a fare la mossa successiva. A complicare le cose c’è poi l’eterna ambiguità della donna. Perché i suoi primi no possono essere di pura parata e nascondere un sostanziale sì. Una certa insistenza è quindi comprensibile. Insomma capire fino a che punto ci si può spingere è una questione di reciproca sensibilità. Allo stesso modo i sì possono capovolgersi improvvisamente in un no. Come è stato nel caso di Mike Tyson e Popi Saracino, entrambi condannati a vari anni di galera.
E veniamo al caso di Weinstein, importante produttore di Hollywood. Il suo è un caso tipico di abuso di potere, ma una donna maggiorenne, adulta, sa cosa fa quando concede i propri favori sessuali, magari controvoglia, in cambio di promesse, mantenute o no, di carriera: si prostituisce. Non ci sarebbero corruttori, nel sesso come in politica, se non ci fosse chi è disposto a farsi corrompere. E qui si innesta un’altra questione, che è generale e va ben oltre lo strampalato e apparentemente dorato mondo di Hollywood: quella che nel mio Di(zion)ario erotico ho chiamato il “Fica Power”. Com’è fuori discussione che ci sono uomini di potere che ne abusano per portarsi a letto delle belle ragazze sostanzialmente, anche se subdolamente, ricattandole, è altrettanto fuori discussione che ci sono parecchie donne che utilizzano il proprio sesso per avere scorciatoie di carriera, all’interno delle aziende e altrove. Invece di indignarsi quando si parla di “Fica Power” le femministe o comunque i tanti teorici delle pari opportunità dovrebbero prestare a questo aspetto qualche attenzione, perché questo atteggiamento lede i diritti e le aspettative di quelle donne che sul posto di lavoro si comportano con correttezza. È la mortificazione della tanto decantata meritocrazia. Ma questo non si può dire. È tabù. Viene considerata un’intollerabile offesa all’immagine della donna che è ridiventata, come nell’Ottocento ma per motivi diversi, un essere angelicato, depurato di ogni bruttura morale. Si batte quindi sempre e solo il tasto del potere di ricatto maschile sul luogo di lavoro. Che c’è, naturalmente, ma è più limitato, se non altro perché può essere esercitato solo dall’alto in basso ed è verificabile, mentre il “Fica Power” è diretto a tutto campo e praticamente indimostrabile.
Inoltre se è vero che l’uomo di potere può facilmente usarlo per ricattare è anche vero che può essere altrettanto facilmente ricattabile e fare la fine di Strauss-Kahn. Un banchiere americano ha confessato che piuttosto che salire in ascensore con una donna sola (in cento piani può accadere di tutto) preferisce aspettare il giro successivo.
L’alternativa è la verbalizzazione. Possibilmente scritta e certificata. Negli Stati Uniti circolano moduli in cui i due mettono nero su bianco la loro intenzione di fare sesso e la donna, a scanso di equivoci, dichiara anche fino a che punto è disposta a spingersi.
Se le cose stanno così è meglio soddisfarsi da solo dietro una siepe.

Il Fatto 17.10.17
È la sindrome di Pandora: il mostro paga Hollywood no
Asia Argento
di Federico Pontiggia

Ricapitoliamo. Espulso dall’Academy, che assegna gli Oscar: votava e, ai tempi d’oro, movimentava votanti sui suoi film, vedi La vita è bella di Benigni. Legion d’onore, l’onorificenza francese: Sarkozy gliel’appuntò, ora Macron gliel’ha revocata. Si chiama damnatio memoriae, e la memoria di Harvey Weinstein è a scomparsa. Bannato, reietto, condannato, pure dal fratello Bob, che gli sistema la lapide professionale: “Non dobbiamo permettere a Harvey di tornare a lavorare in questa industria. Mai. Ha perso i suoi diritti”. Chissà, forse The Weinstein Company (TWC) cambierà nome, ammesso non si (s)venda al fondo di private equity Colony Capital: le trattative sono avviate. Come si cambia per non morire.
Se Weinstein è già il passato o, meglio, trapassato prossimo, i riflettori sono sul futuro dello showbiz, le regole del gioco, le regole d’ingaggio a Hollywood: ci si accontenta di eliminare il caprone o si abbatte il vecchio recinto per farne uno diverso, più sicuro? In breve, si derubrica Harvey il predatore a sciagurata eccezione o si invalida la regola hollywoodiana? Non per essere scettici, ma propenderemmo per la prima, che è più facile: cambiare il culo, non il sofà su cui poggia. Dato in Arizona a curarsi la dipendenza sessuale in un rehab per happy few caduti in disgrazia, speriamo Harvey sia altrove, perché sarebbe tempo perso: la sua addiction non è per il sesso, ma per il potere. E non si cura. Che fare? Riscrivere le regole, mandare in soffitta il divano e ripristinare la scrivania, bassa. Ancor prima, resettare gli uomini o scambiarli con un Nexus 9 tipo Ryan Gosling: il problema, se ancora non si fosse capito, sono gli uomini.
Non solo Weinstein, ma chi 13 anni orsono lo aiutò a insabbiare l’indagine del NYTimes – a dar retta alla reporter Sharon Waxman, Matt Damon e Russell Crowe – e chi oggi dice e ridice, ovvero si contraddice. Tra il dire e il fare ammenda spesso c’è di mezzo l’universo social, ovvero l’accoglienza pubblica: se la posizione presa non è quella giusta, si raddrizza ex post. Gli esempi, illustri, si sprecano: Oliver Stone, che prima l’ha battezzato “vittima di un sistema di giustizieri” e poi s’è addirittura rimangiato la serie, Guantanamo, in cantiere con TWC; Woody Allen, che prima s’è detto “triste per Weinstein” e poi ha rettificato in “intendevo che Weinstein è triste, malato”. Poi c’è Quentin Tarantino, che ha preso in prestito il Twitter di un’amica, l’attrice Amber Tamblyn, per palesare un “cuore spezzato” e rimandare a una futura dichiarazione in merito. Attendiamo fiduciosi. Nel frattempo, nel verminaio che sono i social sul tema, spuntano tweet capaci di illuminare d’assurdo la gravità della situazione, come questo di @AlexSabetti: “All’inizio dei prossimi film comparirà la didascalia: ‘In questa produzione non è stata molestata nessuna donna’”. Da ridere, se non ci fosse da piangere. Lacrime, almeno qualcuna, si sarebbero risparmiate prendendo sul serio Courtney Love quando nel 2005 avvertiva le aspiranti attrici: “Se Harvey Weinstein vi invita a una festa privata al Four Season, non ci andate”. Parole al vento.
Per rimanere con la collega Fiorella Mannoia, viceversa, quello che le donne non dicono ora ha perso il “non”: un hashtag in America, #MeToo, uno in Italia, #QuellaVoltaChe, per dire la molestia subita e sofferta in silenzio. Senza #, ma con un lungo post su Facebook, l’ha fatto anche Björk, rivelando di essere stata “umiliata e offesa da un regista danese”. Spulciandone l’esigua filmografia, ça va sans dire, parrebbe essere Lars von Trier, che nel 2000 la diresse in Dancer in the Dark. Il condizionale è d’obbligo, perché è un’altra regola, di un altro gioco: ”Indovina Chi?” mi ha molestato. L’ha fatto Björk, e l’ha fatto Asia Argento, con due tweet: “#quellavoltache un regista/attore italiano tirò fuori il suo pene quando avevo 16 anni nella sue roulotte mentre parlavamo del ‘personaggio’” e “#quellavoltache Hollywood big shot director with Napoleon complex gave me GHB and raped me unconscious, I was 26 years old #BalancetonPorc”. Ipotesi, illazioni e scommesse, filmografie spulciate, biografie compulsate, rimandi storici e sentito dire, la caccia è impazzata, e impazzita: nessuna verità, solo altre vittime. E un’altra domanda: che senso ha, qual è il fine? Asia Argento prima ha risposto a un follower che gli chiedeva perché non avesse fatto i nomi dei molestatori “Believe me, I will”, poi è rientrata nell’alveo di #quellavoltache (“Nessuno fa nomi, raccontiamo le nostre storie)”, quindi ha asserito di non aver “in alcun modo fatto il nome dell’autore del gesto né tantomeno ho indicato elementi per identificarlo”. To be continued.

La Stampa 17.10.17
“Cambiare un contesto di violenza e disprezzo”

Per Monica Guerritore, che ha sempre saputo unire capacità di osare e fierezza femminile, la questione Weinstein esige delicatezza: «È una materia che ha a che fare con la sfera intima, e quindi va trattata con estremo rispetto e con senso del riserbo». Anche per questo, alla domanda su eventuali molestie subite in prima persona, preferisce non rispondere «perché non è questo il momento per dirlo» .
Che idea si è fatta della vicenda Weinstein?
«La cosa più importante è che, se oggi c’è una causa da intentare, dev’essere intentata contro il contesto in cui abbiamo vissuto finora. Un contesto caratterizzato da estrema mancanza di rispetto nei confronti di tutti gli esseri umani».
Una situazione che può generare diversi tipi di reazioni. Giusto?
«Ognuno reagisce come vuole, io ho sempre avuto, dietro le apparenze, un’armatura di ferro, e con quella sono andata avanti».
Come giudica la scelta di rivelare gli eventi a tanti anni di distanza?
«Non c’è giudizio, non c’è da stare né con né contro. Bisogna invece sottolineare quanto dev’essere stato doloroso parlare di un fatto così intimo e privato».
Alcuni dicono che un certo andazzo è sempre esistito, che non è certo una novità. Lei che cosa ne pensa?
«Penso che la battaglia per cambiare le cose debba passare attraverso l’analisi di un contesto che impone, storicamente, di passare sopra se stessi, di cancellare il rispetto di sé. E da qui bisogna iniziare a interrogarsi».
Chiedendosi cosa?
«Chiedendosi per esempio, se è possibile che, vivendo in un certo mondo, ci si debba sentire obbligati a comportarsi in un certo modo. È questo il punto da cui bisogna partire».
Il caso Weinstein potrebbe sollecitare un cambiamento in positivo?
«Bisogna aprire la riflessione, tenendo sempre ben presenti, però, i momenti, l’età in cui si vivono certe cose, gli stati d’animo. Tutto pesa e tutto è importante».
[f.c.]

La Stampa 17.10.17
Il lato oscuro della Grande Bellezza
di Maria Corbi

Non chiamatela caccia alle streghe, perché in questa storia i protagonisti non ci sono accuse ingiuste e pretestuose. Ma il racconto di un sistema, il dietro le quinte «sessista» e molesto dello Star System. Dall’orco Weinstein, come lo definisce Asia Argento, all’orco senza nome di casa nostra, evocato su Twitter dall’attrice («un regista/attore italiano tirò fuori il suo pene quando avevo 16 anni nella sua roulotte mentre parlavamo del “personaggio”») non c’è nessuna distanza se non geografica. Hollywood chiama, la città eterna risponde. E mette in scena uno spettacolo deprimente, ma non è una «prima», perché tutti ne sono stati complici, vittime, o semplici spettatori. Lato oscuro della dolce vita, delle scorciatoie per il successo, dei patti con l’orco e con se stesse per arrivare a vedere il proprio nome brillare. Con l’hashtag «quella volta che…» le donne tirano fuori sassolini segreti, anche se celano i nomi degli uomini che hanno abusato del loro potere con loro. Anche Asia Argento non apre quella porta, ma la socchiude, per ora: «In riferimento al mio post #quellavolta che, preciso, se ve ne fosse bisogno, che non ho in alcun modo fatto il nome dell’autore del gesto né tantomeno, ho indicato elementi per identificarlo. Pertanto chiunque pretenda di conoscerlo, scrivendo il presunto nome, se ne assume personalmente la responsabilità». Ma le voci corrono, si rincorrono, affollano il gossip. E il non fantomatico «divano del produttore» rimane in attesa dei nomi di chi ci si è accomodato vittime e carnefici, consapevoli e inconsapevoli.
Chi racconta di non esserci mai accomodata ma di essere stata molto invitata farlo c’è Mariana Trevisan, ex ragazza di Non è la Rai che, da «embedded» spiega con grande chiarezza in un articolo a sua firma come funzionano le cose. Quello che tutti sanno e nessuno dice. Dalla truccatrice che le dice «il mondo va così» a chi le parla dell’utilità delle «pubbliche relazioni». Alle colleghe che le dicono: «hai potenzialità (dicevano bellezza ma intendevano altro) e non ci stai, sei pazza». Alla collaboratrice del mostro sacro della tv che le dice: «“hai ancora il rossetto, non ti vedremo più” e con un sorriso di pena ti congeda». Il lato oscuro, ma nemmeno tanto della Grande Bellezza. Quei provini che si fanno nelle stanze d’albergo, dove le doti da visionare vanno oltre il talento. Le agenzie vere e presunte cercano nuovi volti per il cinema ma poi al provino chiedono di mostrare tutto tranne la faccia. Niente di nuovo sulle sponde del Tevere se non il fatto che adesso qualcuno rischia di finire schiacciato da quel divano. E se lo scandalo Weinstein, come dice Mia Farrow, segna la fine di un sistema a Hollywood, chissà se qualcosa accadrà anche in Italia.

La Stampa 17.10,17
Stefania Rocca
“Giusto denuncia, reanche 20 anni dopo”
di Fulvia Caprara

Le esperienze americane non le mancano e anche l’aria decisa, che fa parte del suo fascino e della sua sensualità: «Forse per via di quell’atteggiamento duro - commenta Stefania Rocca - ho acquistato la reputazione di “quella fredda”, ma forse essere in quel modo mi ha dato un senso di protezione».
Ha recitato nel «Talento di Mister Ripley», un film Miramax, che cosa ricorda dell’incontro con Harvey Weinstein?
«Ho fatto un provino con Shaila Rubin, Weinstein l’ho incontrato solo dopo, sul set. E non mi è successo niente. In realtà la prima volta l’avevo visto in un’altra occasione».
Quando?
«Ero negli Stati Uniti con Salvatores per il doppiaggio di Nirvana. C’erano un sacco di ragazzi della produzione, ho sentito un clima di agitazione e ho visto arrivare un omone, anche senza sapere niente di lui avvertivi il potere che emanava. Si siede, si mette ad ascoltare, e comincia a dire “terrific”. Ero preoccupata, ma la parola significa “fantastico” e quindi io e Gabriele ci mettemmo a ridere. Poi, a Venezia, ci siamo rivisti, Weinstein mi è venuto a salutare, ma non ho mai partecipato a feste o cose del genere».
Che effetto le hanno fatto le rivelazioni di Asia Argento?
«Non mi sento di giudicarla, non posso sapere come abbia vissuto quella situazione. Sì, ha raccontato l’accaduto 20 anni dopo, ma anche tante altre hanno fatto così. E poi ha spiegato la ragione, prima aveva timori per la sua carriera: ora, con più distacco, ha trovato il coraggio di raccontare».
A lei è mai accaduto di subire avances di quel tipo?
«Mi è successo una volta, con un fotografo, gli ho dato uno schiaffone e sono andata via. La mia fu una reazione di rabbia, ma può capitare di averne altre, anche di immobilità totale».
Il press agent Lucherini dice che certe cose esistono da sempre. Lei che ne pensa?
«È un’affermazione che fa tristezza. Credo che tutto questo sia molto americano. Bisogna anche dire che certe situazioni capitano, ma si può anche evitare di farle capitare».


Repubblica 17.10.17
La maschera fascista dell’europa
di Nadia Urbinati

DOPO le elezioni tedesche, anche quelle austriache confermano le trasformazioni politiche in corso nel vecchio continente, la cui faccia sta decisamente prendendo una fisionomia di destra, e perfino nazi-fascista. Il populismo è lo stile e la strategia che le vecchie idee di destra (il razzismo, l’intolleranza, l’ideologia identitaria nazionalista, il mito maggioritarista e anti-egualitario) adottano per conquistare gli elettori moderati. I partiti di destra sono quelli che meglio usano questa strategia; ne hanno anzi bisogno per uscire dall’isolamento nel quale l’ideologia socialdemocratica li aveva condannati per decenni.
Sebastian Kurz, alla guida del partito dei popolari, ha trasformato il suo partito in un movimento elastico, aggressivo sui social, attento all’immagine e capace di usare gli argomenti giusti: la paura dell’immigrazione, la preoccupazione per la precarietà occupazionale, l’erosione del benessere. L’Austria è tra i Paesi più ricchi d’Europa e con una popolazione residente straniera che sfiora il 15%. La campagna elettorale di Kurz è stata radicalmente personalistica (il suo nome ha dato il nome alla lista) e ossessivamente imbastita sulla paura, tanto da fare apparire l’Austria come un Paese straniero agli austriaci, sul baratro economico e con il rischio di avere una maggioranza religiosa islamica. La personalizzazione e la radicalizzazione del messaggio hanno fatto volare il suo partito. Altrettanto vicente la strategia del partito di estrema destra neo-nazista, detto della libertà, guidato da Heinz-Christian Strache che potrebbe essere alleato del partito di Kurz.
La ricetta per il governo del Paese di questa ipotetica coalizione è un misto di protezionismo e liberismo: chiusura delle frontiere agli immigrati, difesa dell’identità culturale cattolica, sicurezza e taglio delle tasse. Liberisti e nazionalisti alleati. Il restyling dei due partiti di destra ha pagato, smussando il messaggio nazista e islamofobico e insistendo su una strategia che da qualche anno sta facendo proseliti a destra. La critica alla tecnocrazia di Bruxelles non porta più alla proposta di uscire dall’Unione. L’Europa va conquistata, non lasciata. Il populismo transnazionale di destra non propone il ritorno agli stati nazionali indipendenti, non ha nostalgie per un’Europa pre-Trattato di Roma. Comprende l’utilità dell’Unione e vuole però guidarla in conformità a quella che il leader ungherese Viktor Orbán (il primo ad aver lanciato la proposta di una destra populista transnazionale) ha definito come l’identità spirituale del continente: la cristianità. La secolarizzazione, soprattutto nella parte occidentale del continente, è un fatto difficilmente negabile. E quindi l’apppello alla cristianità ha poco a che fare con la spiritualità religiosa e molto con l’identità nazionale. Il populismo di destra è oggi un progetto identitario transnazionale.
La storia del populismo è innestata nella storia della democrazia; una competizione con la democrazia costituzionale sulla rappresentanza e la rappresentazione del popolo, che nei Paesi europei è in effetti la nazione. La tendenza a identificare il popolo con un’entità organica omogenea è il motore che muove questa potente interpretazione della sovranità come sovranità di una parte, maggioritaria, contro un’altra, per umiliare l’opposizione e soprattutto le minoranze culturali. Le democrazie del dopoguerra hanno neutralizzato questa tendenza olistica articolando la cittadinanza nei partiti politici. E il dualismo destra/sinistra è stato un baluardo di protezione della battaglia politica dalle pulsioni identitarie, nazionaliste e fasciste. La fine di questa distinzione è oggi il problema; essa è stata favorita dalla sinistra stessa che, nel solco del blarismo ha sostenuto la desiderabilità di andare oltre la divisione destra/sinistra. Una iattura che ha preparato il terreno alla destra.
L’uso di strategie comunicative populiste si dimostra vincente anche perché l’audience è informe e con deboli distinzioni idelogiche; facile da conquistare con messaggi generici, gentisti diremmo, ovvero basati sul buon senso e capaci di arrivare a tutti indistintamente. La caduta di partecipazione elettorale, che l’erosione della distinzione destra/ sinistra ha portato con sé, è un segnale preoccupante di cui purtroppo quel che resta della sinistra non si avvede. L’esercito elettorale di riserva è pronto, depoliticizzato abbastanza da essere catturato da messaggi populisti di destra, generici, e molto semplici. Il caso austriaco, come quello tedesco di poche settimane fa, è quasi da manuale nel dimostrare quanto danno abbia fatto alla democrazia la convinzione che destra e  sinistra appartengano al passato. Di questa insana idea si approfitta la destra, che da parte sua non ha mai messo quella distinzione in soffitta.

il manifesto 17.10.17
«La Spoe ha rincorso la destra. Così Kurz si è preso l’Austria»
Elezioni. Intervista a Alev Korun, parlamentare dei Verdi, sul crollo del partito. Vienna resta rossa: «La variante più probabile è un governo nero-azzurro con conseguenze catastrofiche in ogni campo, a partire dai migranti. La Fpoe non vuole alcuna integrazione»
di Angela Mayr

VIENNA Non hanno potuto trattenere le lacrime i Verdi, in tanti, all’arrivo dei risultati elettorali, dalla capolista Ulrike Lunacek in giù. Troppo ingiusti, non meritavano un tracollo totale. Forse per un pelo rimangono addirittura fuori dal parlamento.
Con il 3,9% se non riescono a recuperare lo 0,1% per raggiungere il quorum. Può arrivare dalle schede per corrispondenza non ancora scrutinate. Da 31 anni sempre in parlamento, nel 2013 avevano ottenuto il 12,5%. Sempre all’opposizione, voce fondamentale a sostegno di movimenti e diritti negati e al governo in molte città e regioni austriache.
Interi quartieri di Vienna a maggioranza verde sono crollati. Nella loro roccaforte Vienna Neubau hanno perso il 21%. Perdite gravi anche a Graz, Innsbruck, Salisburgo. Voti per la maggioranza andati ai socialdemocratici.
Ad entrare in parlamento ce l’ha fatta invece uno dei fondatori dei Verdi Peter Pilz, che ha lasciato il suo partito solo pochi mesi fa costituendo una propria lista.
Durante una pausa delle riunioni fiume in corso abbiamo parlato con Alev Korun, parlamentare verde dal 2008, portavoce per i diritti umani, migrazioni e integrazione. Nata ad Ankara, è immigrata in Austria a 19 anni.
Come spiega la svolta a destra in atto? Solo 10 mesi fa, quando è stato eletto presidente della repubblica Van der Bellen, la sinistra-liberale era maggioranza al 54% sconfiggendo Hofer.
La considero lo sbocco finale di un lungo processo che è iniziato negli anni ’90, con i due partiti della grande coalizione popolari e socialdemocratici che hanno cominciato a fare propri sempre di più i contenuti portati avanti dall’estrema destra. Fino ad arrivare a oggi. Anche in questa campagna elettorale la Spoe sul problema migranti non si è contrapposta con contenuti alternativi, come si è visto nel video che hanno girato. (Mostra il cancelliere Christian Kern al bar comprensivo verso la gente che esprime paura verso i migranti. In seguito Kern ne ha girato uno opposto, dove mostra sostegno per il lavoro delle ong, nda).
Abbiamo sempre detto che copiare la destra non serve a niente, serve solo a farla vincere. Poi hanno contato anche altre cose, il clima generale che si respira nel mondo, da Trump a Orbán.
Il presidente della repubblica è verde, ma il suo partito rimane fuori dal parlamento, salvo un miracolo. Non è un paradosso? Cosa è successo, perché questa catastrofe?
Noi siamo gli unici che da sempre ci battiamo contro i tagli allo stato sociale, per i diritti umani, i diritti civili, contro il cambiamento climatico, ma i media non ne parlano quasi mai. Scrivono invece che ci mancano i contenuti, tutti a chiedere dove sono i contenuti dei Verdi. Oppure ci accusano del contrario, di avere troppi contenuti, troppo sociali , troppo difficili. È stato un insieme di fattori che ci ha portato alla sconfitta: il conflitto con la nostra organizzazione giovanile finito male con la loro espulsione, il ricambio improvviso al vertice alla vigilia delle elezioni, la scissione di Peter Pilz con un nuova lista. Della crisi dei Verdi i giornali erano pieni. Poi da settimane la campagna elettorale era tutta una lotta per il primo posto, lasciando poco spazio ai partiti piccoli.
Quali conseguenze trarre dal clamoroso insuccesso?
Siamo in piena discussione su questo. È necessario ripartire su basi nuove, da zero, riorganizzarci, che non significa semplicemente ricambio al vertice.
Che effetti avrà un governo nero-azzurro sui migranti?
Non è ancora deciso che ci sarà, ma è la variante più probabile. Saranno catastrofiche in ogni campo. La Fpoe non vuole alcuna integrazione, parte da un concetto di diseguaglianza tra le persone. Non le interessa la convivenza pacifica tra persone e culture diverse, punta alla divisione della società sobillando la guerra tra poveri e culture diverse. Ogni volta che si vota in parlamento o al comune di Vienna su risorse da destinare, per esempio, a corsi di tedesco sono contrari. Ma poi accusano i migranti di non imparare e parlare il tedesco.

Il Fatto 17.10.17
Kurz e la pazza idea di fare un governo “intollerante”
Sebastian (Cristiano-conservatori), il più giovane capo di un esecutivo in Europa potrebbe accettare la corte degli xenofobi
di Giampiero Gramaglia

Da democristiano a democristiano, le congratulazioni del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker a Sebastian Kurz, il vincitore delle elezioni in Austria, con il Partito popolare, sono state agrodolci: Juncker ha augurato all’enfant prodige della politica europea, 31 anni appena, il capo di governo più giovane dell’Ue, “successo nella formazione d’un governo pro-europeo”: come dire, ‘non azzardarti a fare comunella’ con gli xenofobi del Fpoe, che, nella conta dei voti, ancora contendono il secondo posto ai socialisti.
Da democristiana a democristiano, il messaggio della cancelliera tedesca Angela Merkel al neo-collega Kurz è stato solo agro e per nulla dolce: “La vittoria di Kurz – che s’è imposto inseguendo la destra sul suo terreno, la paura dell’immigrazione, ndr – non va imitata… Non vedo in Austria una formazione politica che sia un esempio per la Germania”, dove, tre settimane or sono, l’ingresso nel Bundestag dell’AfD aveva fatto suonare campanelli d’allarme d’estrema destra. La Merkel era già di cattivo umore per i cattivi risultati regionali nella Bassa Sassonia, dove l’Spd di Martin Schulz s’è imposta sulla sua Cdu – magra rivincita, rispetto alla batosta federale –. E certo il modo della vittoria di Kurz non le ha reso il boccone meno amaro, anche se l’Austria ha già vissuto, ai tempi di Joerg Haider, all’inizio del secolo, un’esperienza di estrema destra al governo.
Al quinto ostacolo elettorale in 10 mesi, l’Ue non fa percorso netto e manca il pokerissimo. Ma almeno evita il ritorno alla casella di partenza: i socialisti non crollano e gli xenofobi avanzano meno del previsto. Dal 4 dicembre 2016 – presidenziali proprio in Austria, con il successo del verde europeista Alexander Van der Bellen sul candidato xenofobo Norbert Hoefer -, l’Unione ha visto le forze europeiste imporsi in Olanda, in Francia e in Germania, anche se, a ogni tappa, le forze euro-scettiche hanno coagulato larghi consensi.
Adesso, in Austria, hanno l’opportunità d’andare al potere, specie se i socialisti dovessero confermare il loro no alla riedizione di una ‘grande coalizione’ a ruoli invertiti. Un’Austria a guida Kurz – Heinz-Chsristian Strache s’avvicinerebbe ai Paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Slovacchia, Rep. Ceca e Ungheria) che frenano l’integrazione e s’oppongono a una politica dell’immigrazione europea. Ma i tempi di formazione del governo non saranno verosimilmente brevi: venerdì, il president Van der Bellen affiderà l’incarico a Kurz.
La vittoria del partito del ministro degli Esteri uscente era scontata, meno il testa a testa fra socialisti e xenofobi: i popolari sono vicini al 32%, gli altri due partiti intorno al 27%. I numeri rendono tutte le opzioni possibili: centro-destra, centro-sinistra, persino un’alleanza rosso-nera (molto improbabile). I Verdi, invece, restano sotto il 4%, fuori dal Parlamento: niente ‘Giamaica’, dunque, per i germanofoni del Sud.
Kurz non ha ancora ufficializzato la sua scelta, ma dice di volere formare un governo “per cambiare il Paese”: l’Fpoe di Strache asseconderebbe riforme di stampo liberale che i socialisti, invece, ostacolerebbero. D’altro canto, il giovane cancelliere non mette in discussione l’appartenenza dell’Austria all’Ue e neppure gli xenofobi mettono l’accento sull’uscita dall’Unione o dall’euro.

La Stampa 17-10-17
Prove di larghe intese in Aula
Pd e Fi alleati in un voto su tre
Come si sono comportati i partiti nei provvedimenti chiave della legislatura Lega e M5S allineati nel 71% dei casi: dall’economia alla stretta sui migranti
di Davide Lessi

Uno scenario politico incerto. Dove non è chiaro chi e con quali alleati andrà al governo. Se il Rosatellum dovesse passare anche al Senato l’Italia avrà, alla fine, una nuova legge elettorale. Ma rischierà di essere ingovernabile. «È molto probabile che nessun partito vinca in maniera ampia le elezioni e si tratterà di formare un governo di coalizione con accordi successivi, un po’ come accadeva nella Prima Repubblica», sottolinea Alfonso Celotto, professore di diritto costituzionale all’Università degli Studi Roma Tre.
Per cercare d’immaginare il governo che verrà La Stampa ha studiato i comportamenti delle forze politiche di questa legislatura. Una sorta di radiografia del Parlamento a partire da aprile 2013: dal governo Letta all’attuale esecutivo guidato da Gentiloni, passando per i quasi tre anni di Renzi. L’analisi dei dati parte dalla selezione di 80 voti chiave tra quelli pubblicati da OpenParlamento di OpenPolis. Colpiscono tre cose. Primo: il 32,5% per cento delle volte, praticamente in un caso su tre, Pd e Forza Italia hanno votato insieme. Secondo: l’alleanza post-elezioni tra Lega e Movimento 5 Stelle sembra uno scenario possibile (la convergenza c’è nei 71% dei voti chiave), anche se il sì leghista al Rosatellum sembra aver incrinato i rapporti. Terzo punto, ma collegato: la convergenza tra il Carroccio e Forza Italia (pari al 67,5%) è inferiore a quella tra grillini e forzisti.
Un nuovo Nazareno?
Stando alle dichiarazioni, Silvio Berlusconi ha escluso le larghe intese «per storia e ideologia». Da parte sua il segretario dem Matteo Renzi ha specificato che il voto «sarà un corpo a corpo con il centrodestra populista». Eppure la convergenza tra Forza Italia e Pd nell’ultima legislatura è stata più alta di quella che ci si potrebbe aspettare. Certo, nella prima parte del governo Letta (fino a novembre 2013) i forzisti erano nella maggioranza. E certo, la successiva stagione del patto del Nazareno (l’accordo sulle riforme costituzionali) ha riavvicinato i due partiti in cinque voti chiave. Ma, come si vede dai grafici, le due formazioni hanno tenuto gli stessi comportamenti in Aula anche per altre tipologie di provvedimenti legati alle infrastrutture (convergenza superiore al 60%) e alla sanità (convergenza pari al 60%): si consideri a tal proposito il via libera alla Tav e al decreto vaccini. Forzisti e dem, poi, si sono allineati su singole leggi: lo scambio elettorale politico-mafioso e il decreto esodati del governo Renzi.
L’opposizione netta c’è stata solo sui provvedimenti economici con una divergenza all’80%: dal Jobs Act al decreto pensioni. Ma in tutto per ben 26 volte (sulle 80 esaminate) Forza Italia ha votato come il Pd o con gli stessi effetti sull’iter parlamentare del provvedimento.
L’intesa grillini-Carroccio?
Quella che sembra oggi difficile è un’ipotesi di alleanza post-voto proprio tra Lega e M5S. Certo, le due forze politiche erano (e sono) all’opposizione. Ma la loro affinità in Aula c’è stata in 57 voti chiave, pari a oltre il 70% dei casi esaminati. È la più alta registrata. La convergenza è stata totale sull’immigrazione. Sia per il decreto emergenza migranti (novembre 2013, governo Letta) che per l’accelerazione dei procedimenti di protezione internazionale (aprile 2017, governo Gentiloni) i grillini sembrano aver seguito le indicazioni di un elettorato che è cambiato. Dal 2013 al 2017 emerge uno spostamento a destra del Movimento. Un elettore su tre dei Cinque stelle ritiene sbarchi e rifugiati tra i problemi più urgenti da risolvere in Italia (rilevazione Ipsos 2016) e il 70% di loro vede gli immigrati come un «peso» per il Paese. Non stupisce così che un tema come lo Ius soli avvicini, nei comportamenti in Aula, Lega e Movimento. Le divergenze, invece, si sono registrate solo in 11 voti chiave, specie sul tema dei diritti civili (testamento biologico e divorzio breve).
La Casa delle libertà bis?
Da ultimo si ferma al 67,5% la convergenza tra Lega Nord e Forza Italia. Ma vola all’80% per quanto riguarda i provvedimenti economici e arriva al 100% sulle politiche legate al welfare come, per esempio, il decreto pensioni e il reddito di inclusione (entrambi i partiti contrari ai provvedimenti). Convergenza totale anche sul tema infrastrutture e trasporti (Tav e Sblocca-Italia, su tutti).
Insomma, la nuova Casa delle libertà, superate le divisioni sulla leadership e quella relativa alla spartizioni dei collegi elettorali, sembra pronta ad essere ricostruita.

Repubblica 17.10.17
Legge elettorale, l’aiuto di Verdini “Noi voteremo sì alla fiducia”
I 14 senatori di Ala in soccorso della maggioranza dopo la defezione di Mdp: “Orgogliosi di poter dare il nostro sostegno”. Approvazione lampo: il voto finale è previsto per il 25 ottobre
di Carmelo Lopapa

ROMA. Discussione e approvazione lampo per la legge elettorale al Senato. Approdo in aula martedì 24, voto finale l’indomani.
Perché c’è una svolta che potrebbe chiudere fin d’ora la partita, almeno sul pallottoliere. Il capogruppo Pd Luigi Zanda ha preannunciato il piano parlando in queste ore al telefono coi colleghi degli altri gruppi che sostengono il Rosatellum bis, dunque Forza Italia, Lega e Ap. Anche perché oggi si riunisce la conferenza dei capigruppo e i piani devono essere trasformati in sedute e votazioni da mettere in calendario. Martedì prossimo il testo, che questa settimana sarà varato in commissione, arriverà in aula blindato dalla fiducia, che sarà messa ai voti già il 25, il giorno dopo. La settimana successiva il Senato chiude per le elezioni in Sicilia.
Le ragioni dell’accelerazione però stanno proprio nei numeri che adesso tornerebbero, nei conti fatti in casa dem. Renzi e i suoi dormono sonni più tranquilli. Arriva il soccorso verdiniano a sminare il terreno sul via libera finale. I 151 voti rimasti alla maggioranza dopo lo strappo dei bersaniani di Mdp (16), quelli cioè dei senatori disposti a votare la fiducia, non sarebbero sufficienti. E benché quella fiducia sia tecnica, né Fi, tanto meno la Lega possono spingersi fino al punto di votarla. Mancherebbe dunque all’appello una dozzina di “sì” per il disco verde definitivo. «Ma noi invece la votiamo, dato che al Senato non è previsto un voto sul provvedimento e tutto viene assorbito da quello di fiducia», spiega il capogruppo di Ala, Lucio Barani, alla guida dei 14 senatori della squadra di Denis Verdini (lui incluso). «Ne abbiamo parlato e siamo orgogliosi di dare il nostro sostegno a una legge che consideriamo un po’ figlia nostra – continua – assai simile a quella che avevamo presentato alla Camera e al Senato» (era il cosiddetto “verdinellum”, ndr). «E poi - riprende - è una fiducia tecnica, siamo orgogliosi che passi grazie al nostro aiuto, come tutte le altre riforme di Renzi, del resto. Continuiamo a essere responsabili fino alla fine, se l’Italia si risolleverà lo si dovrà a questo manipolo di visionari di Ala», enfatizza. E pazienza se i forzisti si rifiutano di votare la fiducia, tentando di condurre in porto in altro modo il Rosatellum – uscendo dall’aula o mettendo in missione alcuni dei loro, se servirà per abbassare il numero legale – i 14 verdiniani hanno già deciso. «Ho grande stima di Berlusconi, ma purtroppo si ritrova due capigruppo che lasciano parecchio a desiderare, se fossimo in campo calcistico parleremmo di due brocchi», dileggia Barani.
Il presidente dei 44 forzisti, Paolo Romani appunto, non cede alle provocazioni, spiega al telefono che lui resta della sua opinione, anche se non esclude nulla: «Confermo che per noi è improbabile votare la fiducia», improbabile dunque, non impossibile. «Ad oggi non abbiamo deciso nulla, per noi conta solo approvare a breve il Rosatellum, valuteremo quando arriverà in aula come muoverci, alla Camera siamo già usciti e per coerenza dovremmo seguire la stessa linea». E poi c’è la Lega, col suo peso relativo di 12 senatori. «Ho parlato con Zanda e gli ho già detto che noi la fiducia non la votiamo comunque, seppure tecnica - spiega il capogruppo Gianmarco Centinaio - Siamo disposti anche alle sedute notturne, se necessario, e in queste ore ci riuniamo per decidere eventuali strategie da seguire, se uscire dall’aula o altro, ma il numero legale deve garantirlo la maggioranza, non possiamo aiutarli, e la fiducia non la votiamo comunque». Problema superato, sulla carta, grazie a Verdini e al suo soccorso. Con tutto il fuoco di fila di bersaniani e grillini che ne seguirà.

Corriere 17.10.17
Berlusconi
«Niente larghe intese Resto in campo, vinciamo e indicheremo il premier Ecco il patto con Salvini»
di Marco Galluzzo

Con Matteo Salvini, rivela, esiste una sorta di patto pre-elettorale: «Chi avrà più voti indicherà al capo dello Stato il nome del premier per l’intera coalizione di centrodestra». Quindi esclude un governo di larghe intese con il Pd? «Assolutamente. Con cinque mesi di campagna elettorale, cui dedicherò tutto me stesso, Forza Italia supererà ampiamente il 20%».
Silvio Berlusconi non ha nessuna intenzione di mollare. A Ischia, pochi giorni fa, alcune sue parole, poco più di battuta, sono state fraintese. Annuncia invece un suo impegno massiccio da qui al voto delle Politiche, a marzo. Invita «convintamente» tutti gli elettori azzurri a votare sì ai referendum in Lombardia e Veneto. Infine legge nel voto austriaco una lezione che vale per il tutto il Vecchio Continente: «La sinistra non è più in grado di dare risposte ai cittadini europei».
In Austria il centrodestra ha sbancato le elezioni, ma l’estrema destra ottiene un bottino inedito.
«Il voto in Austria conferma che, nell’Europa di oggi e di domani, è vincente e centrale soltanto una seria forza popolare e liberale. A Vienna, nessun governo potrà mai prescindere dai 62 seggi ottenuti dall’Ovp di Sebastian Kurz, che esattamente come Forza Italia si colloca nel Partito popolare europeo: la “forza calma”, che garantisce il buon governo e che evita passi falsi».
Non c’è il rischio di un isolamento dell’Austria?
«No, sono convinto che Kurz non eleverà alcuna barriera, e che non vorrà assolutamente “isolare” l’Austria. Con la forza del suo quasi 32% di consensi, invece, sarà perfettamente in grado di contenere e moderare le spinte più eccessive e oltranziste che potessero eventualmente venire dall’altro vincitore di questo voto: il Partito della libertà guidato da Heinz-Christian Strache, che ha ottenuto un risultato non clamoroso, ma ugualmente positivo».
Chi sono gli sconfitti?
«I veri sconfitti sono i socialdemocratici del cancelliere uscente, Christian Kern. Anche in Austria la sinistra di governo non ha convinto gli elettori, e anzi ha ottenuto il peggior risultato elettorale della sua storia. Come in Italia e in tutt’Europa la sinistra non ha saputo e non sa dare corrette risposte alle domande che agitano la contemporaneità, come l’immigrazione indiscriminata, la lotta al terrorismo, il lavoro per i giovani. È questa convinzione che mi rende ottimista sul futuro: dopo Germania e Austria, anche in Italia solo una forza di governo affidata a un centrodestra liberale potrà dare una risposta concreta alle attese degli italiani».
I sondaggi continuano a dire che voi e Lega uniti siete avanti a tutti, quali sono le sue previsioni?
«Di vincere le elezioni, governare e di cambiare il Paese, con i nostri alleati del centro-destra. Un centrodestra aperto e plurale, formato non da professionisti della politica ma da persone che nella vita professionale, nel lavoro, nell’impresa, nella cultura, nell’impegno civile, abbiano dimostrato onestà assoluta, serietà, capacità concrete di realizzare le cose, di saper raggiungere con l’intelligenza, il lavoro e il sacrificio i traguardi che si sono dati».
Com’è il suo rapporto personale con Salvini? E chi voterà centrodestra a chi deve pensare come leader guida di un governo possibile, dopo il voto?
«Salvini è irruente all’esterno. È quello il suo stile e il suo modo di conquistare consensi, ma quando ci sediamo intorno a un tavolo è un interlocutore serio e ragionevole. Con lui siamo d’accordo sul fatto che la forza politica del centrodestra che prenderà più voti sarà quella che indicherà al capo dello Stato il nome del premier per l’intera coalizione. Io non ho alcun dubbio sul fatto che quel nome lo dovremo indicare noi. Stiamo valutando diverse figure, ma naturalmente non ne nominerò nessuna, visto il polverone mediatico che si era sollevato quando in passato avevo citato qualche nome solo a titolo di esempio per indicare una tipologia di candidato».
La legge elettorale passerà al Senato, darete una mano alla maggioranza?
«Direi che senz’altro passerà. Mi pare che esista — come è giusto su questa materia — un consenso vasto e il deplorevole fenomeno dei franchi tiratori si è dimostrato fortunatamente limitato. Non è la migliore legge elettorale possibile, io avrei preferito un proporzionale puro (20% di voti uguale a 20% di parlamentari) sul quale in passato tutti d’altronde si erano detti d’accordo. Ma oggi questa legge è però il migliore compromesso possibile. Non potevamo sottrarci alla responsabilità di mandare a votare gli italiani con una legge coerente, come chiesto giustamente anche dal capo dello Stato. L’essenziale è che a questo punto gli elettori dopo quattro governi di sinistra che non sono mai stati votati dagli italiani, possano scegliere la migliore soluzione».
Ogni tanto lei dice che è pronto a mollare tutto, ma poi è sempre lì. Le pesa restare in politica? Quanto sacrifica della sua vita privata?
«Sono qui esclusivamente per senso di responsabilità nei confronti dei miei figli, dei miei nipoti, degli italiani che mi hanno dato in vent’anni più di 200 milioni di voti. In effetti penso che se per assurdo gli italiani scegliessero di essere governati da chi, come i candidati del Movimento Cinque Stelle, che non hanno mai lavorato in vita loro, le conseguenze per tutti noi sarebbero gravissime. Ma spero che gli italiani dimostrino maturità e saggezza. E l’affetto e il calore straordinario che avverto intorno a me ovunque vada è la prima ragione per la quale sento il dovere di andare avanti e nonostante i sacrifici, i torti e le sofferenze che ho dovuto subire da quando sono sceso in campo. Non solo io, ma con me i miei familiari e i miei amici. Nella mia vita quando mi sono dato un traguardo l’ho sempre raggiunto, anche quando tutti erano scettici e ironizzavano prevedendo un mio fallimento. A maggior ragione non rinuncerò questa volta al traguardo più importante di tutti: la rivoluzione liberale per cambiare alla radice il Paese che amo salvandolo dall’oppressione fiscale, dall’oppressione burocratica, dall’oppressione giudiziaria».
Forza Italia storicamente è sottostimata nei sondaggi, oggi viene data intorno al 15%, così come la Lega. Pensa possa superare il 20% con la sua campagna elettorale?
«I miei obiettivi sono molto più ambiziosi. Nel 2013, in ventitré giorni di campagna elettorale, ho fatto ricuperare 10 punti a Forza Italia. Stavolta abbiamo davanti 5 o 6 mesi che dedicherò principalmente a questo, quindi a far conoscere agli italiani il nostro programma e a farli riflettere su chi sarà in grado davvero di cambiare l’Italia».
Se nessuno vincesse le Politiche potrebbe esserci la necessità di un governo di larghe intese Pd-Forza Italia?
«Lo escludo. Il problema non si porrà nemmeno, perché vinceremo noi».
Fra pochi giorni il Pd apre una conferenza programmatica. In Italia si parla poco di programmi, anche del vostro.
«Sono contento che finalmente ci sia una domanda su questo. Per la verità, io ne parlo continuamente, perché credo che agli italiani non interessi il teatrino della politica, ma vogliano idee concrete per far uscire finalmente l’Italia dalla crisi. Il nostro programma ha una particolarità: è nato dal confronto con gruppi di cittadini, che non avevano votato nelle ultime elezioni e che avevano già deciso di non votare anche la prossima volta. Lo abbiamo scritto per così dire a quattro mani con loro, punto per punto. Poi l’ho riassunto graficamente in un Albero della Libertà che affonda le radici nei nostri valori e che su ogni ramo contiene le nostre proposte. In estrema sintesi? Meno tasse, meno Stato, meno burocrazia italiana ed europea, più aiuto a chi ha bisogno, più sicurezza per tutti e più garanzie per ciascuno».
Che suggerimento darà ai suoi elettori per il referendum in Lombardia e Veneto?
«Noi voteremo convintamente sì, perché non è un referendum contro l’unità nazionale, è un referendum che la rafforza. Non è neanche un referendum di parte, raccoglie consensi trasversali. Nulla a che vedere con la Catalogna, un dramma che io spero si risolva pacificamente e nel quadro della legalità costituzionale spagnola».
Quindi lei crede nelle ragioni referendarie?
«Nel caso della Lombardia e del Veneto si tratta di dare più potere e più competenze ad amministrazioni che hanno dimostrato di funzionare bene. Questo non è egoismo regionale: se le due locomotive d’Italia funzionano meglio, ne guadagna l’intero Paese. D’altronde a me piacerebbe che non solo Veneto e Lombardia, ma tutte le Regioni italiane, potessero godere di maggiore autonomia, di poteri più chiari e definiti. Si compirebbe quel federalismo che è nei nostri programmi dal ‘94 e che abbiamo già provato ad introdurre nella riforma varata nel 2005, ma bocciata poi dalla sinistra per ragioni solo ideologiche. La sinistra si comporta sempre così. La politica del “tanto peggio, tanto meglio” per loro è una costante».

Corriere 17.10.17
Legge elettorale al via in Senato Verdini e i suoi verso la fiducia
di Giuseppe Alberto Falci

A Palazzo Madama il voto di fiducia sul Rosatellum non preoccupa la maggioranza. «È un falso problema quello del numero legale», dissimula un alto dirigente del Pd. Il primo nodo sarebbe già stato risolto con l’aiuto del solito Denis Verdini. La maggioranza infatti potrà contare sul «soccorso» di Ala che in Senato ha 14 parlamentari, pronti a sostituire i 16 senatori bersaniani pronti all’Aventino per impedire l’approvazione di una legge che definiscono «un imbrogliellum». «I veri riformatori siamo noi — giura Lucio Barani, presidente dei senatori di Ala — sosterremo e voteremo la fiducia tecnica. Daremo tutto alla maggioranza, anche il numero legale». In questo modo sulla carta la maggioranza sul voto di fiducia arriverebbe a quota 163 (togliendo dalla maggioranza i senatori a vita). Tuttavia il Pd tiene aperta una sponda con FI. I capigruppo Luigi Zanda e Paolo Romani non svelano le carte, ma starebbero studiando una strategia per scongiurare il sostegno di Verdini evitando così le critiche dei fuoriusciti del Pd. Una mossa che serve anche ad impedire imboscate da parte di chi potrebbe alzarsi e chiedere la verifica del numero legale. Dagli uffici legislativi del Senato fanno notare che di norma il numero legale oscilla attorno a quota 145, ma in questo caso potrebbe salire a 160. Ecco perché i vertici azzurri starebbero preparando una lista di 15 senatori, composta dai «più berlusconiani». Parteciperebbero al voto di fiducia ma esprimerebbero un voto contrario, strategia che blinderebbe la maggioranza e il patto a quattro Pd-FI-Lega-Ap sul Rosatellum.
il manifesto 17.10.17
Rosatellum, legge bugiarda
di Gaetano Azzariti

Il senato sta per approvare una legge bugiarda: un insieme di regole elettorali che dicono qualcosa ma intendono altro. Lo dimostra il fatto che si consente alle forze politiche di presentarsi alleate, scontando però che queste possano rimanere separate. Si dice coalizione, s’intende permanenza delle singolarità. Un’unione di convenienza, tutt’al più. Vero è che anche in passato abbiamo assistito a «clamorose» rotture delle alleanze pre-elettorali, ma in un sistema che si pretendeva bipolare le coalizioni erano legate ad un programma di governo ed esse venivano definite al fine di vincere le elezioni per governare assieme. Ora non più. Il collegamento diventa puramente tattico, sapendo che il giorno dopo le elezioni ognuno sarà libero di unirsi con chi vuole. Tant’è vero che ogni partito potrà presentarsi dinanzi agli elettori con un suo programma, diverso da quello delle altre liste collegate. Inspiegabilmente, in questo contesto, ciascuna lista dovrà ancora indicare il capo della forza politica. In precedenza ciò veniva giustificata dal fatto che le forze politiche coalizzate «si candidano a governare». Qual è adesso il valore di tale indicazione? Una mera finzione priva di motivazione istituzionale. Insomma, un altro piccolo inganno.
Dunque, si parla di coalizioni pensando, piuttosto, ad una strumentale associazione elettorale tra partiti finalizzata esclusivamente ad una migliore spartizione dei seggi. Tutto ciò avviene a scapito della chiarezza del voto. Si pensi solo che, in tal modo, si viene a privare definitivamente l’elettore della possibilità di scegliere oltre al partito anche una maggioranza: chi voterà a destra, magari Salvini, potrà finire per favorire l’alleanza postelettorale tra Renzi e Berlusconi. Per i fautori della governabilità e del «governo prima delle elezioni» una bella piroetta. Per l’elettore un altro piccolo imbroglio.
Ma perché partiti non intenzionati a formare una maggioranza post-elettorale dovrebbero presentarsi tra loro collegati? La risposta è assai semplice: per provare a vincere insieme il seggio del collegio uninominale, che viene assegnato, in base al sistema maggioritario, a chi ottiene un voto più degli altri. E qui si svela un altro raggiro. La logica che presiede la competizione tra candidati in collegi uninominali maggioritari è chiara e collaudata, assai diversa da quella dei collegi plurinominali proporzionali. Nel primo caso la competizione è tra persone, nel secondo tra liste (tanto più se queste sono «bloccate»), nel primo caso vince tutto chi ottiene un voto in più degli altri competitori, nel secondo la distribuzione dei diversi seggi è assegnata in proporzione ai voti riportati da tutte le liste che si sono presentate e che abbiano superato una certa soglia di consensi. È possibile adottare sistemi misti, prevedendo che una parte dei parlamentari siano scelti con criteri uninominali, altra parte seguendo le dinamiche plurinominali. In tali casi, però, il voto deve essere disgiunto, al fine di preservare la volontà espressa dall’elettore. Se, infatti, com’è nella ingannevole legge che si vuole approvare, l’unico voto che l’elettore esprime vale tanto per la persona (uninominale) quanto per la lista (plurinominale), si finisce per perdere ogni distinzione, e il primo sistema di scelta viene assorbito dal secondo. L’uninominale diventa un abbaglio, il candidato che si presenta di fronte all’elettore nei diversi collegi per chiedere di rappresentare l’intero territorio, in realtà non raffigura altro che il capolista (plurimo) di tutte le liste a lui collegate, le quali, con un travaso di voti indecente, saranno le reali beneficiarie di un voto da loro non direttamente conquistato. Potremmo con maggior realismo dire: un candidato per conto terzi, quello dell’uninominale.
Un voto – e questo è l’ultimo inganno – che non mi sembra riesca a garantire – così come richiesto dalla Consulta nel 2014 – «la facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti», bensì riproduce una disciplina che «priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti». Infatti, le liste bloccate brevi che dovrebbero assicurare la riconoscibilità dei candidati in realtà sono affiancate da una serie di norme di contorno che tendono ad alterare la scelta dell’elettore nel momento dell’assegnazione del seggio. Così, le pluricandidature, che fanno variare il risultato nei diversi collegi. Anomalo anche l’uso disinvolto – scollegato da ogni criterio di rappresentanza diretta – dei voti dati a liste che hanno conseguito un risultato tra l’1% e il 3%, le quali, pur non ottenendo seggi, contribuiranno comunque al risultato di altre liste. Non è neppure detto che i voti degli elettori vengano computati per eleggere rappresentanti nel collegio dove essi sono espressi, ma possono servire per leggere chissà chi, in chissà quale parte del territorio nazionale. Altro che conoscibilità dei candidati da parte dell’elettore. Ma, in ultima analisi, basta scorrere le norme dedicate alle operazioni che si devono compiere per attribuire i seggi: tanto complicate che è prevista la possibilità che l’ufficio elettorale si possa fare assistere da uno o più esperti. Ci si affida agli esperti per mettere ordine al caos di una normativa confusa. E già questo basterebbe per prendere le distanze da una legge bugiarda.

Repubblica 17.10.17
Dopo l’assenza al decennale, un altro segno di estraneità. Forse un video per rispetto di Bonino E confida: Renzi si illude di separare Berlusconi e Lega
Prodi si tiene lontano dal Pd no al convegno europeista che lancerà una lista alleata
di Goffredo De Marchis

Corriere 17.10.17
Il Professore deluso pure da Pisapia. A giugno gli disse: “Gira l’Italia. Come? Magari usando l’Ape...”
Due volte premier
Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo e del Pd, è stato due volte premier: tra il 1996 e il 1998 e tra il 2006 e il 2008.

ROMA. Prodi non vuole partecipare alla convention europeista del 28 ottobre organizzata dai Radicali guidati da Emma Bonino. Doveva essere l’ospite d’onore, ma per il momento è orientato a rinunciare vista la piega che ha preso l’evento: il lancio di una lista pro Ue che Matteo Renzi immagina coalizzata con il Pd. Per un atto di riguardo verso Bonino, sta pensando di inviare un videomessaggio di saluto, il cui rischio è apparire ancora di più come una plastica presa di distanza.
Se il Professore tiene la sua tenda lontana, lontanissima dal Partito democratico (lo dimostra la sua assenza al decennale di sabato), a maggior ragione non pensa di piantarla nel campo di un partitino alleato o, peggio, di una possibile lista civetta. Nella coalizione disegnata da Renzi, Prodi intravede il contrario delle intenzioni dichiarate e delle sue speranze: una frantumazione del centrosinistra se è possibile più estesa e più confusa rispetto a oggi. È vero che la legge elettorale va verso la logica coalizionale, ma è anche vero che una ritrovata unità si realizza «con la politica, non con le regole », ha detto Prodi agli amici in queste ore. E una politica in grado di ricucire i pezzi del centrosinistra, Prodi non la vede proprio. Nè da parte di Renzi nè da parte di altri. «Il centrodestra lavora da mesi a ricomporre il quadro e adesso che c’è lo strumento, ovvero la legge elettorale, arriva già pronto. Basta leggere giorno per giorno come sono cambiate le parole di Salvini».
Il piano di Renzi potrebbe essere quello di separare, dopo il voto, Berlusconi dalla Lega per fare una maggioranza di governo. Ne ha parlato anche con il Professore. «Mi ha fatto capire che questo è il punto di arrivo — racconta Prodi ai suoi interlocutori — . Per me si sbaglia. Quella sarà una coalizione vera, come la Casa delle libertà. E non si dividerà dopo le elezioni».
La probabile rinuncia di Prodi all’appuntamento del 28 dimostra che a Bologna si nutre poca fiducia su un nuovo centrosinistra in grado di competere e battere le forze della destra. Manca la visione, il progetto e infine la volontà di giungere al risultato. Le dichiarazioni di Renzi del tipo “il candidato premier sono io” non aiutano affatto. Anche Carlo Calenda, altro ospite annunciato della convention, comincia ad avere qualche dubbio: assomiglia troppo all’esordio di un partito. «L’ho detto 60 volte che non mi candido. E ho avvertito gli organizzatori: vengo solo se si parla di Europa e non di elezioni».
Quel giorno dovrebbero prendere la parola anche Enrico Letta, Roberto Saviano e Giuliano Pisapia. Ma le voci sulla nascita di una lista elettorale stanno agitando anche il leader di Campo progressista. La sua presenza non è confermata. Benedetto Della Vedova, uno degli organizzatori, ha colto il pericolo di defezioni a catena. «So che Prodi è arrabbiato per come è stato descritto l’evento», diceva qualche giorno fa. L’effetto dell’arrabbiatura potrebbe essere la definitiva rinuncia.
L’ennesima assenza del fondatore dell’Ulivo e del Pd a un evento legato al centrosinistra dimostra il disincanto del Professore. Si aspettava qualche segnale in più anche da Pisapia. A giugno, richiesto di un consiglio, gli aveva suggerito: «Adesso non ascoltare nessuno. Mettiti a girare l’Italia e basta». L’ex sindaco gli aveva domandato: «Ma come? In treno, in pullman?». «Vuoi un’idea nuova? Usa l’Ape», aveva risposto Prodi. Come dire: stai in mezzo alla gente. L’estate è passata e il giro d’Italia non c’è stato.

Repubblica 17.10.17
Renzi, com’è difficile trovare alleati dopo gli anni del partito personale
Un’illusione pensare che Pd e FI facciano un accordo dopo il voto, C’è un patto politico fra Berlusconi e Salvini
La legge Rosato, per come favorisce le coalizioni, aiuta il centrodestra Berlusconi-Salvini e danneggia il Pd di Renz
di Stefano Folli

ERA GIÀ abbastanza chiaro, ma adesso è evidente.
La legge Rosato, per come favorisce le coalizioni, aiuta il centrodestra Berlusconi-Salvini e danneggia il Pd di Renzi che ha ben maggiori difficoltà a trovarsi alleati di peso. In un certo senso, il Pd è isolato o quasi: all’incirca come i Cinque Stelle, sulla carta vittime designate del marchingegno elettorale che premia chi si coalizza e punisce chi sta per conto suo.
La differenza è che Grillo sceglie la solitudine, mentre Renzi vorrebbe trovare sostegno. Vorrebbe, in altri termini, annacquare quella “vocazione maggioritaria” che fin qui non gli ha portato fortuna e che oggi è resa superflua dal nuovo schema di gioco. Ma certe operazioni sono più difficili a dirsi che a farsi. La “vocazione maggioritaria” del Pd, uscita dalla porta, rientra dalla finestra. E si capisce: Renzi ha ormai plasmato il Pd a sua immagine, per cui tre anni non si cancellano in un attimo. Costruire un cartello elettorale è straordinariamente complicato per chi ha sempre puntato con orgoglio al partito “personale” e solo adesso, spinto dalla necessità, cerca qualche compagno di viaggio. Di qui le aperture a Pisapia, ai centristi di Alfano, ai laici di Della Vedova, eccetera. Non agli scissionisti di Bersani e D’Alema, come è ovvio.
In realtà il segretario del Pd, in forme del tutto legittime, sta mettendo in pratica ancora una volta la tattica del “voto utile”. Una tattica lineare: si ribadisce che il Pd è il baricentro del sistema, nonché argine principale al “populismo”, e ci si sforza di convincere gli elettori che non possono sprecare il loro voto. In passato lo stesso Veltroni, che oggi si batte per l’unità delle forze di centrosinistra, si rivelò un abile propagandista del “voto utile”: ne sanno qualcosa gli sfortunati inventori della lista Arcobaleno, a cominciare da Bertinotti. Renzi segue le orme veltroniane, ma oggi la legge Rosato consiglia e quasi impone le coalizioni. Così diventa necessario per il segretario corteggiare l’arcipelago delle piccole forze - talvolta forze minime - e trovare qualche seggio nelle due Camere da offrire loro in cambio dell’intesa elettorale.
È anche questo un modo per inseguire il “voto utile”, pur sapendo che il centrodestra ha il vantaggio di poter costituire una vera alleanza, in cui i due maggiori partner si equivalgono intorno al 14-15 per cento e il terzo, Fratelli d’Italia, rivendica un pur sempre rispettabile 5 per cento. L’asimmetria fra i due blocchi è stata rilevata con la consueta lucidità da Ilvo Diamanti su queste pagine. Il centrodestra si coalizza, supera le sue gravi contraddizioni, e trae una spinta dai risultati che arrivano dall’Austria nazional-populista. Il centrosinistra su questo terreno è più debole e deve fare appello al carisma un po’ usurato del suo leader, in un’Europa in cui le sinistre sono state estromesse dal governo quasi ovunque, almeno nei paesi maggiori.
IL RISULTATO di Vienna ci dice che sarà pressoché impossibile, dopo il voto, spezzare il patto politico fra Berlusconi e Salvini. I due si detestano e non c’è alcuna probabilità che si ricrei il vincolo anche umano (ma non solo) che legava il fondatore di Forza Italia a Umberto Bossi. Tuttavia oggi il problema non è della Lega, bensì del cuore tedesco del Ppe. Spetta infatti ai Popolari decidere fino a che punto vorranno farsi condizionare e magari trasformare dai vari Kurz e Orban, considerando che anche lo strano ibrido Berlusconi-Salvini contribuirà all’evoluzione o involuzione del Ppe.
Non a caso la speranza implicita di trovare una maggioranza nel prossimo Parlamento passa - o meglio, passava - attraverso la convergenza fra il Pd renziano e un Berlusconi liberatosi del suo ingombrante alleato. Ma questo piano è in buona misura un’illusione. Certo, se Renzi si avvicinasse al 40 per cento dei consensi, insieme agli alleati che per ora non ha, lo scenario sarebbe diverso. Ma quella soglia al momento è un miraggio. Del resto, i piccoli potenziali soci hanno cominciato a porre condizioni, come è normale. E la matassa si aggroviglia. Anziché fermarsi alle manovre tattiche, forse sarebbe più vantaggioso se il Pd si interrogasse sulle ragioni per cui la sinistra perde ovunque in Europa. In fondo era questo il senso del discorso di Veltroni.

La Stampa 17.10.17
Michele Anzaldi, deputato Pd
“Grande coalizione? Il renzismo è pragmatico contro i populisti”

È il «pragmatismo», dice Michele Anzaldi, deputato Pd, «la migliore risposta al populismo». E la declinazione italiana del pragmatismo, specifica ancora meglio, è «il renzismo».
Che per i vostri avversari vuol dire che Matteo Renzi si allea con Silvio Berlusconi, tradotto: inciucio...
«I 5 Stelle giocano sul fatto di non avere un programma. Così possono parlare alla pancia del Paese con una certa spregiudicatezza, solleticando chi urla che siamo tutti corrotti o ladri. Guardassero piuttosto a cosa hanno fatto assieme alla Lega. Se sostenessero lo Ius soli, la legge passerebbe. Invece si sono piegati al consenso e ai diktat di Grillo. Come sull’Europa: soffiano sul vento del populismo assieme ai leghisti».
Ma ammette che ormai tutto è pronto per un governissimo con Forza Italia?
«Ma ancora siamo al carissimo amico...bisogna approvare la legge elettorale, andare al voto e poi vedere che succede».
Intanto, in questa legislatura c’è stato un avvicinamento con il centrodestra, nelle votazioni di legge, sui temi come la giustizia che una volta vi dividevano ferocemente...
«Quali sono i problemi dell’Italia? Il lavoro e la lentezza della giustizia. Io, presidente del Consiglio, devo risolvere questi problemi. L’ho promesso e lo faccio, andando a cercarmi i voti in Parlamento da chiunque, mettendo la fiducia o altro. Questo è il renzismo, la migliore risposta al populismo. Abbiamo promesso la legge sulle unioni civili? La porto a casa anche con i voti degli avversari. È grazie al tanto vituperato Denis Verdini che quella legge è passata, non ai 5 Stelle».
I partiti che Renzi definisce populisti - Lega, Fratelli d’Italia e M5S - tutti assieme sfiorano il 50% dei consensi. Non avete paura che con un’altra alleanza di governo con il centrodestra, possano aumentare ancora?
«La paura c’è. Ma non possiamo ragionare come i grillini inseguendo solo il consenso. Se credi in qualcosa per ideale e passione, non puoi rinnegarla nella speranza di prendere un voto in più. Gli italiani dovranno scegliere, come è avvenuto a Roma o a Torino. Preferiscono una legge che consente di avere un governo che risolve i problemi o finire nella palude di Virginia Raggi? A noi il compito, in campagna elettorale, di spiegare ai cittadini quali sono i rischi che corrono in questa scelta».
Una scelta tra Di Maio, da una parte, e Renzi in asse con Berlusconi dall’altra?
«Il nostro migliore presidente del Consiglio è chi si candida a fare quello che dice e non si limita a galleggiare, pensando al voto dell’indomani. Chi è capace di trovare la maggioranza che gli può permettere di realizzare quanto promesso, senza guardare in faccia nessuno».

Corriere 17.10.17
Fondi e compravendite fittizie I trucchi dei manager Etruria
di Federico Fubini e Fiorenza Sarzanini

ROMA Ville, appartamenti, vigneti, negozi. Ma anche rimesse, stalle, pascoli. È il tesoro dei manager accusati di aver «spolpato» Banca Etruria. Un lungo elenco di beni di consiglieri di amministrazione, sindaci e revisori citati in giudizio davanti al tribunale civile di Roma da Giuseppe Santoni, il liquidatore che ha chiesto e ottenuto lo stato d’insolvenza dell’Istituto di credito aretino. Il commissario quantifica in 520 milioni di euro il danno subito da risparmiatori e creditori. Ma alcuni dirigenti avrebbero già messo in piedi strutture patrimoniali per provare a proteggersi dall’azione di responsabilità.
Il fondo di Berni e il mutuo di Boschi
Tra loro l’ex vicepresidente Alfredo Berni e l’ex direttore generale Luca Bronchi. Mentre l’altro ex vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del sottosegretario Maria Elena, non sembra aver preso particolari misure difensive. Boschi — che ha numerose altre proprietà — ha comunque acceso un mutuo da 130mila euro con Monte dei Paschi, nell’aprile 2016, presentando come ipoteca un immobile valutato 260 mila euro: affare concluso quando era già stato multato da Consob proprio per il suo ruolo in Etruria. Altri amministratori avrebbero invece pianificato curiose operazioni di vendita che durano decenni, transazioni creative che sembrano fatte apposta per sfuggire ai controlli. Molte di queste azioni sono scattate pochi mesi dopo il decreto del governo che ne decretava il fallimento.
Per questo, dopo la scelta di Santoni di costituirsi parte civile nel processo per bancarotta che si sta celebrando ad Arezzo, si sta adesso valutando l’opportunità di chiedere il sequestro cautelativo, misura che servirebbe a garantirsi l’effettivo versamento tempestivo degli indennizzi in caso di condanna. Bronchi si è mostrato il più accorto fra gli amministratori aretini, visto che ha costituito un fondo patrimoniale in tempi apparentemente non sospetti: due anni prima del fallimento della Banca (che però versava già in serie difficoltà). La sua struttura, dati i tempi, appare oggi la meno aggredibile dai creditori. Meno tempestivo e dunque oggi più vulnerabile si rivela Berni, titolare di beni in provincia di Arezzo e di Pesaro, tutti confluiti in un fondo patrimoniale costituito solo il 2 marzo 2015: tre mesi e mezzo dopo il crac di Etruria.
Pascoli e case da Arezzo a Laterina
I componenti dell’ultimo Cda mostrano di avere tutti un consistente patrimonio personale. Rosi possiede due appartamenti a Loro Ciuffenna, uno dei paesi più belli della provincia aretina, e ben 23 terreni, oltre a una casa e un negozio a San Giovanni Valdarno. Due appartamenti e due esercizi commerciali figurano nel patrimonio del suo vice Alfredo Berni che possiede numerosi ettari di bosco e coltiva ulivi. I beni di Boschi risultano tutti a Laterina e la lista comprende due negozi, un appartamento, un monolocale, la villa di famiglia e sei terreni.
Fornasari risulta proprietario di immobili e terreni ma soltanto in minima percentuale rispetto ai familiari, anche se questo non lo mette a riparo da eventuali pignoramenti. Discorso simile per l’ex direttore generale Luca Bronchi, titolare di una villa da 13 vani e due terreni tra cui un uliveto. Ben più consistente il patrimonio dei due consiglieri Carlo Catanossi e Margherita Gatti. Mentre il primo conta su due ville a Gualdo Tadino, oltre ad appartamenti e negozi, l’altra possiede svariate case a Perugia. Lunga lista anche per Paolo Cerini e Claudio Salini, titolare di numerose aziende con appalti in tutto il mondo.
La compravendita del commercialista
Particolare è il caso di Luciano Nataloni, commercialista fiorentino finito sotto inchiesta per aver ottenuto fidi in conflitto d’interessi: sedeva in consiglio dell’Etruria e allo stesso tempo godeva di generose linee di credito della banca. Nataloni è al centro di una curiosa vicenda che si snoda fra il 1981 e il marzo 2015. È infatti allora, quattro mesi dopo il fallimento di Banca Etruria, che il commercialista è oggetto di una domanda giudiziale di adempimento dopo 34 anni. In altri termini, qualcuno avrebbe chiesto al giudice di obbligarlo a vendere un immobile per il quale Nataloni stesso avrebbe intascato la caparra nel 1981: contro di lui scatta un atto legale tardivo, ma il cui effetto è di togliere l’immobile alla disponibilità di Nataloni e dunque, potenzialmente, schermarlo in vista di eventuali azioni di responsabilità per il crac di Etruria.
Per quanto riguarda l’ex presidente Lorenzo Rosi — sedeva al vertice dell’ultimo Cda prima del commissariamento deciso da Bankitalia — andranno analizzate alcune permute di beni fra Arezzo e Grosseto.
Lo schermo imperfetto e i tempi della giustizia
Con il caso dell’Etruria, come in quello delle banche venete, il ruolo dei fondi patrimoniali diventa centrale. Un fondo patrimoniale è un «trust» che un titolare può cointestare alla moglie e ai figli minorenni, pur conservandone la disponibilità. Strutture del genere sono usate in tutto il mondo per proteggere i patrimoni degli amministratori. In Italia la legge permette comunque di aggredire sia immobili intestati a terzi che fondi patrimoniali di cui siano comproprietari i familiari di una persona oggetto di un’azione di responsabilità. «Quegli atti non proteggono i beni in maniera impermeabile perché sono revocabili», spiega l’avvocato Antonella Lillo, uno dei maggiori esperti in diritto bancario in Italia. Eppure proprio i fondi patrimoniali producono un effetto quasi altrettanto prezioso, visto il ritmo della giustizia italiana: fanno guadagnare tempo. Per scardinare un fondo patrimoniale servono almeno sei mesi, ricorda Lillo, ma dopo gli appelli possono passare anche più di quattro anni.
A maggior ragione è decisivo il momento in cui quei fondi vengono creati. L’ex amministratore di una banca fallita che lo fa molti anni dopo il matrimonio o la nascita dei figli solleva già il sospetto che stia compiendo un atto che crea un danno ai creditori. Difficile per lui proteggersi davvero in quel modo.

il manifesto 17.10.17
In piazza sabato 21 l’Italia antirazzista
di Filippo Miraglia

Il prossimo sabato 21 ottobre l’Italia antirazzista, della solidarietà e dei diritti scenderà ancora una volta in piazza a Roma, dando vita a un corteo che si muoverà alle 14.30 da Piazza della Repubblica. L’esito delle elezioni austriache, con la preoccupante avanzata delle destre neo fasciste e xenofobe, e la virata a destra dei conservatori di Kurz, che arriva dopo l’affermazione della destra neo nazista in Germania, è l’ennesima conferma che sulla questione immigrazione si gioca il destino politico e culturale dell’Europa e quindi anche il nostro.
Siamo di fronte ad un passaggio cruciale, in cui serve un’assunzione di responsabilità collettiva per contrastare il clima di intolleranza diffusa che mina le stesse basi della convivenza civile.
In Italia, come negli altri Paesi dell’Ue, la sinistra non ha la forza – nella migliore delle ipotesi – di mettere in campo un’alternativa all’altezza della sfida. In molti casi ha scelto purtroppo di stare dalla parte sbagliata, inseguendo le destre con misure sempre più discriminatorie.
Le politiche di esternalizzazione delle frontiere, l’attacco alle Ong con la criminalizzazione della solidarietà, il ricorso a una legislazione che cancella molte garanzie giurisdizionali per i richiedenti asilo, sono tutti pezzi di un puzzle che individua un capro espiatorio preciso, migranti e rifugiati, su cui indirizzare la rabbia di chi soffre le difficoltà e il disagio sociale dovuti alla crisi economica e alle risposte sbagliate che sono state date finora.
Le ragioni dei diritti sono sempre meno popolari e molti dei valori su cui si sono affermate le moderne democrazie si stanno sgretolando. Tra questi, il fondamentale principio della salvaguardia dei diritti delle minoranze.
Oggi non è più un tabù dichiarare che non ci possiamo permettere solidarietà e diritti uguali per tutti. Prima gli italiani, prima gli austriaci, e via di questo passo. affermazioni che cancellano secoli di storia e conquiste sociali.
Le immagini, trasmesse proprio in questi giorni, del lungometraggio di Fabrizio Gatti sulla strage di centinaia di persone abbandonate in alto mare dalla nostra guardia costiera l’11 ottobre del 2013 rivelano un cinismo e una barbarie che fino a qualche tempo fa avremmo ritenuto impossibili. Così come è repentinamente cambiata la posizione della cancelliera tedesca Merkel sui flussi migratori dopo i non buoni risultati elettorali. La leader dei popolari tedeschi, pur precisando che non si può parlare di tetto, ha però dato la cifra di 200 mila persone straniere quale quota limite per l’accoglienza nel suo Paese. Merkel  e gli altri leader europei sanno che la legge non consente di porre limiti numerici. Se li richiamano è solo per rassicurare, a parer loro, un’opinione pubblica spaventata e recuperare consenso elettorale.
Ma sono in realtà tutti argomenti che favoriscono le destre e il diffondersi di sentimenti razzisti. Lo stesso discorso si può fare per la mancata approvazione dello ius soli. Se per paura di perdere consensi, la maggioranza, e in particolare il Pd, dopo due anni di inutile attesa non approveranno la legge di riforma della cittadinanza faranno l’ennesimo regalo alla destra. Non approvando il ddl, faranno loro un regalo elettorale, alimentando ulteriormente la deriva xenofoba del nostro Paese.
L’unica alternativa è provare a costruire dal basso un’alleanza di forze sociali, reti, associazioni e movimenti che mettano in campo una coalizione dei diritti, dell’accoglienza, della solidarietà e dell’uguaglianza, dimostrando che esiste una parte grande del Paese che rifiuta politiche ciniche e discriminanti.
Quest’alleanza deve avere come protagonisti i soggetti che sono vittime del razzismo e dell’opportunismo politico, a partire dai giovani di origine straniera e dai richiedenti asilo e rifugiati, che parteciperanno alla manifestazione del 21 ottobre.
Per tutti questi buoni motivi è importante essere in piazza in tante e tanti sabato 21 ottobre, raccogliendo l’appello sottoscritto da centinaia di organizzazioni sociali che hanno scelto di stare dalla parte giusta.
* vicepresidente nazionale Arci

il manifesto 17.10.17
Se la borghesia catalana volta le spalle a Puigdemont
Spagna. Il blocco economico e sociale, che ha puntellato gli ultimi decenni del governo catalano, toglie l’appoggio al governo lasciandolo in mezzo al guado
di Tommaso Nencioni

Il velo di incertezza che ammanta il processo indipendentista catalano non dipende solo dal muro contro muro tra il governo statale e quello regionale. E’ il processo in sé ad essere contraddittorio, e questa contraddittorietà è più scoperta che mai tra i conservatori del Partito Democratico Europeo Catalano (PDECat), di cui fa parte il presidente Puigdemont.
Bisogna tener presente lo stress a cui è sottoposta la “ragione sociale” del PDECat, che oltre alla presidenza esprime i ministri più importanti ed il gruppo parlamentare più numeroso, grazie però ad un’alleanza con l’estrema sinistra nazionalista (Cup) e con un altro movimento storico dell’indipendentismo, Esquerra repubblicana.
Proprio Esquerra repubblicana grazie al processo sta recuperando una centralità nella lotta politica catalana della quale non godeva dagli anni Trenta del secolo scorso.
Il catalanismo è un fenomeno politico-sociale e culturale variegato, nonché trasversale all’intera società. Storicamente tradotto in un sistema politico a sé stante, estremamente diversificato rispetto a quello dello Stato spagnolo nel corso della transizione. Perfino il partito comunista, e fin dal 1936, non ha mai avuto formalmente una propria «federazione catalana»: Pce e Psu di Catalogna – caso unico nella Terza Internazionale – avevano entrambi delegati propri al Comintern.
DETTO DI QUESTA capillare trasversalità del fenomeno, della vivacità con cui è propagato dalla società civile, e degli innegabili margini di manovra che al suo interno si sono aperti in passato e si aprono tutt’oggi per la sinistra – maggioritaria nella città di Barcellona e nel suo retroterra industriale – non si può certo trascurare l’egemonia esercitata dai conservatori sul governo della Generalitat. Convergència democratica de Catalunya, poi PDECat (il cambio di nome si deve ai numerosi scandali di corruzione a cui è stato recentemente legato il partito) governa infatti ininterrottamente la regione autonoma dai tempi della transizione, eccezion fatta per una parentesi di centro-sinistra a metà degli anni Duemila.
Il progetto politico che sboccò politicamente nel corso della Transizione in Convergència risale in realtà ai primi anni Sessanta del Novecento. Leader indiscusso ne è stato fino agli albori del XXI secolo Jordi Pujol, espressione del cattolicesimo moderato nazionalista, con solidi addentellati nel mondo della cultura catalanista e della borghesia del principato, che proprio nella decade dei Sessanta iniziava a mal sopportare l’autarchia economica del regime franchista. Il pujolismo ebbe l’indubbio merito di contendere al fascismo l’egemonia sull’alta borghesia catalana e di convertirla, per così dire, alla democrazia. Allo stesso tempo, elaborando un programma economico latamente socialdemocratico, secondo i dettami dell’epoca, Pujol ed i suoi seppero conquistarsi un consenso di massa nella piccola borghesia. Si deve in effetti ai governi di Convergència, oltre che alle spinte dal basso di un movimento operaio e popolare particolarmente agguerrito e ben organizzato, la costruzione di un welfare catalano moderno ed efficiente. Un sistema di protezione sociale che ha retto fino allo scoppio della crisi, quando il governo guidato da Artur Mas, che di Pujol era stato il delfino, si fece portatore degli interessi dell’oligarchia barcellonese ed attuò una feroce politica di retalladas (tagli allo stato sociale e manovre economiche all’insegna dell’austerità) e di repressione dei nuovi movimenti sociali.
Di Mas è rimasta anzi celebre l’accusa lanciata al governo spagnolo di Rajoy di non essere abbastanza ligio nell’applicazione dei dettami della trojka. Venendo all’oggi, l’arringa di Puigdemont di fronte al Parlamento non si è conclusa con una richiesta al popolo catalano di resistere, o al governo spagnolo di trattare, ma, significativamente, con un appello ai grandi gruppi finanziari a continuare ad avere fiducia in lui.
FIN DALLA SUA nascita come movimento socio-culturale, inoltre, il pujolismo, nelle varie declinazioni politiche, si è sempre legittimato come il partito della modernizzazione europeista della Catalogna – la regione, altro pezzo forte della narrazione catalanista, più “europea” nel panorama di complessiva arretratezza dello Stato spagnolo.
Mas prima, e Puigdemont poi, hanno mostrato grande abilità tattica nel porsi alla testa della rinascita del movimento indipendentista dopo la bocciatura, da parte del tribunale costituzionale spagnolo, del nuovo statuto di autonomia. Questo ha permesso al catalanismo conservatore di uscire dall’angolo in cui si era cacciato dopo anni di austerità e corruzione. Ma cavalcando la tigre dell’indipendentismo, ha finito per cozzare contro i pilastri da cui il movimento storicamente aveva tratto forza, ossia l’europeismo e l’appoggio della grande borghesia.
MENTRE LE GRANDI entità finanziarie si sono affrettate, dopo l’1 ottobre, ad abbandonare Barcellona, la commissione europea faceva sapere che una Catalogna indipendente si sarebbe ritrovata fuori dall’Ue, un concetto ribadito anche dal duo Merkel/Macron.
La situazione politica catalana e spagnola pare più che mai aperta a scenari estremamente diversificati – da una progressiva normalizzazione, all’apertura di un processo costituzionale, alla ripresa dell’indipendentismo e successiva tragica reazione da parte del governo centrale. Ma il blocco sociale ed economico che ha puntellato negli ultimi decenni il governo della Generalitat si è espresso chiaramente in questi giorni, ed è difficile immaginare che il governo Puigdemont non ne venga influenzato.

il manifesto 17.10.17
Le onde gravitazionali aprono una nuova era di racconti galattici
Per la prima volta, con 70 telescopi, gli astronomi hanno osservato lo scontro tra stelle di neutroni
di Luca Tancredi Barone

Una nuova era, l’era della “cosmologia delle onde gravitazionali” è cominciata. L’ha detto ieri Laura Cadonati, la vice portavoce di Ligo, l’osservatorio di onde gravitazionali negli Stati Uniti che lavora in collaborazione con l’italo-francese Virgo, vicino a Pisa, nella conferenza stampa più attesa dalla comunità di fisici e astrofisici del mondo. Già, perché il 2017 è decisamente l’anno delle onde gravitazionali, che si erano già meritate qualche settimana fa il premio Nobel per la fisica (https://ilmanifesto.it/fisica-il-nobel-non-puo-sfuggire-alle-onde-gravitazionali/). E perché ormai anche la scienza dura è glamour, fa conferenze stampa in streaming mondiale, con ostentazione di fair play fra le diverse squadre di ricercatori e grande presenza di protagoniste femminili, e pubblica ben 7 articoli scientifici coordinati con migliaia di autori (https://www.ligo.caltech.edu/page/detection-companion-papers).Tutti accessibili liberamente già da ieri, evviva l’open science.
La notizia che è stata resa nota ieri, dopo che si erano rincorse per settimane voci su questo risultato strabiliante, è che per la prima volta la rilevazione di un’onda gravitazionale – è solo la quinta – è stata seguita da una serie di rilevazioni dello stesso oggetto celeste in tutte le lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico della luce.
Le onde gravitazionali hanno aperto cioè una nuova era dell’osservazione del cosmo. Paragonabile al salto che venne fatto quando dall’occhio nudo si passò a osservare il cielo con un telescopio, o oltre alla luce visibile si iniziò a osservare l’universo con gli occhiali delle frequenze invisibili, come l’infrarosso, i raggi gamma, o le onde radio. La storia inizia 130 milioni di anni fa, nella galassia NGC4993 nella costellazione di Idra, nell’emisfero nord. Due stelle di neutroni, cioè due stelle nelle ultime fasi della loro vita, orbitavano una intorno all’altra sempre più vorticosamente, fino a scontrarsi. Tanto per farsi un’idea, le stelle di neutroni sono gli oggetti più compatti che esistono, così compatte che sono appunto fatte di neutroni. In pochi chilometri di diametro possono racchiudere la massa del sole, e un cucchiaino della sua materia pesa più di dieci milioni di tonnellate.
Lo scontro fra due oggetti di questo tipo, secondo tutti i modelli messi a punto dagli astrofisici ma finora mai osservati direttamente, genera una quantità di energia enorme che a sua volta provoca una serie di effetti visibili a milioni di anni luce di distanza. Come in questo caso: le due stelle si scontrarono quando ancora i dinosauri passeggiavano sulla terra, e gli effetti di questo evento ci hanno raggiunto solo il 17 agosto scorso verso le 9 di mattina. Ma non solo: secondo quanto previsto da Einstein cento anni fa, un evento del genere provoca un arricciamento della curvatura dello spazio: un’onda gravitazionale, sufficientemente significativa da essere osservabile.
Ma solo oggi. Perché fino a pochi mesi fa, quando gli osservatori Ligo e Virgo hanno iniziato a lavorare assieme, non eravamo in grado di rilevare queste sfuggentissime onde con tanta precisione.
Grazie alla coordinazione fra i due strumenti, è stato possibile circoscrivere la zona di cielo dove doveva essere avvenuta l’esplosione. La difficoltà di questa impresa consiste nel fatto che una volta identificata la zona da osservare, trovare il proverbiale ago nel pagliaio è complicato. Bisogna infatti essere rapidissimi: il pagliaio – le galassie – è molto grande, e l’ago diventa sempre meno brillante, perché la luminosità dell’esplosione tende a scemare, in maniera progressiva nelle diverse lunghezze d’onda. Ma stavolta nelle ore e settimane seguenti una settantina di telescopi sparsi sulla terra e alcuni anche in orbita hanno cominciato a osservare intensamente l’area. E per la prima volta gli astronomi hanno osservato il puntino dell’esplosione cosmica a partire dall’avviso lanciato da un’onda gravitazionale, fino a poterlo ritrarre in tutte le fasi, dall’energia più alta (i raggi gamma) fino alle onde radio (la coda di energia che si mantiene più a lungo nel tempo).
In questo modo non solo sono riusciti a confermare i modelli su cui lavorano da anni per descrivere questo tipo di fenomeni esplosivi. Ma hanno anche osservato per la prima volta una “kilonova”, cioè un oggetto stellare, prodotto dello scontro delle stelle di neutroni, che produce gli elementi più pesanti del ferro (prodotto dall’esplosione di supernove): metalli come l’oro, il platino, l’uranio. L’osservazione della zona ha confermato che ce n’è circa il 5% della massa del sole. Un bel tesoro d’oro e altri metalli rari.
Grazie alle numerose osservazioni in tutte le frequenze, gli astronomi hanno potuto costruire un modello che le spiegasse coerentemente, compreso il fatto che in alcune bande di frequenza, l’intensità era inferiore al previsto: è che noi stiamo osservando il getto in modo obliquo.
Nanda Rea, dell’Istituto di scienza dello spazio del Csic (Consiglio nazionale delle ricerche spagnolo) e dell’Università di Amsterdam, nonché vincitrice della prestigiosa Medaglia Zeldovic dell’Accademia russa delle scienze per i suoi studi sulle stelle a neutroni è entusiasta. “Aspettavamo questo momento da molte settimane, per me è stato emozionantissimo”, spiega. “È la conferma che molti i modelli sulle stelle di neutroni funzionano bene. Non vedo l’ora che le onde gravitazionali ci aprano nuove strade e ci diano nuovi problemi da risolvere”.


La Stampa 17.10.17
Caporetto 1917 la madre di tutte le disfatte
Il 24 ottobre di 100 anni fa la sconfitta che mise in dubbio la sopravvivenza stessa dell’Italia unita evidenziandone tutti i vizi e le tare d’origine
di  Giovanni Sabbatucci

Nella memoria storica degli italiani la parola «Caporetto» (italianizzazione di Kobarid, un villaggio sloveno oggi così indicato nelle carte e nei cartelli stradali) rappresenta molto più del nome di una battaglia perduta in una guerra alla fine vinta, molto più di una sconfitta militare, per quanto severa. Se il toponimo si è trasformato in un nome comune con tanto di articolo («una Caporetto»), come è accaduto con altri termini evocativi di disastri bellici o catastrofi naturali («una Waterloo», «una Casamicciola»), questo significa che la dodicesima battaglia dell’Isonzo, cominciata il 24 ottobre 1917 e subito trasformatasi in una rotta disordinata, fu allora avvertita da molti - e soprattutto da chi aveva visto nella guerra una prova necessaria per il consolidamento dell’identità nazionale - come una disfatta irrimediabile, una minaccia alla stessa possibilità di sopravvivenza dell’ancor giovane Stato unitario, di cui venivano evidenziati vizi e tare d’origine.
Esercito alla sbando
Le dimensioni del disastro erano difficilmente contestabili. Lo schieramento italiano rotto sull’alto Isonzo, nei pressi appunto di Kobarid, e aggirato da un’audace e innovativa manovra degli austro-tedeschi. La sorpresa, il panico, le catene di comando saltate insieme al sistema di comunicazioni. Un’intera armata dissolta, la fuga e lo sbandamento di molte unità. Un terrificante bilancio di perdite: 10.000 kmq di territorio abbandonati, 40.000 fra morti e feriti, 300.000 prigionieri, un numero ancora maggiore di sbandati da recuperare e riequipaggiare, 600.000 profughi civili, quantità enormi di materiali perduti, compresa buona parte dell’artiglieria pesante. E su tutto il rischio che le forze armate non fossero più in grado di combattere, il timore che un collasso così grave potesse aprire la strada a un esito rivoluzionario alla maniera russa. Solo il 9 novembre il generale Cadorna riuscì a portare a compimento l’ultima e la più riuscita delle sue manovre: lo schieramento difensivo sulla linea del Piave di quanto restava dell’esercito italiano.
In una guerra ottocentesca una disfatta di tali proporzioni avrebbe con ogni probabilità costretto l’Italia a uscire dal conflitto: esito disastroso per un Paese che era entrato in guerra non per difendere i suoi confini ma per conquistarne di migliori. In questo caso, i timori si rivelarono eccessivi, anche perché poggiavano su una diagnosi fondamentalmente errata: quella che riconduceva il cedimento dei reparti investiti dall’offensiva a una sorta di collasso morale, ovvero alla scarsa combattività delle truppe, se non addirittura al tradimento di alcuni reparti «vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico» (così Cadorna nel famigerato bollettino del 27 ottobre).
Gli errori dei comandi
In realtà non ci fu alcun tradimento degli uomini in divisa, né una rottura subitanea nella fibra del Paese. Certo, la stanchezza si faceva sentire in quel terribile 1917 (quasi 150.000 perdite in agosto, nell’inutile conquista della Bainsizza). Ma a soffrirne non erano solo i soldati italiani, che avrebbero combattuto valorosamente le successive battaglie d’arresto sul Piave: quando furono schierati su un fronte più corto, trattati con maggiore umanità e mobilitati in vista di un obiettivo ben comprensibile come la difesa del territorio nazionale. Gli errori veri furono quelli dei comandi. E non parlo dei singoli errori tecnici (lo schieramento troppo offensivo voluto da Capello, la posizione avanzata delle artiglierie di Badoglio), su cui tanto si è scritto e discusso. Mi riferisco piuttosto a un atteggiamento di fondo, a una sorta di pigrizia mentale che portava le alte gerarchie militari a ripercorrere sempre le stesse strade, a cercar di adattare la realtà alle loro esperienze precedenti o alle teorie apprese nelle scuole di guerra.
I comandi italiani, ad esempio, ignorarono o sottovalutarono i molti segnali che indicavano l’offensiva di ottobre come imminente perché ritenevano impossibile un’azione importante in quella stagione e in quelle condizioni meteorologiche. La tattica dell’infiltrazione in profondità, poi, colse di sorpresa le truppe schierate sull’alto Isonzo perché contrastava con la teoria che imponeva agli attaccanti di conquistare le quote e proteggersi i fianchi prima di avanzare. Il contrario di quanto i tedeschi fecero sull’alto Isonzo nel 1917 e avrebbero ripetuto su più ampia scala, e con largo impiego di mezzi corazzati, nella battaglia di Francia del 1940. Nell’uno e nell’altro caso il risultato per gli avversari fu la disarticolazione dei comandi, la confusione delle iniziative, lo sbandamento delle truppe (effetto e non causa della rottura del fronte). Esattamente le condizioni per cui una «normale» sconfitta può trasformarsi in una Caporetto.

La Stampa 17.10.17
Cadorna, il più odiato dagli italiani
Dal nuovo libro di Alessandro Barbero: un ritratto del “generale di marmo”
di Alessandro Barbero

Comandante e autocrate dell’esercito era il capo di Stato Maggiore, il conte Luigi Cadorna, per lo più designato da giornalisti e subalterni semplicemente come «il Capo». Su di lui si sono dette così tante cose contraddittorie che oggi è difficile abbozzarne in poche righe un ritratto. Oggetto dell’entusiasmo di chi lo dipingeva come un grande soldato e un uomo indispensabile al Paese, divenne poi, dopo Caporetto, il simbolo di tutto quello che c’era stato di arcaico, di meccanico, di troppo autoritario, e perfino di crudele nella gestione dell’esercito.
I soldati lo avevano in poca simpatia e lo citavano in canzonette irriverenti («Il general Cadorna / ha detto alla regina: / se vuol veder Trieste / la guardi in cartolina»). Fra gli ufficiali in trincea aveva fama di iettatore: «Nominare Cadorna in un crocchio di camerati sollevava un coro di esclamazioni e produceva uno scompiglio di braccia e di mani che cercavano lo scongiuro in un pezzo di ferro o negli attributi maschili», attesta un ufficiale della brigata Alessandria, che sarà annientata a Caporetto. I politici lo amavano poco, per la sua insofferenza di ogni intromissione parlamentare e governativa, spinta a tal punto da farlo sospettare di tentazioni autoritarie. «Rare volte mi è capitato di trovare tanto odio accumulato su una sola persona», commentò un generale dopo la sua destituzione all’indomani di Caporetto.
Nel 1917 Cadorna aveva 67 anni. Suo padre Raffaele aveva comandato le truppe italiane alla presa di Roma, il 20 settembre 1870; suo figlio Raffaele comanderà dal luglio 1944 il Corpo Volontari della Libertà, prima di sedere alla Camera per tre legislature nelle file della Democrazia cristiana. Rigido cattolico, con due figlie monache, Cadorna serviva la monarchia risorgimentale dei Savoia senza pregiudizi, o cercando di non averne. Il 6 marzo 1917, dopo aver nominato il generale Capello al comando della Zona Gorizia, scriveva alla moglie: «Capello è giunto oggi e non sta nella pelle dalla gioia. È molto intelligente ed energico ed è subito entrato nelle mie idee... Al Capello ho dato Badoglio come desiderava. Così sono in pieno tre puntini! Almeno non diranno che ho delle prevenzioni!» - dove i tre puntini stavano ovviamente per il simbolo massonico. Nell’Italia dell’epoca, massoni e clericali erano schierati su fronti opposti, ma nell’esercito di Cadorna quei pregiudizi non dovevano trovare spazio.
Luigi Cadorna è stato criticato per la scarsa intuizione psicologica e l’indifferenza al morale della truppa, per la convinzione fors’anche ottusa che l’esercito dovesse obbedire e basta, e che per ottenere l’obbedienza bastasse la disciplina, col risultato che nell’esercito italiano si fucilavano gli uomini, talvolta anche senza processo, molto più facilmente di quanto non accadesse in tutti gli altri eserciti del fronte occidentale. Quest’immagine di ottusa ferocia gli è rimasta incollata fino ad oggi: di recente lo scrittore Ferdinando Camon ha iniziato una violenta campagna d’opinione perché sia cambiato il nome alle vie e piazze che in diverse città italiane sono dedicate a Cadorna. Ai contemporanei la durezza del Capo pareva meno urtante, anzi pochi la rilevavano. Un ufficiale che combatté a Caporetto rimase colpito dal contrasto fra il suo aspetto affabile e la verità dell’uomo: «Il generalissimo ha quello speciale sorriso buono che hanno sempre, come una maschera, gli uomini severi».
Del sorriso di Cadorna parla anche il colonnello Angelo Gatti, capo dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore: «Quando ride mostra la dentiera grossa, in disordine, pulita ma disuguale, come quella di un vecchio cavallo. Ha la testa fatta curiosamente: è grossa, con una grossa bozza rilevata sulla fronte; poi, nel mezzo della testa, depressa. È vivacissimo, parla volentieri: è sempre pieno di energie e di fede». Gatti non è un adulatore e scrive per sé, annotando che «il Capo è certamente molto sensibile alla lode o al biasimo», e che è attento a quello che scrivono i giornali. Parlando dei bollettini del Comando Supremo, il colonnello segnala che «il Capo ha una immaginazione vivace», e sebbene si affretti ad aggiungere che è una «dote, questa, principale di ogni grande condottiero», il contesto lascia in dubbio se si tratti proprio d’una qualità.
Dove Gatti esprime l’opinione forse più condivisa all’epoca, è nell’ammirazione per la fermezza di Cadorna, e nella convinzione che senza essere un genio sia però l’uomo giusto al posto giusto, anche perché nessun altro saprebbe starci - un giudizio, notiamolo, condiviso dal nemico, secondo cui Cadorna era «il più grande tra gli italiani». Quando si cerca di spiegare di che sostanza è fatto, i paragoni ricorrenti sono il granito e il marmo. «Il nostro Capo, non ostante che la sua opera militare possa discutersi, è certamente un monumento granitico, per quanto riguarda la saldissima costituzione morale». L’unico che potrebbe prendere il suo posto è proprio Capello, annota Gatti nel giugno 1917; «ma Capello, se pure vale intellettualmente Cadorna, e sotto certi aspetti militari (conoscenza degli uomini, ecc.) valga forse di più, non gli è certamente uguale nella “quadratura” generale. Capello [...] è del cemento armato: con questo si può fare tanta roba; Cadorna è del marmo: forse si può fare meno cose con esso, ma più nobili e grandi”.

La Stampa 17.10.17
Gli ebrei romani dopo la grande retata
del 16 ottobre ’43: una ricerca a più voci
di Mirella Serri

Quanti furono gli ebrei catturati il 16 ottobre 1943 dalla Gestapo nella Capitale? Quanti furono i cittadini di religione ebraica vittime di retate e quanti quelli che si mobilitarono nella resistenza armata? A rispondere a queste e a molte altre domande fino a oggi rimaste irrisolte arriva una ricerca a cura di Silvia Haia Antonucci e Claudio Procaccia, Dopo il 16 ottobre. Gli ebrei a Roma tra occupazione, resistenza, accoglienza e delazioni (1943-1944) (Viella, pp. 384, € 35).
Il libro, che accoglie tra gli altri gli interventi di Amedeo Osti Guerrazzi e Daniele Spizzichino, nasce da un’iniziativa della Fondazione Museo della Shoah con la Comunità ebraica di Roma e il suo Archivio storico. Con dovizia di dati, Osti Guerrazzi nel saggio dedicato a «Carnefici e vittime» ci offre inedite informazioni sugli ebrei, circa 800, che finirono preda dei rastrellamenti successivi al devastante 16 ottobre. La ricerca aggiunge anche altre scoperte: preti, suore e in generale i romani non furono insensibili al grido di dolore dei concittadini e circa l’85 per cento della popolazione ebraica dell’Urbe scampò alla morte. «Una percentuale impressionante se confrontata con quella di molte altre comunità europee», osservano i curatori. La solidarietà capitolina non ebbe confronti nel Vecchio Continente.

La Stampa 17.10.17
“Abbiamo visto la fabbrica di oro e platino dell’Universo”
Intercettate le onde gravitazionali dallo scontro di due stelle di neutroni È la prima volta e adesso si apre una nuova era nello studio del cosmo
Lo scontro delle stelle di neutroni: il rendering lo descrive in forma di onde gravitazionali e a destra nella radiazione luminosa
di Gabriele Beccaria

Dave Reitze infila la mano in tasca ed esibisce l’orologio del nonno, racchiuso in astuccio a cuore. D’oro: «Quell’oro si è formato miliardi di anni fa e ora è qui con me. Finalmente abbiamo la prova delle sue origini».
Reitze è un fisico, specialista di laser e ieri era con un gruppo di colleghi a Washington per raccontare in streaming una scoperta che farà epoca: l’osservazione dello scontro di due stelle di neutroni. Una catastrofe registrata - per la prima volta - sia afferrando un «fascio» di onde gravitazionali sia un lampo di luce. E in quella collisione si è trovata la conferma che in eventi di questo tipo si formano molti metalli che ci sono familiari, dal platino al piombo, fino all’oro che fodera gli orologi dei nonni.
Le stelle di neutroni sono stelle speciali. Un cucchiaino della loro materia è terrificante, perché pesa un miliardo di tonnellate. Se ne portassimo una intera sulla Terra - ha mostrato Reitze in un’immagine eloquente - basterebbe la baia di San Francisco ad accoglierla: è talmente superdensa da racchiudere in uno spazio così ristretto la massa del Sole. Due di questi fenomeni cosmici si sono fusi a 130 milioni di anni luce da noi, il che significa in un’epoca in cui sulla Terra apparivano le piante da fiore e i dinosauri erano vincenti. Mischiandosi una nell’altra, hanno emesso sia onde gravitazionali sia radiazione elettromagnetica. Le prime sono le increspature nel tessuto dello spazio-tempo prodotte dalla gravità e sono state intercettate l’anno scorso dallo scontro tra due buchi neri, mentre la seconda è un insieme di segnali di diverse lunghezze d’onda: oltre alla luce visibile, raggi X, ultravioletti, infrarossi e onde radio. Così di questo titanico incidente sono state raccolte tante informazioni diverse e complementari, tenendo a battesimo - si può dire senza retorica - una nuova era dell’astronomia, quella «multimessaggero», ha annunciato Reitze nella sala della National Science Foundation, l’agenzia federale che sostiene la ricerca in tanti campi, a eccezione della medicina (per quella ci pensano i National Institutes of Health).
«È come essere passati dal cinema muto al sonoro», ha dichiarato, mentre David Shoemaker aggiungeva che l’ulteriore sfida è analizzare una strabiliante quantità di dati. Lui è il portavoce di uno degli esperimenti che ha intercettato i segnali: «Ligo» si trova negli Usa e fa coppia con il gemello europeo, «Virgo», realizzato in Italia, vicino a Pisa. L’uno e l’altro hanno unito le forze con uno schieramento di osservatori senza precedenti: 70 telescopi a terra e altri nello spazio, compreso il famoso «Hubble». Così una rete mondiale - con in prima linea il team statunitense e quello italiano di Infn, Inaf e Asi - ha ottenuto un altissimo livello di precisione delle misure. Il risultato è che i fatidici 100 secondi - tanto è durato il «messaggio» delle due stelle, nell’impronunciabile galassia Ngc4993, in direzione della costellazione dell’Idra - sono stati una miniera di rivelazioni: è quindi arrivata anche la prova che la collisione genera i lampi di raggi gamma, famosi tra gli addetti ai lavori per essere le esplosioni più energetiche dell’Universo.
Ogni risposta, tuttavia, produce altri interrogativi. Il nuovo oggetto cosmico - la «kilonova» - ha caratteristiche enigmatiche, così come le sue emissioni. «Einstein, primo a predire le onde gravitazionali, ha passato il test» (per usare le parole dell’astrofisica della Nasa Julie McEnery), ma l’Universo ha appena cominciato a svelare i suoi segreti.

Repubblica 17.10.17
Nuova scoperta grazie alle onde gravitazionali
Quando due stelle si scontrano nel cielo nasce una miniera d’oro
di Giovanni Amelino-Camelia

MOLTI dei lettori che erano bambini o adolescenti quando arrivò a casa il primo televisore a colori ricorderanno quel momento in modo speciale. A casa mia arrivò pochi giorni prima dei mondiali d’Argentina e in quella fase il calcio aveva un ruolo centrale nei miei pensieri. Ieri gli astrofisici hanno vissuto un’emozione simile a quella che provai guardando il tecnico spacchettare quell’enorme televisore (26 pollici, se ricordo bene).
LE CONFERENZE stampa hanno descritto il primo evento astrofisico osservato sia tramite onde elettromagnetiche che tramite onde gravitazionali, un momento storico, un vero enorme ampliamento degli orizzonti del nostro sapere. L’analogia è piuttosto calzante perché vedere un fenomeno astrofisico sia in onde elettromagnetiche che in onde gravitazionali arricchisce la visione (e le opportunità di comprensione), un po’ come nel guardare lo stesso programma a colori o in bianco e nero.
L’osservazione degli astri è forse la più antica aspirazione umana non strettamente legata alla sopravvivenza. Ed è finora sempre stata vincolata alla sola risorsa delle onde elettromagnetiche. Sicuramente già l’uomo preistorico osservava curioso il cielo in onde elettromagnetiche di spettro visibile (le onde elettromagnetiche percepite dai nostri occhi, che chiamiamo “luce”). Nel telescopio di Galileo la misura veniva comunque effettuata dall’occhio umano, ma tramite delle lenti veniva potenziata enormemente la capacità osservativa. Quelli più moderni hanno sostituito l’occhio con altri strumenti di misura e osservano onde elettromagnetiche di frequenza anche molto più alta (o più bassa) di quelle nella piccola banda di frequenze a cui è sensibile la nostra vista. Ma siamo restati comunque confinati alla esclusiva osservazione di onde elettromagnetiche. Il cambiamento epocale già si era avviato negli scorsi 2 o 3 anni ed ha in realtà due lati ugualmente straordinari: i nostri interferometri per osservazione di onde gravitazionali hanno colto i loro primi successi (tanto da motivare il recente premio Nobel) e anche i nostri osservatori di neutrini hanno da poco osservato i primi neutrini di provenienza astrofisica. Però fino allo scorso 17 agosto, il giorno dell’osservazione protagonista delle conferenze stampa di ieri, non ci era riuscito di vedere lo stesso evento tramite più di un tipo di segnale.
Questo è per l’astrofisica lo sviluppo più importante dopo il telescopio di Galileo. E neppure la proverbiale segretezza dei fisici sperimentali ha retto. Da giorni si sapeva che l’evento era stato osservato nella galassia NGC 4993 e che si trattava della coalescenza di due stelle di neutroni, scontratesi dopo aver spiraleggiato una attorno all’altra in una spettacolare danza finale. Quando la voce della scoperta ha cominciato a diffondersi, è cominciata una vera e propria caccia ai riscontri oggettivi. Il più chiaro è stato scovato su un’area pubblicamente accessibile del piano di lavoro di Chandra, un telescopio ad onde elettromagnetiche, dal quale si evinceva che era stato improvvisamente ridirezionato verso NGC 4993 per seguire una segnalazione fatta dagli interferometri Ligo e Virgo.
Cosa ci faremo con questa “televisione a colori per l’astrofisica”? Già l’osservazione del 17 agosto ha fornito tantissime informazioni, tra cui la conferma dell’ipotesi che questi fenomeni di coalescenza di stelle di neutroni danno luogo alla formazione di elevati quantitativi di alcuni metalli pesanti. In particolare i dati ottenuti dai telescopi elettromagnetici portano a stimare una produzione di oro pari a circa 10 volte la massa della Terra. Un altro esempio di applicazione di questo nuovo tipo di osservazioni concerne la verifica della previsione einsteiniana che le onde gravitazionali hanno la stessa velocità delle onde elettromagnetiche, la velocità della luce. I tempi di osservazione dei due tipi d’onda differivano, per l’evento del 17 agosto, di circa 2 secondi e se i due tipi d’onda fossero stati emessi in esatta simultaneità questo pur piccolo ritardo metterebbe in crisi la relatività einsteiniana, ma è invece probabile che la differenza di tempi di osservazione sia semplicemente il risultato di una corrispondente differenza di tempi di emissione dei due segnali. Questo ed altri importanti fatti scientifici diverranno pian piano più chiari con l’accumularsi negli anni di sempre più osservazioni come questa del 17 agosto. E come sempre capita nei rari casi in cui davvero ci riesce di ampliare gli orizzonti del nostro sapere, questa nuova stagione dell’astrofisica sicuramente ci porterà, oltre ad alcune cose che ci aspettiamo, anche tante cose che nemmeno possiamo adesso immaginarci.
L’autore è fisico e insegna gravità quantistica alla Sapienza, Università di Roma

Repubblica 17.10.17
Le onde gravitazionali hanno guidato gli strumenti tradizionali: per la prima volta una collisione spaziale è stata vista e “ascoltata”
Tutto l’oro del cosmo
Metalli pregiati dallo scontro tra due stelle di neutroni
Lo spettacolo ha attivato 4.500 astronomi, più o meno un terzo di quelli viventi
di Elena Dusi

ROMA. Un’onda gravitazionale seguita da un lampo gamma, radiazione ottica e infrarossa, raggi X e onde radio, con uno sbuffo finale di polvere d’oro e platino scagliati nell’universo a un terzo della velocità della luce. «Sembravano fuochi d’artificio» strabuzza gli occhi ancora oggi David Shoemaker, coordinatore dell’antenna gravitazionale Ligo. In quello scontro fra due stelle di neutroni avvenuto a 130 milioni di anni luce nella costellazione dell’Idra si è formato l’equivalente di 10 Terre in oro, e un bottino più o meno equivalente in platino.
L’universo non aveva mai offerto uno spettacolo simile. O, meglio, noi non eravamo mai stati in grado di apprezzarlo come lo scorso 17 agosto, quando 70 telescopi sulla Terra e nello spazio si sono orientati su due stelle di neutroni grandi 1,2 e 1,6 volte il Sole, arrischiatesi troppo vicino l’una all’altra. L’attrazione reciproca le ha spinte in una danza vorticosa che, una spirale dopo l’altra, le ha prima smembrate e poi fatte scontrare. Lo spettacolo ha interrotto le vacanze di 4.500 astronomi, più o meno un terzo di quelli viventi. «Ero al campeggio. Ho preso il computer e mi sono subito collegato con i nostri telescopi in Cile» racconta ad esempio Paolo D’Avanzo dell’Istituto Nazionale d’Astrofisica (Inaf).
Ad aprire le danze sono state le tre antenne gravitazionali di Stati Uniti e Italia. Non paghe di aver vinto il Nobel per la fisica il 3 ottobre, Ligo (due strumenti alle estremità est e ovest degli Usa) e Virgo (uno strumento a Càscina, Pisa, realizzato dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) hanno captato all’unisono un’onda gravitazionale. Sembrava routine, ma questa volta lo spettacolo era solo all’inizio. A differenza delle onde osservate in precedenza (ben 4 in due anni), il 17 agosto a scuotere la trama dello spazio-tempo - come teorizzò Einstein - non era stato lo scontro di due buchi neri, fenomeno oscuro e impenetrabile agli occhi dei telescopi. Per settimane le stelle di neutroni hanno inondato la Terra con ogni tipo di radiazione. Circa 70 osservatori fra grandi e piccoli, vecchi e nuovi, terrestri e orbitanti hanno contribuito con un tassello all’analisi dello spettacolo pirotecnico. Le osservazioni della kilonova (la sua luce equivale a mille supernovae) sono proseguite per tutto settembre. E ieri, con una decina di conferenze stampa contemporanee, i 91 enti scientifici coinvolti hanno presentato la scoperta.
«Una giornata storica per la scienza» l’ha definita il presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana Roberto Battiston. Per la prima volta, come in una bottega da alchimista, l’universo ci ha mostrato come forgia oro, platino, uranio nelle sue fucine cosmiche. «L’ingrediente di partenza sono proprio i neutroni» spiega D’Avanzo. «L’energia dell’esplosione gli consente di combinarsi, formando i metalli più pesanti del ferro, che si raccolgono nelle nubi interstellari da cui nascono i pianeti». A catturare quell’oro non arriveremo mai, ma gli scienziati oggi si sentono come se l’avessero toccato con mano.

Repubblica 17.10.17
“L’allerta sul mio cellulare: ho chiesto aiuto a 70 telescopi”
Marica Branchesi fa da collegamento tra Ligo-Virgo e gli astronomi
L’esperimento dei sogni si è svolto proprio davanti ai nostri occhi, È stato tutto rapidissimo

L’AQUILA. Due figli, un nipote e cinque onde gravitazionali in due anni sarebbero estenuanti per tutti. «Ora vorrei fermarmi un po’». Marica Branchesi ha gli occhi tanto stanchi quanto il sorriso è radioso. Astronoma, a 40 anni è ricercatrice al Gssi, il Gran Sasso Science Institute, la scuola universitaria di studi avanzati dell’Aquila diretta da Eugenio Coccia. Quando il suo telefonino squilla, la Terra potrebbe essere stata appena investita da un’onda gravitazionale.
Qual è il suo ruolo?
«Lavoro per Ligo-Virgo. Sono una dei tre coordinatori dei “real time alert”. Quando gli strumenti registrano un segnale, io ricevo un messaggio via mail o cellulare. Devo immediatamente collegarmi alle antenne e controllare i dati di persona, con due colleghi. Cerchiamo di determinare la sorgente dell’onda e la comunichiamo ai 96 osservatori del mondo con cui abbiamo un accordo. È stato tutto rapidissimo. Nel giro di quattro ore tutti gli occhi e le orecchie della Terra si sono sintonizzate su quelle stelle. Era l’esperimento dei sogni, e si è svolto proprio davanti ai nostri occhi».
Ci racconta quel giorno?
Era il 17 agosto ed ero a casa dei miei a Urbino, dove sono nata. La notte precedente mia sorella aveva partorito e io ero rimasta con lei. Nel frattempo accudivo i miei bambini, che avevano otto mesi e due anni. Per fortuna mio marito Jan, anche lui ricercatore, non era in viaggio. Intorno alle due del pomeriggio – non ricordo nemmeno cosa stavo facendo, forse finivo di mangiare – è arrivato il messaggio sul cellulare. Ho chiamato i colleghi di turno alle antenne e ho sentito un “ooohh” che non terminava mai. È come se avessi percepito un tonfo sulla sedia, o forse l’ho immaginato. Era il segnale di un’onda, 99 secondi, un tempo infinito. La prima scoperta, quella dei due buchi neri, era durata un quinto di secondo».
A quel punto?
«Ci siamo messi a calcolare le coordinate della sorgente. Siamo stati fortunati, abbiamo ottenuto una regione del cielo ristretta, appena 30 gradi quadrati, in una regione del cielo ben mappata. Dopo appena quattro ore siamo riusciti a dare buone coordinate ai telescopi. In Cile era l’ora del crepuscolo. Le stelle di neutroni erano brillanti, anche specchi di meno di un metro le hanno viste. Per dieci giorni decine strumenti nell’emisfero australe hanno osservato tutti all’unisono quel punto dell’universo».
Cosa sono diventate adesso le due stelle?
«Probabilmente un buco nero. Ma potrebbero trasmetterci radiazioni per anni».
Avete festeggiato in famiglia?
«Ora abbiamo solo voglia di riposarci. Nell’ultimo periodo ho lavorato venti ore al giorno, non ce l’avrei fatta senza l’aiuto di mio marito. Anche lui è ricercatore nel campo delle onde gravitazionali».
Lei ha studiato a Bologna, ha lavorato al Caltech e all’università di Urbino, ora è al Gssi. Non le manca la voglia di viaggiare.
«Sono in viaggio un giorno su quattro, ma con cellulare e computer posso lavorare più o meno ovunque. Ora però abbiamo comprato casa a L’Aquila. Il Gssi è un posto ideale per fare ricerca ad altissimi livelli».
Non si può dire che i vostri bimbi non respirino cielo e stelle.
«Si dice che percepiscano le voci anche nel pancione. I miei hanno ascoltato talmente tanti discorsi su buchi neri e onde gravitazionali che faranno gli artisti, per reazione. A parte gli scherzi, quando abbiamo un po’ di tempo la sera ci piace guardare il cielo tutti insieme».
( e. d.)

Corriere 17.10.17
Rubbia: «Ora studieremo come si è formata la materia»
di Giovanni Caprara

Il Nobel per la Fisica: dalla filosofia alla realtà, cogliamo tutti gli aspetti dei grandi eventi cosmici
«Finalmente si può studiare come si è formata la materia». Il Nobel Carlo Rubbia è entusiasta della scoperta appena annunciata tra Usa ed Europa.
Professore, che cosa cambia grazie ai rilevamenti combinati di onde gravitazionali e onde elettromagnetiche?
«Ora questi fenomeni si vedono e si possono studiare anche nelle conseguenze e capire come hanno influenzato la chimica dell’Universo. Così infatti si sono formati gli elementi pesanti come l’oro e il piombo. E tutto questo lo possiamo misurare direttamente. Prima avevamo dei segnali parziali mentre adesso, come hanno dimostrato i satelliti e i numerosi telescopi a terra, si colgono tutti gli aspetti dei grandi eventi cosmici. Ogni giorno i satelliti registrano dei potentissimi lampi di radiazioni gamma di cui non si spiegava bene l’origine e anche questo ha trovato una spiegazione».
Non bastava la registrazione delle onde provocata dalla fusione di due buchi neri ?
«No, perché con i buchi neri non si vede nulla, non ci sono altre manifestazioni. Le quattro onde precedenti infatti hanno spiegato solo una parte di quello che succedeva. Invece con la fusione di due stelle a neutroni le cose cambiano perché si assiste alla generazione di altre onde, appunto di tipo elettromagnetico».
La ricerca è stata ardua e lunga ma alla fine...
«Alla fine siamo passati dalla filosofia alla realtà e abbiamo davanti una finestra universale. Abbiamo la conferma che il modello standard che spiega la natura è assolutamente valido, completando il quadro e spiegando bene tutte le forze fondamentali che la dominano».
L’Italia è protagonista di primo piano nella scoperta.
«Sì, facciamo parte di questa meravigliosa avventura scientifica, molto importante per i risultati conquistati. Costruire la stazione Virgo è stata una scelta determinante. C’è voluto coraggio ma lo sforzo ha pagato. Peccato che...».
Peccato che ?
«Che anche Virgo non abbia potuto raccogliere subito le prime onde e sia entrata in funzione un po’ dopo. Comunque i nostri ricercatori hanno collaborato fin dall’inizio all’elaborazione dei dati; quindi erano già sulla scena in modo pesante. Però se fossimo stati pronti, a Stoccolma sarebbe andato anche un nostro scienziato a ritirare il Premio Nobel per la Fisica appena assegnato a Barry Barish, Kip Thorne e Rainer Weiss. Ma non c’è da rammaricarsi. Adesso lavoriamo e raccogliamo assieme i segnali; anzi abbiamo aggiunto, grazie a Virgo, delle possibilità prima inesistenti».

Corriere 17.10.17
Lutero aiutò il papato
La Chiesa di Roma riuscì a rinnovarsi stimolata dalla sfida della riforma
di Paolo Mieli

A cinquecento anni dalla pubblicazione delle 95 tesi di Wittenberg contro le indulgenze papali, Adriano Prosperi ha ricordato, nella premessa al suo Lutero. Gli anni della fede e della libertà (Mondadori), la diffusissima convinzione dell’epoca che da quell’evento «cominciasse la nuova storia del mondo», un’idea che prese a circolare già allora, ispirando la prima grande opera storica sull’argomento, i Commentarii de statu religionis et reipublicae , scritti da Johann Sleidan a metà Cinquecento. Prosperi ricorda altresì che la «religione laica dei centenari» ebbe la propria origine un secolo dopo proprio con la «celebrazione luterana» del 1617, «indetta nella Germania dell’incipiente guerra dei Trent’anni». Ed è perciò naturale che, trascorso mezzo millennio dall’inizio della Riforma di Lutero, ci si interroghi sulla portata e sul senso che quell’evento, nonché il secolo e mezzo che ne seguì, ebbero sull’Europa. E qualcuno lo fa puntando i riflettori sulla parte per così dire conclusiva delle guerre di religione.
La guerra dei Trent’anni (1618-1648) fu per il nostro continente un’esperienza particolarmente traumatica. Addirittura sconvolgente, simile forse a quella percepita, tre secoli dopo, ai tempi della Prima e della Seconda guerra mondiale. Nel 1635, Hans Conrad Lang, un commerciante di stoffe di Costanza, raccontò come, a parer suo, quello a cui gli era dato di assistere fosse qualcosa che non si era mai visto «nella storia». Il 23 gennaio 1643, il predicatore inglese Jeremiah Whitaker dichiarò nel corso di un sermone essere i suoi tempi particolarmente «agitati» e notò come questa agitazione fosse «universale» dal momento che aveva coinvolto il Palatinato, la Boemia, la Germania, la Catalogna, il Portogallo, l’Irlanda oltreché l’Inghilterra. Un anno dopo il diplomatico svedese Johan Salvius osservava: «Sentiamo di rivolte del popolo contro i sovrani ovunque nel mondo». E si chiedeva se tutto ciò non dovesse essere spiegato «con qualche configurazione generale delle stelle in cielo». Il langravio d’Assia nella sua Storia metereologica scrisse che all’origine di quell’immane conflitto doveva esserci il «clima disordinato» provocato da qualche allineamento di pianeti. L’ecclesiastico gallese James Howell diede, per l’accaduto, una spiegazione in più: «Dio Onnipotente ce l’ha da qualche tempo con tutta l’umanità e si è fatto trascinare dal cattivo umore a travolgere tutta la terra… In questi ultimi anni infatti sono accadute le più strane rivoluzioni e, non solo in Europa ma in tutto il mondo, le cose più orrende successe all’umanità in un così breve arco di tempo, oserei dire dalla caduta di Adamo». E potremmo continuare a lungo con citazioni di personaggi di tutte le età e delle più varie estrazioni sociali che dissero o scrissero qualcosa di analogo in quegli anni. Quello a cui stavano assistendo era un cataclisma di proporzioni planetarie.
Gli storici — nota adesso Mark Greengrass in La cristianità in frantumi. Europa 1517-1648 che Laterza sta per mandare in libreria nell’eccellente traduzione di Michele Sampaolo — sono stati inclini a legare insieme queste ansie nonché le varie rivolte e disordini del periodo finale della guerra dei Trent’anni in una «crisi generale», la prima che veniva largamente percepita come «europea». Probabilmente « i contemporanei avevano ragione a interpretarla come una crisi globale». Quali i motivi? Ci sono certamente «prove per pensare che le turbolenze meteorologiche ebbero un impatto lacerante sulle civiltà insediate nel pianeta verso la metà del XVII secolo». È possibile, prosegue Greengrass, «persino probabile» che questo a sua volta abbia scombussolato «i modelli di commercio mondiale che si stavano profilando, che riguardavano (in particolare) i flussi di metalli preziosi verso l’Europa».
Le varie regioni economiche del mondo globalizzato erano «come stagni di differenti profondità collegati fra loro da canali». E questi canali «facilmente si seccavano o venivano bloccati dalla guerra e altri sconvolgimenti. Sicché Paesi i quali, per i loro mezzi di sussistenza, dipendevano dall’attività economica che si svolgeva fra una regione e l’altra, venivano «lasciati a lamentarsi» dell’impatto distruttivo provocato dal fallimento dei mercati e (in particolare) dalla impossibilità di vendere merci.
Tutte questo provocò un indebolimento della coesione sociale e culturale dell’Europa, crescenti divisioni fra il mondo urbano e quello rurale, una maggiore divergenza economica fra Nord e Sud, «per non parlare del sempre minore consenso intellettuale» alle classi dirigenti. E un’ansia diffusa. Le varie rivolte e sollevazioni della metà del Seicento ebbero alcuni elementi comuni. Si verificarono su scala regionale e nazionale, «il che indica che la natura del localismo d’Europa si era riconfigurata in qualcosa di più ampio, mobilitato da media e forze sociali che erano nuove». Esse furono altresì guidate perlopiù da personaggi conservatori, spinti a mantenere quelle che consideravano come «versioni vernacolari della legge, della tradizione e a volte della religione, contro forze che essi vedevano come aliene (lo Stato), empie o semplicemente poco attendibili». Tutto questo potrebbe indurci a ritenere che la storia di quello che venne dopo sia stato una risoluzione di quella crisi con la transizione a un mondo molto diverso da quello che era venuto prima. «Ma non fu così», afferma Greengrass. L’Europa «non cambiò fondamentalmente». Non ci fu un nuovo ordine internazionale. Eppure, nel secolo che seguì la Riforma protestante, era accaduto qualcosa di fondamentale. Cosa?
Nel primo millennio del cristianesimo occidentale, è la ricostruzione di Greengrass, «la cristianità si era sviluppata senza un’idea elaborata di dove si trovasse il suo centro e quindi dove fossero le sue periferie». Esisteva «una moltitudine di micro-cristianità legate insieme». Poi dopo il 1054, allorché il Papa di Roma e il Patriarca di Costantinopoli si scomunicarono reciprocamente, nella parte centrale del Medioevo e in conseguenza della rottura con l’Oriente, «la cristianità occidentale sviluppò un senso più articolato del centro e della periferia con il pieno emergere di due unità al contempo geografiche e ideologiche: il papato e il Sacro Romano Impero». Le loro rivendicazioni di autorità «furono forgiate, in concorrenza l’una con l’altra, da teologi, giuristi, teorici della politica e intellettuali in un’atmosfera di fiducioso universalismo». Questo ideale «fu favorito dalle trasformazioni economiche del periodo, con la straordinaria crescita dei mercati e del commercio interregionale e internazionale, e da matrimoni e alleanze diplomatiche dell’aristocrazia». «Cristianità» è il termine con cui «gli uomini dotti del XII e XIII secolo designarono il mondo dei cristiani latini dell’Europa occidentale».
La Chiesa cattolica romana era il «pilastro centrale» della comunità di fede del cristianesimo latino. Le sue élites intellettuali si erano formate intorno a una lingua internazionale (il latino, in contrapposizione con il greco) e con un percorso di studi (incentrato sulla filosofia e la logica di Aristotele) e indirizzo (la scolastica) comuni. Gli inviati papali condividevano con i consiglieri dei principi «uguali concezioni teocratiche e burocratiche circa l’origine del potere e il modo in cui doveva essere esercitato e legittimato». Le Crociate rappresentarono il progetto più ambizioso della cristianità occidentale. All’epoca il battesimo era considerato un «rito di iniziazione universale». Quelli che non erano cristiani battezzati (gli ebrei, i musulmani) «costituivano, nel Medioevo centrale, una presenza significativa ai margini della cristianità occidentale, tollerata proprio perché non erano parte della comunità di fede». Ma quando «i regni cristiani spinsero le frontiere del cristianesimo latino verso il Sud in Spagna e nell’Italia meridionale segnati dalla presenza araba, la loro rilevanza come rappresentanti di forze straniere non appartenenti alla cristianità sembrò aumentare».
La cristianità era, secondo il libro di Greengrass, una «costruzione ipersensibile» che si sentiva spesso minacciata. A dire il vero «i suoi nemici più pericolosi non erano i non cristiani». La sua gerarchia di potere era «vulnerabile soprattutto agli attacchi di una diversa e variegata categoria di persone»: coloro che «erano legati a particolari realtà locali, per le quali le aspirazioni universalistiche della cristianità significavano poco o niente».
Sparsi in tutta l’area dell’Europa occidentale, al di là e contro i meccanismi dell’ordine universale del Sacro Romano Impero (esteso in tutta l’Europa centrale, e il cui titolo segnalava la pretesa di essere in continuità con l’Impero romano e di dar vita ad una forma temporale di signoria universale) nonché della Chiesa, c’erano migliaia di villaggi e parrocchie i cui abitanti erano quasi sempre gravati dal peso di obblighi verso i loro signori feudali che li «rendevano servi». Queste comunità erano affiancate da città che avevano tratto grande beneficio dalle trasformazioni economiche del Medioevo centrale. E ciò non faceva che aumentare «i sospetti nei confronti delle ambizioni cosmopolite e la burocrazia dell’ordine internazionale».
Quanto più «il senso di centro e periferia all’interno della cristianità» andò accrescendosi, tanto più a livello locale le persone divennero «insofferenti» a causa del tempo che dovevano perdere per ottenere «i permessi dall’alto». Molti ce l’avevano con le tasse che dovevano pagare per sostenere la Chiesa universale e «non si fidavano granché del tanto strombazzato progetto sovranazionale delle Crociate». A partire dal XII secolo, questi sentimenti «cominciarono a straboccare in contestazione o in eresia (che costituì un grave problema epidemico) e in forma anche più minacciosa nella mente di quelli che più avevano a cuore gli ideali proposti dalla cristianità».
La fiducia in questi ideali fu ancora più intaccata dalla Peste Nera del Trecento e dalla crisi economica che ne seguì. La servitù e le prestazioni feudali divennero oggetto di contestazione allorché qua e là si levarono persone ad affermare che quanto esse rivendicavano non erano altro che «diritti di cui avevano goduto in passato». Fu qui che la credibilità della Chiesa a livello locale entrò in discussione. Lo scisma avignonese (1378-1417) fece il resto: «L’esistenza di due linee di Papi divise i cristiani fra quelli fedeli a Roma e quelli che sostenevano il Papa di Avignone, stigmatizzato dai suoi nemici come burattino nelle mani di una disgregante monarchia francese». Fu qui che la cristianità iniziò ad andare in frantumi e a poco a poco nacque l’Europa.
Ma cosa era la cristianità? Ci sono, risponde Greengrass «molti miti a proposito del Medioevo». La maggior parte di essi ebbe origine tra XVI e inizio XVII secolo, quando per la prima volta cominciò a profilarsi l’idea di un «Evo di mezzo». La cristianità non era fra questi miti. Anzi, al contrario, «essa era una mito creato dal Medioevo riguardo se stesso». L’idea di cristianità «descriveva il progetto (e il connesso apparato intellettuale e istituzionale) che univa il cristianesimo occidentale». Il periodo successivo alla Riforma protestante «conobbe la progressiva e infine totale disintegrazione di quel progetto, e del mito che gli stava dietro». Nel 1650, al termine di questo tragitto, la cristianità si ritrovò «ormai devastata ed estenuata, ridotta in pezzi». L’Europa, «che somiglia sempre di più a ciò che un tempo era stata la cristianità quale allora veniva concepita», non costituì più un progetto, ma «una semplice proiezione geografica, una mappa su cui potevano essere tracciate le sue divisioni, un modo per rappresentare la sua frammentazione politica, economica e sociale». E che cosa significò tutto questo per la Chiesa?
Secondo lo storico tedesco, Heinz Schilling, la Chiesa romana dovrebbe ringraziare Martin Lutero per due ragioni che Adriano Prosperi ha riassunto così: «Perché senza di lui non si sarebbe liberata dalla mondanità del papato rinascimentale, e poi perché fu grazie a lui che, in un mondo in rapido allontanamento dalle dimensioni e dalla cultura del Medioevo, la fede tornò in auge come nei secoli antichi».
Un concetto che si trova già, per le linee essenziali, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Niccolò Machiavelli, a parere del quale era stata la «rinnovazione», come ritorno ai fondamenti originari, che aveva mantenuto in vita quella religione che per gli italiani non esisteva nemmeno più per colpa dei «costumi rei» della corte papale. E che Prosperi fa suo concludendo il Lutero con queste parole: «Si può dire che la tesi di Schilling è abbastanza condivisibile: Roma può ringraziare Lutero, anzi lo sta già facendo». A dire il vero, Papa Francesco lo ha già fatto.

Repubblica 17.10.17
“Ho faccia tosta ma sono timido”: la comunicazione secondo il Papa
Esce il libro che raccoglie i suoi dialoghi con i giornalisti
Intervistatemi guardandomi negli occhi
di Francesco

Ho faccia tosta, ma sono anche timido. A Buenos Aires avevo un po’ timore dei giornalisti. Pensavo che avrebbero potuto mettermi in difficoltà e per questo non davo interviste. Ma un giorno mi sono lasciato convincere da Francesca Ambrogetti, pensando al bene che ne sarebbe potuto venire. Mi ha convinto e io mi sono fidato di lei. E quindi una volta al mese, alle nove del mattino, vedevo lei e Sergio Rubín, e alla fine uscì il libro-intervista “El Jesuita”. Ho sempre avuto timore delle cattive interpretazioni di ciò che dico. Di quella prima intervista da arcivescovo di Buenos Aires non mi piacque la copertina, ma rimasi molto contento di tutto il resto. La storia delle mie interviste da arcivescovo è cominciata così. In seguito ne ho date altre a Marcelo Figueroa e
Abraham Skorka. Sempre sulla fiducia nelle persone con le quali dialogavo.
Ero già Papa quando p. Antonio Spadaro venne a chiedermi un’intervista. La mia reazione istintiva fu di incertezza, come in passato, e gli dissi di no. Poi sentii che potevo avere fiducia, che dovevo fidarmi. E accettai. Con lui ho fatto due lunghe interviste che sono raccolte in questo volume. Spadaro è il direttore della Civiltà Cattolica, rivista da sempre strettamente legata ai papi. Lui è stato presente nelle interviste e nelle conversazioni di questo libro e si è fatto carico delle mie parole.
Dopo quella prima intervista nell’agosto del 2013 sono venute le altre, anche quelle che do in aereo nel ritorno dai viaggi apostolici. Anche là, in quei viaggi, mi piace guardare le persone negli occhi e rispondere alle domande con sincerità. So che devo essere prudente, e spero di esserlo. Prego sempre lo Spirito Santo prima di cominciare ad ascoltare le domande e di rispondere. E così come non devo perdere la prudenza, non devo perdere nemmeno la fiducia. So che questo può rendermi vulnerabile, ma è un rischio che voglio correre.
Le interviste per me hanno sempre un valore pastorale. Tutto quello che faccio ha valore pastorale, in un modo o in un altro. Se non avessi questa fiducia, non concederei interviste: per me è ben chiaro. È una maniera di comunicazione del mio ministero. E unisco queste conversazioni nelle interviste con la forma quotidiana delle omelie a Santa Marta, che è — diciamo così — la mia “parrocchia”. Ho bisogno di questa comunicazione con la gente. Là, quattro giorni a settimana, vengono a trovarmi venticinque persone di una parrocchia romana, insieme ad altre. Ho una vera e propria necessità di questa comunicazione diretta con la gente. Concedere un’intervista non è come salire in cattedra: significa incontrarsi con giornalisti che spesso ti fanno le domande della gente. Una cosa in cui mi ritrovo bene è anche parlare con piccole riviste e giornali popolari. Mi sento ancora più a mio agio. Infatti in quei casi ascolto davvero le domande e le preoccupazioni della gente comune. Cerco di rispondere in modo spontaneo, in una conversazione che voglio sia comprensibile, e non con formule rigide. Uso anche un linguaggio semplice, popolare. Per me le interviste sono un dialogo, non una lezione.
Per questo non mi preparo. A volte ricevo le domande in anticipo, ma quasi mai le leggo o ci penso sopra. Semplicemente non mi viene in mente niente. Altre volte, in aereo, immagino le domande che potrebbero farmi. Ma per rispondere ho bisogno di incontrare le persone e di guardarle negli occhi.
Sì, ho ancora paura di essere male interpretato. Ma, ripeto, voglio correre questo rischio pastorale. Questo mi succede anche in altri casi. A volte nei miei intervistatori ho notato — anche in chi si dice molto lontano dalla fede — grande intelligenza ed erudizione. E pure, in alcuni casi, la capacità di lasciarsi toccare dal “tocco” di Pascal. Questo mi commuove e lo apprezzo molto.[…] Desidero una Chiesa che sappia inserirsi nelle conversazioni degli uomini, che sappia dialogare. È la Chiesa di Emmaus, in cui il Signore “intervista” i discepoli che camminano scoraggiati. Per me l’intervista è parte di questa conversazione della Chiesa con gli uomini d’oggi.
Proprietà letteraria riservata © 2017 Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano © 2017 Rizzoli Libri S. p. A. / Rizzoli, Milano
IL LIBRO, L’INCONTRO Questo testo del Papa è tratto da Adesso fate le vostre domande ( Rizzoli pagg. 240, euro 19,50) scritto da Francesco con Antonio Spadaro. In libreria da dopodomani.
Verrà presentato il 21 ottobre alle 18 a Roma presso La Civiltà Cattolica ( via di Porta Pinciana 1) Con Antonio Spadaro ci saranno Piero Badaloni e Ferruccio de Bortol