Repubblica 13.10.17
La stanca democrazia
di Michele Ainis
LE
LEGGI elettorali sono come i matrimoni: per scoprire chi hai sposato,
devi dormirci ogni notte sotto le stesse lenzuola. E il Rosatellum, è
davvero un buon partito? O il quadripartito che l’appoggia finirà per
lasciarci a mal partito? Lo sapremo presto, ce ne accorgeremo alle
prossime elezioni, ammesso che questo sposalizio verrà celebrato anche
in Senato, dopo il sì pronunziato a denti stretti dalla Camera. Ma il
passo d’oca con cui la giovin creatura incede verso l’altare non può che
promettere notti turbolente. Proteste in piazza, schiamazzi nell’aula
di Montecitorio, scontri arroventati nel Paese: se ogni legge elettorale
apre una nuova stagione della democrazia, stavolta è inverno, non certo
primavera.
Ecco, c’è un vizio di metodo, prima ancora che di
merito, in questa vicenda normativa. C’è un esercizio muscolare, c’è un
sopruso degli uni verso gli altri — e siamo noi, gli altri. Perché
quando viene confiscata la libertà del Parlamento ne soffre la libertà
di tutti i cittadini. E perché le forzature nel metodo si riflettono sul
merito, sui contenuti della nuova disciplina elettorale, impedendo di
correggerne quantomeno le storture più vistose.
Il voto
disgiunto, per esempio, che il Rosatellum nega agli elettori. O le
pluricandidature, che suonano come un pluringanno. Ma l’inganno è già
nella parola con cui è stato sottomesso il Parlamento: fiducia. «Sta’
attento a chi darai fiducia due volte», diceva García Márquez. Il
governo Gentiloni l’ha chiesta per tre volte. E allora questa parolina
gentile diventa minacciosa, in un gioco di specchi deformanti in cui
nulla è più come ci appare. Anzi: gli specchi sono sette, come le code
del diavolo.
Primo: di regola, la questione di fiducia viene posta
dall’esecutivo su un provvedimento che esso stesso reputa centrale per
sviluppare le proprie linee programmatiche. Tuttavia il Rosatellum muove
da un’iniziativa parlamentare, non governativa. E oltretutto
l’esecutivo in carica, presentando il suo programma, aveva promesso di
tenersi fuori dalla riforma elettorale.
Secondo: la fiducia è un
espediente tecnico teso a superare l’ostruzionismo delle opposizioni.
Qui invece a far paura erano i mal di pancia della maggioranza, non
delle minoranze.
Terzo: lo schieramento che sostiene il Rosatellum
può incontrare qualche problema di numeri a palazzo Madama, però a
Montecitorio contava su oltre il 70% dei deputati, grazie al premio di
maggioranza del Porcellum, che ha ingrassato le fila del Pd. Perciò —
secondo logica — la questione di fiducia andava posta casomai al Senato,
non alla Camera. Ma logica e politica non vanno d’accordo; non a caso
Aristotele ne trattò in due opere distinte.
Quarto: la maggioranza
che sostiene il Rosatellum è ben più larga della maggioranza
governativa. Comprende infatti Lega e Forza Italia, i cui parlamentari
sono dovuti uscire dall’aula, per appoggiare il governo senza votare a
favore del governo. Equilibrismi che riesumano i fasti del 1976, quando
il gabinetto Andreotti III si reggeva su un ampio fronte d’astensioni.
Dunque la legge elettorale che dovrebbe trasportarci nel futuro ci fa
rimbalzare nel passato, ai governi della “non sfiducia”.
Quinto:
il voto di fiducia dovrebbe costituire un’eccezione, un’extrema ratio.
Invece il governo Gentiloni ne ha già chiesti 22, con la media d’un paio
al mese. E in questa legislatura siamo a quota 98, superando le 96
fiducie della legislatura scorsa. Evidentemente la fiducia dei politici è
un sentimento nevrotico e insaziabile, che si nutre di se stesso.
Difatti è in vista l’ultima reincarnazione: dopo la fiducia di destra
(il Rosatellum), quella di sinistra (sullo Ius soli).
Sesto: ogni
questione di fiducia reca un altolà: o tu (Parlamento) fai ciò che ti
chiedo, oppure io (governo) mi dimetto. Ma Gentiloni si dimetterà
comunque a breve, perché siamo all’ultima curva della legislatura. Più
che una minaccia, si direbbe una promessa.
Settimo: il presidente
del Consiglio. Era il più popolare fra i politici italiani, e anche il
più stimato. Ma da quando ha messo la fiducia su questa brutta legge
elettorale, si è imbruttito pure lui. Da qui l’ultima contraddizione:
Gentiloni ha incassato la fiducia, ma ne ha guadagnato un moto di
sfiducia. D’altronde anche noi ci sentiamo sfiduciati e un po’ depressi,
senza ottimismo, senza nemmeno troppa voglia di sperimentare nell’urna
la nuova legge elettorale. Giacché in primavera verremo chiamati, a
nostra volta, a un voto di fiducia: sul sistema dei partiti, sulla
democrazia italiana per come si va configurando. Una democrazia che
s’affida alla fiducia perché non ha più uomini fidati.