mercoledì 11 ottobre 2017

Repubblica 11.10.17
Gentiloni trascinato in una mischia che contiene più pericoli che vantaggi
L’immagine del premier rischia di essere indebolita ed esiste una differenza di vedute tra Mattarella e Napolitano
di Stefano Folli

Non è un atto eversivo, in ultima analisi, ma potrebbe essere uno sbaglio dalle conseguenze insondabili. Accettando su pressione del Pd, cioè di Renzi, di porre la fiducia sulla legge elettorale, il governo Gentiloni risolve forse un problema immediato - mandare in porto la riforma con le buone o con le cattive - ma si espone a un turbine di polemiche in Parlamento e fuori che non si sa quando finiranno. Il clima è già avvelenato a Montecitorio e lo sarà ancor più al Senato.
Come disse Fouché, il ministro di polizia di Napoleone, a proposito della fucilazione del duca di Enghien, «è peggio di un crimine, è un errore». In questo caso non è stato fucilato nessuno, ma la forzatura è sotto gli occhi di tutti. I protagonisti di un sistema politico che non ha saputo venire a capo della legge elettorale, nonostante i solleciti del Quirinale, pensano di risolvere la questione negli ultimi mesi della legislatura strozzando il dibattito parlamentare. È una prova di debolezza che tradisce le paure di una maggioranza fragile. Talmente fragile da non rendersi conto che la vittoria di Pirro di oggi può tradursi domani, nelle urne e nel prossimo Parlamento, in una nuova paralisi o in ulteriori lacerazioni. E non è di conforto pensare che stavolta insieme al Pd ci sono anche Forza Italia e Lega, in una singolare unità d’intenti che sembra quasi anticipare le convergenze a venire.
C’è una vittima in tutto questo ed è il presidente del Consiglio. Gentiloni aveva curato con successo in questi mesi l’immagine di un uomo non proprio al di sopra delle parti, ma certo più vicino alle istituzioni che alle manovre partitiche. Ora il voto di fiducia di cui ha dovuto farsi carico lo risucchia nella mischia. Il che significa che la stessa legge di stabilità potrebbe risentire del nervosismo generale. Come è noto, il premier aveva annunciato in modo esplicito, nelle dichiarazioni programmatiche con cui si presentò alle Camere, che il governo avrebbe «assecondato » il lavoro del Parlamento sulla legge elettorale, ma non si sarebbe ritagliato «un ruolo da protagonista».
Frasi impegnative, del tutto consone al carattere dell’uomo. C’era il precedente dell’Italicum, approvato con voto di fiducia dal centrosinistra (allora senza l’apporto di Berlusconi e Salvini) e poi dichiarato incostituzionale dalla Consulta: sembrò a molti che si volesse isolare quell’episodio, promettendo che non ci sarebbe stato il bis. Le ragioni sono comprensibili, considerando la delicatezza della materia elettorale. Viceversa, dieci mesi dopo, la scena si ripropone. Mesi, infruttuosi, certo, in un Parlamento che comunque vada concluderà la legislatura in modo poco glorioso. E poi c’è il rischio che s’intravede dietro il fallimento della riforma: dover procedere ad armonizzare il modello elettorale di Camera e Senato attraverso un decreto del governo. Un passo di per sé controverso che non elimina le trappole parlamentari, in quanto il decreto va convertito nei sessanta giorni.
Sarebbe un problema nel problema. Questo spiega il favore discreto con cui il Quirinale sembra guardare al voto di fiducia. Del resto, l’ipotesi che la prossima legislatura si avviti nell’ingovernabilità non può non preoccupare il capo dello Stato. Non tutto si può risolvere con la formula magica dei “governi del presidente”, esecutivi tecnici che vanno a cercarsi la sopravvivenza giorno per giorno. Oggi vengono evocati con qualche leggerezza, ma la realtà è più complicata. Anche per questo, il frettoloso voto di fiducia sul “Rosatellum” ha l’aria di un passo falso del governo pressato dal Pd. Non a caso il presidente emerito Napolitano è intervenuto per suggerire di emendare la legge nei punti suscettibili d’esser male interpretati. Invece la fiducia ingessa tutto. Non riuscendo a sbrogliare la matassa, la si taglia con un colpo di spada. È evidente che fra i due presidenti, Mattarella e Napolitano, esiste una differenza di vedute (e naturalmente di responsabilità verso le istituzioni). Ma il punto è soprattutto politico. Come dice Pisicchio, parlamentare esperto, presidente del gruppo Misto: «Il sistema italiano ormai ha tre gambe, compreso il M5S: ha poco senso volerle ridurre a due con la tecnica elettorale». Anche perché il sistema non è abbastanza credibile per tentare un azzardo temerario.