domenica 8 ottobre 2017

pagina 99 6.10.2017
Popolo contro élite l’inganno dei nazionalisti
Visegrad/2 | Le diseguaglianze tra città e campagna, e la mancata integrazione con l’Ovest hanno alimentato la retorica contro Ue e migranti. Oltre alle derive autoritarie
di Matteo Tacconi

«Faremo come il Giappone», promise Lech Walesa, il fondatore di Solidarnosc, poco dopo la legalizzazione del sindacato-partito. Fine agosto 1980. Grande euforia, grandi aspettative di cambiamento. E il sogno, appunto, di far proprio l’esempio giapponese: trasformare un Paese autoritario in una democrazia capitalista occidentale di successo. Solidarnosc non durò molto. Nel dicembre 1981 la legge marziale pose fine a quel carnevale delle libertà. Eppure l’idea che la Polonia avrebbe prima o poi trovato la sua via alla democrazia e alla prosperità si fissò nella testa di tutti. Così nel 1989, al momento della transizione negoziata che chiuse l’epoca comunista, quella voglia di Giappone riaffiorò. In quegli stessi mesi un’altra transizione patteggiata, quella ungherese, alimentò speranze. L’Austria era ricca, e vicina. Il modello poteva essere quello. Non è andata esattamente così. 
• La grande illusione 
«Con la caduta del regime credevamo che saremmo entrati a far parte di un mondo più benestante, oltre che libero, ovviamente. Abbiamo avuto grandi progressi, ma non siamo come l’Austria. Io sono tra chi ce l’ha fatta. Ero un dissidente che andava in giro con la Trabant, e ho avuto una carriera giornalistica di livello. Ma c’è un sacco di gente che non ha più ritrovato ciò che perse nel 1989», sostiene Janos Betlen, per molti anni volto noto della tv pubblica ungherese. «A questo», continua Betlen, «va aggiunto che dopo il nostro ingresso, nel 2004, l’Europa è entrata in crisi a livello economico e sul piano del percorso integrazionista. Fondamentalmente, c’è una certa delusione». Ed è questo il cuore della faccenda. Per capire l’Europa Centrale odierna, attraversata da uno spirito di ribellione verso l’ordine liberale e una certa idea d’Europa da esso informata, bisogna partire proprio dal sovraccarico di ottimismo del 1989 e del 2004. «I Paesi dell’area Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) hanno smesso di credere che si arriverà alla coesione economica con l’Europa pre-allargamento. Finora questa narrativa aveva reso accettabili i costi della trasformazione socio-economica, dalla quale non tutti hanno tratto beneficio, nonostante gli ovvi successi dei nostri Paesi», spiega Wojciech Przybylski, direttore della rivista Visegrad Insight e presidente di Res Publica Nowa, fondazione culturale di Varsavia. 
• Sogni infranti e globalizzazione 
Le disuguaglianze create dalla transizione e il processo troppo lento di convergenza con l’Europa occidentale hanno acceso un sentimento anti-elitario. Da un lato si è alimentato con il conflitto storico tra ceti urbani e rurali presente in questi Paesi: gli illuminati e i villani, l’intellighenzia e il popolo. Dall’altro, si è agganciato alle tendenze globali di rivolta contro la globalizzazione e il tipo di società e mercato che hanno avuto il sopravvento in questi anni. «I governi della regione non fanno che cavalcare questa insoddisfazione», afferma Przybylski. Quello polacco in modo particolarmente spericolato. Molte delle sue riforme, orientate a rafforzarne il controllo su organi e agenzie dello Stato, hanno allarmato la Commissione europea. Quelle sulla giustizia hanno persino aperto un contenzioso. Bruxelles, sulla base dei poteri che i trattati le conferiscono, chiede un passo indietro per evitare che lo stato di diritto venga disarticolato. Varsavia non vuole saperne. Sui migranti s’è aperta un’altra crepa. La Polonia ha denunciato il piano europeo di ricollocamento, obbligatorio. La Commissione minaccia sanzioni su entrambi i fronti, ma in mancanza di un consenso chiaro tra gli Stati membri si ritrova senza forza coercitiva. «Il governo sfrutta questo vacuum abusando dei suoi poteri e rimodellando il sistema politico in modo primitivo, secondo i suoi bisogni di controllo e profitto», ragiona Przybylski. La Polonia di Jaroslaw Kaczynski – è lui il dominus del Paese, anche se non ha cariche pubbliche – agisce in nome della sovranità, valore supremo minacciato dalla centrifuga europea e cosmopolita. Il tutto si traduce con la corazza indossata per ripararsi dalle presunte ingerenze di Bruxelles, con il riequilibrio del rapporto tra capitali locali e stranieri, finora favorevole ai secondi, e con il no assoluto ai migranti, che è la variabile biologica di questa sovranità. Molte di queste idee sono mutuate dal primo ministro ungherese Viktor Orban, al governo dal 2010. 
• La rivoluzione culturale di Orban 
In questi anni ha accentrato i poteri e rimosso filtri. Ma a differenza di Kaczynsky ha cercato il più delle volte di non oltrepassare la linea rossa.«InUngheria l’ideologia è una copertura, una giustificazione. Orban è pragmatico, sa ritirarsi quando opportuno». Ha ritoccato per esempio le riforme in materia di giustizia, quando l’Europa ha espresso dubbi in merito. Eppure, a forza di parlarne, lui e i suoi più stretti alleati ormai ci credono, a questa “rivoluzione culturale” contro questaEuropa. «Del resto non puoi vivere senza credere a ciò che dici», spiega Betlen. L’Europa Centrale non è un blocco uniforme. Perciò le risposte variano, e non per forza il loro sapore è autoritario. In Slovacchia e Repubblica Ceca c’è più misuratezza. Tomas Bella, capo della redazione online di Dennik N, quotidiano di Bratislava, segnala che il premier slovacco Robert Fico, «critica a volte Bruxelles, ma alla fine si adegua sempre. E siamo il solo Paese dell’area Visegrad a essersi munito dell’euro. Inoltre, l’attitudine della popolazione verso l’Europa è positiva». Ma è così in tutto il resto della regione, anche se la convinzione può essere meno profonda, come spesso capita nel caso ceco. Quasi nessuno, men che meno Orban e Kaczynski, mette in dubbio che l’appartenenza all’Europa sia un fatto irrinunciabile. Poteva andar meglio, ma ci sono stati comunque dei risultati. La partita che sotto traccia si affronta, allora, è di resistenza al destino federale dell’Ue, tra l’altro niente affatto scontato. Il rischio tuttavia è che esagerando con la spregiudicatezza si dimentichino le regole del gioco, andando incontro a guai seri. Quanto alla resistenza ai migranti, in Paesi che sono dal punto di vista culturale molto compatti e sin qui hanno subito la trasformazione delle loro strutture socio-economiche, più che governarla, Janos Betlen sostiene che «questo è uno dei temi su cui la gente sente di poter ancora scegliere, anche se l’Europa occidentale pensa che sia solo egoismo e ignoranza». Di contro, quella Centrale pensa che la questione dei migranti sia solo l’ennesima imposizione dell’Europa di prima fascia su quella di seconda. A quasi trent’anni dal crollo del Muro di Berlino e a 13 dall’allargamento ci si fatica ancora a comprendere.