pagina 99 6.10.2017
Il giornalismo culturale non sa parlare in rete
Linguaggi | L’online senza limiti di lunghezza solletica il narcisismo degli autori ma non amplia il pubblico. L’interattività abbassa la qualità dei commenti
di Piero Dorfles*
«Mi affascina l’idea dell’artista di intrecciare un dialogo con due opere del Museo di Firenze attraverso un video dell’artista Bill Viola capace di assecondare il Suo intuito di artista alla ricerca dell’umanità- in questo “macchinismo infernale” del nostro Tempo». Questo commento a una mostra è un esempio abbastanza tipico dell’interattività sui temi culturali in rete. Tralasciamo osservazioni sull’uso delle maiuscole e sul problema se noi si viva in un tempo di macchinismo infernale o no. Quello che val la pena notare è che, di fronte a un sito che annuncia l’apertura di un’esposizione di un certo interesse, ci sia qualcuno che vuole comunicare alla collettività di essere affascinato da «un artista alla ricerca dell’umanità». Un esempio di intervento su fatti culturali come libri, mostre, concerti e manifestazioni varie, che a me pare suggerisca alcune riflessioni. Ogni mezzo di comunicazione, alla sua nascita, deve utilizzare i modelli di comunicazione che lo precedono. È successo al cinema, che ai suoi inizi usava strutture narrative teatrali; alla tv, che ai suoi esordi trasmetteva quello che prima si trovava sui giornali, nei teatri e nei cinema; è successo alla rete, che agli inizi ha raccolto testi e immagini nello stesso modo in cui lo facevano i mezzi preesistenti. Nel tempo, ogni medium sviluppa una sua struttura comunicativa specifica. Dopo anni in cui la tv ha trasmesso opere teatrali, i documentari programmati nel cinema e telegiornali ricalcati sui filmLuce, lo specifico televisivo ha praticamente cancellato il modello imitativo e ha messo in funzione soluzioni narrative prima ignorate: il talk show, il reality, la fiction ecc. Non c’è dubbio che questa sia la televisione, e che quella degli inizi fosse soltanto un uso primitivo di un mezzo con altre potenzialità espressive. Qual è lo sviluppo delle potenzialità comunicative della rete che trascende l’imitazione dell’esistente? E in particolare, come si sovrappone e fino a che punto espande la comunicazione culturale preesistente? Gli elementi tecnici di novità sono evidenti: la tempestività, la gratuità, la mancanza di intermediazioni. Sul modello comunicativo, individuare le novità è più complesso. Uno degli elementi principali dei siti culturali, rispetto a ogni altro mezzo, è quello di non avere problemi di spazio. Testate come Nazione Indiana, Doppio zero o Minima&moralia, per citare le più note, hanno interventi di alto livello, firmati da intellettuali noti, che non hanno nulla di invidiare alle più importanti riviste stampate. Ma di una lunghezza che di solito si trova sì e no su un mensile. Niente di grave; ma la sensazione è che la mancanza del rigore che un giornale impone ai suoi collaboratori in termini di dimensioni degli articoli solletichi un certo narcisismo degli scriventi, che si sentono finalmente autorizzati a scrivere al di là di ogni logica di mercato. Un bene? Certo, non essere vincolati alle vendite, all’audience, agli interessi di un editore è un vantaggio. Ma ho qualche dubbio che sia il modo migliore per allargare la platea dei fruitori degli eventi culturali in Italia. L’altro elemento di rottura rispetto ai media tradizionali è l’interattività. Se ci fermiamo all’esempio fatto all’inizio, però, dobbiamo ammettere che la forma di interattività che apre la comunicazione culturale 2.0 non va molto oltre quello che sono le lettere ai giornali. O meglio, poiché non c’è il filtro che i giornali mettono agli interventi dei lettori, in rete si trova di tutto. Il risultato però è che la qualità degli interventi tende a calare, se non altro per la quantità di interlocutori ai quali la rete può dar voce e al fatto che, senza un confronto, ognuno tende a incistarsi nella propria prospettiva e nei propri interessi. E questo non fa aumentare il livello del dibattito. Anzi. Se guardiamo, per continuare con esempi non entusiasmanti, il dibattito del gruppo che su Anobii si occupa di Coelho e l’alchimia (166 iscritti), c’è da rimanere sbalorditi di fronte al fatto che nel 21esimo secolo ci sia ancora tanta gente che si occupa di funzioni alchemiche. Se andiamo a leggere le recensioni dei lettori comuni sui classici, si può scoprire che il pubblico aborrisce Conrad perché «non arriva al cuore del lettore»; e risparmio cosa si può trovare su Proust per carità letteraria. Il modello comunicativo non è diverso sui social, o nelle community, con le caratteristiche tipiche di un punto di incontro libero e senza intermediazioni. Non vado oltre. Mi resta soltanto da chiedermi se l’informazione e il dibattito culturale che sopravvivono sui media tradizionali hanno di meglio da dare. Mi sbaglierò, ma lì l’intermediazione e, diciamolo senza rabbrividire, la vendibilità del prodotto, impongono misura, autorevolezza e funzionalità che in rete hanno soltanto i siti ufficiali di mostre, musei e riviste. Questo vale anche per i pochi spazi culturali nella televisione generalista, vale certo per i canali dedicati, vale per la radio, e vale per i supplementi culturali che, al di là di ogni valutazione, rappresentano l’unico servizio pubblico di informazione che fornisce note autorevoli su libri, mostre, cinema, teatro, musica e beni culturali in genere. Difficile trarre conclusioni. Ma vien fatto di pensare che il giornalismo culturale e l’informazione sui fatti della cultura non abbia ancora trovato il modo per esprimersi al meglio in rete. E che, almeno per questo comparto informativo, la rete non abbia, semplicemente, trovato ancora il suo linguaggio specifico.
*Questo testo è un’anticipazione dell’intervento di Piero Dorfles che si terrà sabato 14 ottobre al Teatro della Fortuna di Fano nell’ambito del Festival del Giornalismo Culturale di Urbino, Pesaro e Fano (12-15 ottobre).