pagina 99 13.10.2017
Orléans vende sogni non solide realtà
Architettura
| La prima edizione della Biennale transalpina rifiuta gli slogan
engagés o la tradizionale presentazione dell’edificio e costruisce una
raffinata narrazione per immagini. Per far emergere la fertilità del
pensiero immaginifico e creativo all’origine del processo di costruzione
di Lucia Tozzi
Stando
alle regole che vengono imposte oggi ai curatori di biennali dalle
istituzioni che le finanziano, questa di Orléans (inaugurata il 12
ottobre e visitabile fino al 1 aprile 2018) non dovrebbe neppure
rientrare nella categoria. Con una scelta di nomi totalmente estranea
alla logica dello star system –niente Piano, Foster, BIG, Koolhaas o
Nouvel – e una ricerca raffinatissima irriducibile ai soliti slogan da
bassa propaganda, Camminare nel sogno di un altro si presenta come un
miraggio nel panorama degli eventi internazionali. Intendiamoci, non è
che i curatori Abdelkader Damani (direttore del Frac Centre-Val de
Loire) e Luca Galofaro abbiano invitato solo giovanissimi o ignoti: ci
sono Gian Piero Frassinelli, oggi più che mai celebre a causa
dell’inesorabile revival della stagione radical italiana e in
particolare di Superstudio, c’è Juan Navarro Baldeweg, e poi Tatiana
Bilbao, Bernard Khoury, gli Ensamble, Didier Fiuza Faustino, Aristide
Antonas, Aleksander Brodsky, Beniamino Servino e molti altri che pure
girano, sono amati, idolatrati a volte. Ma ognuna di queste presenze ha
un ruolo preciso in questa mostra, costruita intorno ad alcuni specifici
campi di tensione, in primis quello tra arte e architettura, legato
anche alle collezioni del Frac e alle passate edizioni dell’Archilab
Festival. Qui le loro opere non sono macchie di colore comprimarie alla
solida materialità della grande architettura, quella muscolare, esposta
come una sequenza di maquette. I protagonisti questa volta sono loro,
riuniti non da omogeneità tematica o da affinità politica, ma dalla
capacità di reagire alle situazioni del mondo con un pensiero
immaginifico. «Abbiamo guardato agli architetti interessati alla
costruzione di un pensiero che non sempre coincide con la costruzione di
edifici», ha dichiarato Galofaro in una recente intervista su Artslife a
cura di Niccolò Lucarelli. «Questa è una biennale di collezioni che
rifiuta di presentare l’architettura in un modo tradizionale, attraverso
oggetti finiti, gli edifici. Vogliamo raccontare l’inizio del processo
di costruzione e non la fine di questo processo. L’architettura per noi
si costruisce attraverso l’incontro di immaginazioni diverse, prende
forma lentamente».
• Tra l’esodo e il sogno
Le migrazioni e
i processi partecipativi sono due sottotesti fondamentali della mostra,
ma la cornice sociologica è bandita. Per fortuna nessuno sguaiato
appello alle utopie, nessun titolo didascalico o sensazionalista
costringe il pubblico ad assumere un improprio atteggiamento engagé.
Quello che è legittimo aspettarsi a Orléans è un insieme di narrazioni
per immagini di rarissima qualità, dove la migrazione è intesa come
unica meta e il sogno come un «metodo per andare oltre la catastrofe e
dirigersi l’uno verso l’altro». E così saranno le fragili città di carta
o argilla di Aleksander Brodsky – minacciate da laghi di petrolio – o
le strutture assemblate e illuminate da fioche luci a parlare delle
metamorfosi urbane. Affianco ai disegni del tunisino Nidhal Chamekh
sulle pratiche urbane – e poi sullo smantellamento della terribile
Giungla di Calais (il più grande campo profughi francese) – e alle
azioni dirette di Perou (l’organizzazione per il reperimento delle
risorse urbane presieduta da Gille Clé- ment e Sébastien Thiery), le
architetture struggenti dei norvegesi Manthey Kula riflettono sulla
condizione dell’esilio, mentre la palestinese Saba Innab indaga la
questione dell’architettura senza terra nei luoghi spossessati.
• Dark Beirut e l’aérotrain abbandonato
Due
universi paralleli, quelli di Bernard Khoury e Beniamino Servino,
rappresentano un’indagine incessante dei rapporti tra territorio e
memoria. Khoury produce con le sue architetture una proliferazione di
impronte dark su una Beirut ormai sfigurata dal real estate,
completamente immersa in un processo di trasformazione che vuole
rimuovere non solo ogni traccia del conflitto, ma anche qualsiasi segno
di vitalità urbana dal suo tessuto. Beniamino Servino, lontano da questi
registri di cupezza, conduce una lotta donchisciottesca, tutta interna
allo spazio tra la propria mente e la mano che produce migliaia di
disegni stupefacenti. Il suo nemico è la miseria antimonumentale delle
terre campane in cui vive ed è sempre vissuto, il cui sviluppo volgare e
senza redenzione ha però un valore archetipico globale. Giorno dopo
giorno Servino individua gli elementi fondamentali che compongono il
vocabolario di questa deprivazione estetica e li contamina con la sua
inesauribile vis progettuale, trasformandoli in monumentali figure di
una nuova dignità. Uno degli interventi più notevoli nello spazio
pubblico di Orléans è il padiglione progettato da 2A+P/A, tratto da un
disegno di Ettore Sottsass (dalla serie Architettura Monumentale): uno
scrigno-wunderkammer che dopo la Biennale sarà trasferito
permanentemente nel Parc Floral di Parigi, simbolo della creazione come
atto migratorio. Lo studio 1024 architecture, aperto da due dei
fondatori del collettivo Exyzt, ha invece creato una
scultura/infrastruttura dotata di caffè, bookshop e spazio di incontro
all’interno e all’esterno del Frac; mentre il belga Cé- dric Libert
interviene sulle rovine del fascinoso aérotrain di Jean Bertin
abbandonato nel paesaggio, esempio mirabile di incompiuto orléanese.
• Mal d’Africa
Tra
le immagini dei grandi calchi dei siti naturali in cemento operati
dagli Ensamble Studio, della bunker architecture di Didier Fiuza
Faustino, delle città-spa di Building Building, degli interni-esterni di
Aristide Antonas, delle tipologie domestiche di PioveneFabi, emergono i
repêchage di due architetti quasi coetanei: il napoletano Fabrizio
Carola (1931) e il nigeriano Demas Nwoko (1935), che messi a confronto
incarnano forse meglio di ogni altro il senso del titolo della biennale.
Carola ha realizzato su suolo africano delle architetture in terracotta
che reinterpretano con acribia filologica e intelligenza modernissima
dal punto di vista climatico le tecniche costruttive della tradizione
subsahariana; Nwoko ha sviluppato un sistema progettuale che condensa in
un sincretismo spettacolare forme dell’architettura Igbo con i principi
occidentali e le tecniche giapponesi. In spregio alle chiusure
identitarie prodotte dai fanatismi conservatori, ma anche dagli eccessi
culturali della deriva postcoloniale (basti pensare alle obbrobriose
elucubrazioni intorno alla cultural appropriation, che di tanto in tanto
scuotono il dibattito internazionale), quest’orgia di racconti e figure
offerta da Damani e Galofaro porta all’evidenza assoluta il principio
della prolificità del pensiero in movimento.
Monografiche
«Un’architettura costruita è quasi sempre inferiore all’idea che l’ha generata.
L’architetto
è sempre costretto a scegliere i compromessi migliori, ma se questi non
rispettano un livello minimo di qualità non gli restano che due
soluzioni: costruire edifici che contrastano con le proprie idee e
spesso con l’interesse degli utilizzatori, trasformando il proprio
mestiere in una pura fonte di guadagno; rifiutare la realizzazione e
quindi la remunerazione, scegliere la via della professione di fede e
abbandonare l’architettura. Personalmente ho scelto la seconda e ne sono
molto felice». Questa franca dichiarazione di Guy Rottier potrebbe
essere il manifesto della Biennale di Orlèans. Rottier, che aveva
collaborato con Le Corbusier all’Unité d’habitation di Marsiglia (nota
anche come Cité Radieuse), ha disegnato poi negli anni Sessanta e
Settanta edifici e oggetti di ineguagliabile bellezza, mischiando la
propria fascinazione per l’architettura ipogea, le case di terra e i
sistemi di cattura della luce studiati in Siria e in Marocco con visioni
antropomorfiche, zoomorfiche e una straordinaria potenza di segno.
Quando decise di ripensare l’oggetto scacchiera non rivolse l’attenzione
ai pezzi, ma alla trascurata griglia, creando dei paesaggi irti,
sconnessi, addirittura pop. La monografica dedicata a Rottier si sposa a
quella di Patrick Bouchain, ospite d’onore della Biennale e suo grande
animatore. In Italia è prevalentemente associato alla Biennale di
Venezia del 2006, dove da curatore chiamò il gruppo Exyzt a progettare
una struttura effimera che rendesse vivibile e vivo, giorno e notte, il
padiglione francese. A metà degli anni Ottanta aveva collaborato con
Daniel Buren a Les deux plateaux del Palais Royal di Parigi ed era stato
consigliere di Jack Lang. Bouchain ha un talento vero, umano, per l’a
rchitettura partecipata. Per anni ha diretto la Friche la Belle de Mai a
Marsiglia, un modello assoluto per la riconversione di spazi
inutilizzati in centri culturali e sociali, che del resto è la sua
specialità. In mostra saranno visibili, tra le altre cose, i progetti e i
modelli del Teatro Zingaro di Aubervilliers e del Teatro del Centauro
di Marsiglia.