lunedì 16 ottobre 2017

pagina 99 13.10.2017
Orléans vende sogni non solide realtà
Architettura | La prima edizione della Biennale transalpina rifiuta gli slogan engagés o la tradizionale presentazione dell’edificio e costruisce una raffinata narrazione per immagini. Per far emergere la fertilità del pensiero immaginifico e creativo all’origine del processo di costruzione
di Lucia Tozzi


Stando alle regole che vengono imposte oggi ai curatori di biennali dalle istituzioni che le finanziano, questa di Orléans (inaugurata il 12 ottobre e visitabile fino al 1 aprile 2018) non dovrebbe neppure rientrare nella categoria. Con una scelta di nomi totalmente estranea alla logica dello star system –niente Piano, Foster, BIG, Koolhaas o Nouvel – e una ricerca raffinatissima irriducibile ai soliti slogan da bassa propaganda, Camminare nel sogno di un altro si presenta come un miraggio nel panorama degli eventi internazionali. Intendiamoci, non è che i curatori Abdelkader Damani (direttore del Frac Centre-Val de Loire) e Luca Galofaro abbiano invitato solo giovanissimi o ignoti: ci sono Gian Piero Frassinelli, oggi più che mai celebre a causa dell’inesorabile revival della stagione radical italiana e in particolare di Superstudio, c’è Juan Navarro Baldeweg, e poi Tatiana Bilbao, Bernard Khoury, gli Ensamble, Didier Fiuza Faustino, Aristide Antonas, Aleksander Brodsky, Beniamino Servino e molti altri che pure girano, sono amati, idolatrati a volte. Ma ognuna di queste presenze ha un ruolo preciso in questa mostra, costruita intorno ad alcuni specifici campi di tensione, in primis quello tra arte e architettura, legato anche alle collezioni del Frac e alle passate edizioni dell’Archilab Festival. Qui le loro opere non sono macchie di colore comprimarie alla solida materialità della grande architettura, quella muscolare, esposta come una sequenza di maquette. I protagonisti questa volta sono loro, riuniti non da omogeneità tematica o da affinità politica, ma dalla capacità di reagire alle situazioni del mondo con un pensiero immaginifico. «Abbiamo guardato agli architetti interessati alla costruzione di un pensiero che non sempre coincide con la costruzione di edifici», ha dichiarato Galofaro in una recente intervista su Artslife a cura di Niccolò Lucarelli. «Questa è una biennale di collezioni che rifiuta di presentare l’architettura in un modo tradizionale, attraverso oggetti finiti, gli edifici. Vogliamo raccontare l’inizio del processo di costruzione e non la fine di questo processo. L’architettura per noi si costruisce attraverso l’incontro di immaginazioni diverse, prende forma lentamente».
• Tra l’esodo e il sogno
Le migrazioni e i processi partecipativi sono due sottotesti fondamentali della mostra, ma la cornice sociologica è bandita. Per fortuna nessuno sguaiato appello alle utopie, nessun titolo didascalico o sensazionalista costringe il pubblico ad assumere un improprio atteggiamento engagé. Quello che è legittimo aspettarsi a Orléans è un insieme di narrazioni per immagini di rarissima qualità, dove la migrazione è intesa come unica meta e il sogno come un «metodo per andare oltre la catastrofe e dirigersi l’uno verso l’altro». E così saranno le fragili città di carta o argilla di Aleksander Brodsky – minacciate da laghi di petrolio – o le strutture assemblate e illuminate da fioche luci a parlare delle metamorfosi urbane. Affianco ai disegni del tunisino Nidhal Chamekh sulle pratiche urbane – e poi sullo smantellamento della terribile Giungla di Calais (il più grande campo profughi francese) – e alle azioni dirette di Perou (l’organizzazione per il reperimento delle risorse urbane presieduta da Gille Clé- ment e Sébastien Thiery), le architetture struggenti dei norvegesi Manthey Kula riflettono sulla condizione dell’esilio, mentre la palestinese Saba Innab indaga la questione dell’architettura senza terra nei luoghi spossessati.
• Dark Beirut e l’aérotrain abbandonato
Due universi paralleli, quelli di Bernard Khoury e Beniamino Servino, rappresentano un’indagine incessante dei rapporti tra territorio e memoria. Khoury produce con le sue architetture una proliferazione di impronte dark su una Beirut ormai sfigurata dal real estate, completamente immersa in un processo di trasformazione che vuole rimuovere non solo ogni traccia del conflitto, ma anche qualsiasi segno di vitalità urbana dal suo tessuto. Beniamino Servino, lontano da questi registri di cupezza, conduce una lotta donchisciottesca, tutta interna allo spazio tra la propria mente e la mano che produce migliaia di disegni stupefacenti. Il suo nemico è la miseria antimonumentale delle terre campane in cui vive ed è sempre vissuto, il cui sviluppo volgare e senza redenzione ha però un valore archetipico globale. Giorno dopo giorno Servino individua gli elementi fondamentali che compongono il vocabolario di questa deprivazione estetica e li contamina con la sua inesauribile vis progettuale, trasformandoli in monumentali figure di una nuova dignità. Uno degli interventi più notevoli nello spazio pubblico di Orléans è il padiglione progettato da 2A+P/A, tratto da un disegno di Ettore Sottsass (dalla serie Architettura Monumentale): uno scrigno-wunderkammer che dopo la Biennale sarà trasferito permanentemente nel Parc Floral di Parigi, simbolo della creazione come atto migratorio. Lo studio 1024 architecture, aperto da due dei fondatori del collettivo Exyzt, ha invece creato una scultura/infrastruttura dotata di caffè, bookshop e spazio di incontro all’interno e all’esterno del Frac; mentre il belga Cé- dric Libert interviene sulle rovine del fascinoso aérotrain di Jean Bertin abbandonato nel paesaggio, esempio mirabile di incompiuto orléanese.
• Mal d’Africa
Tra le immagini dei grandi calchi dei siti naturali in cemento operati dagli Ensamble Studio, della bunker architecture di Didier Fiuza Faustino, delle città-spa di Building Building, degli interni-esterni di Aristide Antonas, delle tipologie domestiche di PioveneFabi, emergono i repêchage di due architetti quasi coetanei: il napoletano Fabrizio Carola (1931) e il nigeriano Demas Nwoko (1935), che messi a confronto incarnano forse meglio di ogni altro il senso del titolo della biennale. Carola ha realizzato su suolo africano delle architetture in terracotta che reinterpretano con acribia filologica e intelligenza modernissima dal punto di vista climatico le tecniche costruttive della tradizione subsahariana; Nwoko ha sviluppato un sistema progettuale che condensa in un sincretismo spettacolare forme dell’architettura Igbo con i principi occidentali e le tecniche giapponesi. In spregio alle chiusure identitarie prodotte dai fanatismi conservatori, ma anche dagli eccessi culturali della deriva postcoloniale (basti pensare alle obbrobriose elucubrazioni intorno alla cultural appropriation, che di tanto in tanto scuotono il dibattito internazionale), quest’orgia di racconti e figure offerta da Damani e Galofaro porta all’evidenza assoluta il principio della prolificità del pensiero in movimento.

Monografiche
«Un’architettura costruita è quasi sempre inferiore all’idea che l’ha generata.

L’architetto è sempre costretto a scegliere i compromessi migliori, ma se questi non rispettano un livello minimo di qualità non gli restano che due soluzioni: costruire edifici che contrastano con le proprie idee e spesso con l’interesse degli utilizzatori, trasformando il proprio mestiere in una pura fonte di guadagno; rifiutare la realizzazione e quindi la remunerazione, scegliere la via della professione di fede e abbandonare l’architettura. Personalmente ho scelto la seconda e ne sono molto felice». Questa franca dichiarazione di Guy Rottier potrebbe essere il manifesto della Biennale di Orlèans. Rottier, che aveva collaborato con Le Corbusier all’Unité d’habitation di Marsiglia (nota anche come Cité Radieuse), ha disegnato poi negli anni Sessanta e Settanta edifici e oggetti di ineguagliabile bellezza, mischiando la propria fascinazione per l’architettura ipogea, le case di terra e i sistemi di cattura della luce studiati in Siria e in Marocco con visioni antropomorfiche, zoomorfiche e una straordinaria potenza di segno. Quando decise di ripensare l’oggetto scacchiera non rivolse l’attenzione ai pezzi, ma alla trascurata griglia, creando dei paesaggi irti, sconnessi, addirittura pop. La monografica dedicata a Rottier si sposa a quella di Patrick Bouchain, ospite d’onore della Biennale e suo grande animatore. In Italia è prevalentemente associato alla Biennale di Venezia del 2006, dove da curatore chiamò il gruppo Exyzt a progettare una struttura effimera che rendesse vivibile e vivo, giorno e notte, il padiglione francese. A metà degli anni Ottanta aveva collaborato con Daniel Buren a Les deux plateaux del Palais Royal di Parigi ed era stato consigliere di Jack Lang. Bouchain ha un talento vero, umano, per l’a rchitettura partecipata. Per anni ha diretto la Friche la Belle de Mai a Marsiglia, un modello assoluto per la riconversione di spazi inutilizzati in centri culturali e sociali, che del resto è la sua specialità. In mostra saranno visibili, tra le altre cose, i progetti e i modelli del Teatro Zingaro di Aubervilliers e del Teatro del Centauro di Marsiglia.