La Stampa TuttoLibri 9.10.17
Flaubert produceva una pagina a settimana
di James Salter
Gli
scrittori che più stimo sono Nabokov, Faulkner, Saul Bellow e Isaac
Singer: metto insieme questi ultimi due per via delle qualità che li
accomunano. Mi piace Nabokov per il suo acume e la sua straordinaria
capacità linguistica, per la sua voce e il suo stile. Come ho detto,
credo siano queste le cose che durano, più dei soggetti. Era molto
arguto. Un giorno al bar dell’hotel-residence dove viveva, a Montreux,
parlammo per quasi un’ora. Era inverno e Montreux, che non è un posto
allegro, sembrava deserta come l’enorme, vecchio albergo. Al bar
c’eravamo solo noi: io, Nabokov e Vera, la moglie, con un abito di
Rodier azzurro. La sera prima, a cena, anche la sala da pranzo era
praticamente vuota, con uno stuolo di camerieri in giacca bianca
immobili fra i tavoli. Al bar Nabokov fu cauto, autorevole, cortese.
Fece qualche osservazione buffa, ma sua moglie rimase sempre
impassibile. «Vede?» disse. «Non ride mai. È sposata con il più grande
clown d’Europa e non ride mai».
Alcuni anni dopo conobbi per caso
un tale – un matematico, mi pare – che aveva condiviso l’ufficio con
Nabokov alla Cornell University.
«Di che cosa parlavate?» gli chiesi.
«Oh, parlava di quello che aveva letto sul National Enquirer. Lo comprava tutti i giorni. E gli piaceva parlare del tempo».
«Del tempo? In che senso?»
«Si guardava il polso e diceva: “Secondo me sono le 8.26. Tu che ora fai?”».
* * *
Flaubert
inizia a scrivere Madame Bovary nel 1851, un anno dopo la morte di
Balzac. Aveva quasi trent’anni. Ammirava Balzac; erano entrambi
realisti. Madame Bovary, che sarebbe diventato il romanzo realista per
eccellenza, fu scritto in quattro anni e mezzo. Da dove sia nata l’idea,
fino a che punto la storia fosse basata su un fatto reale o su un caso
famoso, sono temi interessanti, ma preferirei parlare di Flaubert e dei
suoi metodi, del suo modo di lavorare, delle sue speranze e delle sue
intenzioni.
Flaubert era scapolo. Non si sposò mai. Visse sempre a
Croisset, vicino a Rouen, nella comoda casa di famiglia provvista di un
grande giardino affacciato sul fiume. C’erano dei domestici. Abitava
con la madre e una giovane nipote, Caroline, alla quale era molto
affezionato. Viaggiava di rado: ogni tanto andava a Parigi per cambiare
aria o vedere gli amici, e una volta si spinse fino in Egitto con Maxime
Du Camp, un amico. La sua era una vita decisamente borghese, sebbene
lui disprezzasse la borghesia. La feccia borghese, così la definiva, e
la loro società democratica. Aveva un’amante, la poetessa Louise Colet,
che viveva però in un’altra città, quindi lui poteva mettere tutte le
energie nel lavoro.
Il suo studio era al piano superiore della
casa, una grande stanza con vista sul giardino e sulla Senna. Di solito
scriveva in quella stanza dal primo pomeriggio fino al primo mattino,
interrompendosi solo per cenare. Ed era instancabile: scriveva,
rimaneggiava, rivedeva, e lentamente produceva «una pagina alla
settimana o una in quattro giorni o tredici in tre mesi». Ci sono circa
quattromilacinquecento pagine di minute per le trecento del libro.
Soppesava
ogni frase. Sceglieva, scartava, risceglieva ogni parola. «Una buona
frase in prosa» diceva «dovrebbe essere come un buon verso in una
poesia, inalterabile, perché altrettanto ritmico, altrettanto sonoro.»
Verificava le frasi e i paragrafi a voce alta in quello che definiva il
suo gueuloir – il suo urlatoio – per giudicarne il ritmo e la
scorrevolezza. Inoltre, ogni settimana leggeva ad alta voce a un amico
quello che aveva scritto.