lunedì 9 ottobre 2017

La Stampa 9.10.17
Gli italiani sono sempre più depressi
Rischio “mal di vivere” per 8 milioni
di Paolo Russo

«Ne uscirai più forte, più maturo, più riflessivo di prima. È curabile, basta stringere i denti, serrare i pugni e tendere fino all’ultimo palmo di volontà». Così Indro Montanelli incoraggiava il suo amico Roberto Gervaso, che con lui ha condiviso il “cane nero”, come aveva ribattezzato la depressione.
Il male oscuro che in Italia colpisce oltre 4 milioni di persone, con una prevalenza doppia delle donne rispetto ai maschi, dicono i dati della Sip, la Società scientifica degli psichiatri. «Il disturbo è sempre più diffuso e a rischio sono 8 milioni di persone - spiega il suo presidente, Bernardo Carpiniello - E’ il tabù del nuovo secolo, una patologia spesso confusa con uno stato d’animo, non diagnosticata, non trattata, fonte di dolore, disabilità e prima causa dei suicidi».
Secondo l’Oms il “mal di vivere” è ormai prossimo a scalzare le malattie cardiovascolari dal trono delle patologie croniche più diffuse. Con costi sociali elevati: oggi in Italia con 22 milioni di ore di lavoro perse (circa il 25% delle giornate lavorative) se ne vanno circa 4 miliardi di euro, oltre 4mila euro a paziente, secondo i dati diffusi in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, che si celebra domani che proprio quest’anno è dedicata alla correlazione tra depressione e lavoro. Un’emergenza sanitaria vera, spinta negli ultimi anni dall’effetto della crisi. «Nei paesi maggiormente colpiti dalla recessione, come Grecia e Portogallo, abbiamo rilevato un aumento dei casi», spiega Carpiniello.
Non si creda però che la depressione minacci solo chi deve combattere per sbarcare il lunario. «Era come se la testa non fosse mia ma di qualcun altro» racconta il ricco e vincente Gigi Buffon, ricordando quel «buco nero dell’anima» che lo inghiottì per sei mesi tra il 2003 e il 2004. E storie come la sua le hanno raccontate star come Gassman padre e figlio, Zucchero, Lady Gaga, Beyonce o Gwytneth Paltrow, per citarne alcune.
Loro l’hanno curata. Ma non è sempre cosi. «Si tende a voler nascondere queste situazioni temendo il giudizio degli altri, di essere additati come malati di mente», spiega Paolo Brambilla, professore e psichiatra dell’Università di Milano. E così si arriva troppo tardi alla diagnosi. Mediamente di due anni. «Un medico di famiglia con 1.500 assistiti a carico - rivela la prof. Silvana Galderisi, a capo dell’Associazione europea di psichiatria - visita ogni anno da 45 a 75 pazienti con depressione. Ma la diagnosi viene correttamente formulata solo nel 40% dei casi e solo la metà dei pazienti riceve poi un trattamento adeguato». Che a volte richiede lunghe e costose sedute di psicoterapia. Per chi può permettersele, visto che i dipartimenti di salute mentale pubblici riescono a mala pena a fronteggiare le emergenze.
Poi ci sono gli antidepressivi, dei quali si abusa. Secondo l’Aifa, l’Agenzia nazionale del farmaco, 2,6 milioni gli italiani li assumono almeno una volta l’anno. Anche se poi chi ne avrebbe veramente bisogno interrompe anzitempo le cure. Cosa che avviene in oltre il 60% dei casi. A osservarne il consumo si direbbe che la depressione colpisca maggiormente nelle grandi città. L’8% dei milanesi ne ha fatto uso. Percentuale che scende a meno della metà nei piccoli centri. «Un po’ perchè i casi restano sommersi, poiché dove tutti sanno tutto è più facile essere marchiati come insani di mente. Ma anche - conclude il presidente della Sip - per via del supporto sociale, che nelle piccole comunità fa da antidoto della solitudine». Che nell’era dei social è paradossalmente l’altro male di questo secolo.

Il Fatto 9.10.17
“Restare uniti sarebbe stato sfidare Newton”
“Non ci si può alleare col Pd, fa politiche di destra”
di Antonello Caporale

Il divorzio a sinistra è consequentia rerum. E anzi, “la cosa che non ho ancora capito è perchè Giuliano Pisapia non abbia completato il mandato di sindaco di Milano. Resta un mistero la ragione dell’interruzione a metà di un lavoro che poteva dare i suoi frutti, perchè si sia fatto rapire da una suggestione piuttosto che forgiare sul campo, e sottoporre alla verifica del buon governo quotidiano, la sua leadership”.
Professor Alberto Asor Rosa, appare piuttosto sollevato da questo divorzio.
L’idea che si potesse costruire una coalizione elettorale di centro sinistra con un protagonista decisivo quale è il segretario del Pd che ha attuato, e purtroppo ha in mente di continuare con politiche distintamente di centro destra, mi sembrava una pretesa che ambisse a sfidare le leggi della fisica.
Siamo a Newton e alla legge di gravità.
Non si trattava di diversità trascurabili ma proprio dell’idea comune, almeno quella, fondativa, condivisa, costituente. Mancavano le basi per qualunque discorso. Ma dai, suvvia, ma come si fa?
Ora Bersani e D’Alema sono di qua, Matteo Renzi di là e Giuliano Pisapia, il costruttore del ponte, rovinato sotto i piloni che avrebbero dovuto sorreggerlo.
Date le premesse non entusiasmanti della vigilia, rimane la presa d’atto di un divorzio ineluttabile.
E rimane l’idea che la sinistra non riesca che autoaffossarsi.
Partiamo da una considerazione elementare: questa sinistra nasce da un rifiuto. Già una tale condizione manifesta la difficoltà del parto, prova che la gestante è anemica e fragile, documenta che questo processo di costituzione di una forza politica a sinistra del Pd resta tuttora priva di una spinta ideale, di un sostegno popolare, di una condizione anche umana di calore, di simpatia.
È un’operazione di ceto politico?
Tecnicamente lo è. Volendo essere ottimisti, oppure prendere la questione dal lembo opposto, possiamo dire che almeno questo ceto politico ha avvistato il disastro al quale andava incontro e si è fermato, non ha proseguito il cammino verso il burrone. Ha percepito, per esempio, che le politiche economiche propugnate da Renzi sono nettamente, distintamente di destra. Non aggiungo il resto, i rapporti cioè con Berlusconi, la qualità ideale della conduzione politica, i patti o i baratti et similia. Mi fermo alle politiche sociali, del lavoro. Se Bersani, D’Alema, quelli di Sinistra Italiana, anche quelli di Rifondazione, prendono atto che devono cambiare completamente le carte in tavola….
La rivoluzione, professore, non pare alle porte.
Io mi auguro solo che questo divorzio, come detto finora tutto interno al gruppo dirigente, si apra prima possibile alla simpatia e all’aiuto di un’opinione pubblica oramai così avvilita e distante.
Aggiungendo alla massa di astenuti coloro che votano Cinquestelle, la sfiducia nel sistema dei partiti raggiunge effettivamente vette inedite.
Temo che il precipizio ancora non l’abbiamo conosciuto nella sua interezza. Perchè l’argine alla disillusione che fino a pochi mesi fa pareva essere il movimento di Grillo ha iniziato a mostrare crepe piuttosto evidenti. Provi in un bar di Roma a parlar bene della Raggi: la sommergeranno ululati di disapprovazione. Anche i Cinquestelle pagheranno lo scotto della sfiducia e questo rende persino più incredibile che la sinistra non si adoperi per fare pace con i suoi elettori.
E Massimo D’Alema è il costruttore del nuovo? È il pompiere tra i duellanti o piuttosto il piromane? È l’uomo capace di comprendere il presente o il leader di un passato irrecuperabile?
Su di lui non dico nulla. È libero di fare ciò che crede.
Su Pisapia invece sente di poter spendere due parole.
Mi domando: ma perchè non ha continuato a fare quel che stava facendo? Veramente non l’ho capito. Stava a Milano, era forte…

La Stampa 9.10.17
Divorzio tra Pisapia e bersaniani
Pisapia-bersaniani, divorzio a sinistra
Renzi incassa e tace
L’alleanza a sinistra è al capolinea
Mdp affonda: "Basta, ora bisogna correre”. La replica dell’ex sindaco: “Non c’è problema, non credo serva un partitino del 3%”. Sinistra italiana e Civati soddisfatti: “Finalmente”
di A.D.M.

La rottura ora è ufficiale ma nessuno è davvero sorpreso, perché Giuliano Pisapia e gli ex Pd di Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, in realtà, non si erano mai tanto amati. Il divorzio fin troppo annunciato viene ufficializzato da Roberto Speranza sul Corriere della sera: «Il tempo è finito. Abbiamo parlato troppo di noi, ora basta. Bisogna correre». Pisapia risponde quasi subito, tagliente: «Non c’è problema. Buon viaggio a Speranza. Io continuo in quello che ho sempre detto». Quindi, l’affondo: «Non credo nella necessità di un partitino del 3%, credo in un movimento molto più ampio e soprattutto capace di unire, non di dividere».
Un botta e risposta secco che innesca quasi una rissa tra coloro che il primo luglio scorso erano salti su un palco a Roma con l’impegnativo slogan “Insieme”. Enrico Rossi, presidente della Toscana, attacca Pisapia su Facebook: «Pochi si erano accorti che fosse ancora nelle nostre file. Noi non vogliamo ridurci a un ruolo ancillare al Pd e ad Alfano». Ribatte Massimiliano Smeriglio, vice-presidente del Lazio, ex Sel, vicino a Pisapia: «Bisogna avere rispetto di tutti, anche per chi governa col Pd come il sottoscritto e come Rossi. Non ci si inventa Che Guevara...».
Risse verbali a parte, a questo punto tutti lavorano per prepararsi alle elezioni, dove verosimilmente ci saranno almeno due liste a sinistra del Pd: quella di Mdp, con Sinistra italiana e Pippo Civati (che dicono «finalmente»), e quella a cui continua a lavorare Pisapia, che il 28 ottobre riunirà l’assemblea nazionale di Campo progressista e il giorno dopo interverrà ad un convegno con Emma Bonino, Romano Prodi ed Enrico Letta. In Parlamento, poi, già da oggi si lavorerà per costituire gruppi che fanno riferimento al sindaco di Milano, sia alla Camera che al Senato, e dal gruppo Mdp alla Camera potrebbero uscire alcuni ex Sel.
«Non ci interessa affatto né fare la stampella del renzismo, né la sinistra del quarto polo», dice il portavoce di Campo progressista Alessandro Capelli. Ma uno degli uomini vicini a Pisapia aggiunge: «Il Rosatellum 2.0 ci obbliga a fare desistenze, accordi elettorali. Non è la coalizione che volevamo, ma...». Insomma, la prospettiva è quella di una lista a sinistra del Pd ma non avversaria del partito di Renzi. «Ci possono essere due o tre liste - dice Pisapia - che devono però trovare unità in un’ipotesi di governo. L’avversario non è chi ci sta vicino, ma destre e populismi».
Stamattina si riunirà il coordinamento di Mdp per decidere le prossime tappe: «Non abbiamo tempo», spiega Massimo Paolucci, vicino a D’Alema. «Bisogna fare una cosa un po’ più larga della somma delle sigle». L’appuntamento di Mdp è il 19 novembre, quando con le primarie si eleggerà l’assemblea che sarà l’ossatura del nuovo soggetto politico e, magari, si sceglierà anche il leader. Il presidente del Senato Pietro Grasso resta uno dei nomi possibili, archiviato Pisapia, anche se Paolucci usa parole diplomatiche: «È la seconda carica dello Stato. Lo stimiamo tantissimo, ma non va tirato per la giacca».[a.d.m.]

La Stampa 9.10.17
Renzi incassa la spaccatura e prepara il programma per il nuovo centrosinistra
Il leader Pd spera di coinvolgere Pisapia e studia gli slogan Deficit-Pil al 3% per aiutare la crescita e misure per i giovani
di Carlo Bertini

Non una parola di polemica. Matteo Renzi ha dato l’ordine di non speculare su quella che agli occhi dei vertici Pd è una rottura consumata e difficilmente ricomponibile tra Pisapia e D’Alema-Bersani. Almeno questa è la convinzione che gli riportano quelli del giglio magico più in stretto contatto con i fuoriusciti del Pd.
Il segretario però non si sbilancia, predica prudenza: «Il nostro schema di coalizione è il Pd al centro, con una forza alla sua destra e una a sinistra: e lì chi vuole starci ci stia, se c’è pure Pisapia siamo contenti, ma bisogna capire bene cosa succede».
Renzi dialoga via sms con i big del partito, che trasmettono messaggi battaglieri ringalluzziti dalla novità: «Noi sui contenuti siamo interessati a costruire un campo largo ed inclusivo: 3% deficit-pil per sostenere la crescita e il lavoro, contrasto alla povertà, opportunità per i giovani», questi i capisaldi programmatici della futura alleanza. Insomma, se Pisapia ci starà bene; altrimenti la gamba di sinistra si farà lo stesso con sindaci e forze civiche di quell’area. «Lavoriamo per un disegno ampio e inclusivo basato sui contenuti e non sui veti personali», ripete Lorenzo Guerini.
Renzi analizza il film della rottura tra l’ex sindaco di Milano e i vertici Mdp senza sfoggiare soddisfazione. Motivi per sorridere ne avrebbe. Dopo l’ovazione con cui gli ex di Sel accolgono la svolta di Mdp verso la lista unica con la sinistra radicale, si rafforza lo schema del voto utile: per dirla con uno dei big Pd «un elettore di sinistra, ad esempio a Roma, tra Gentiloni e Meloni difficilmente voterà Fratoianni rischiando di far vincere la destra. Sceglierà il centrosinistra».
Competition meno ardua
La mano tesa sfoggiata in Direzione e l’accelerazione sulla legge che favorisce le coalizioni ha accentuato le contraddizioni in quell’area. La comunicazione della data di nascita di un partito antagonista al Pd, fissata per il 19 novembre, lo dimostra. La rottura con Pisapia certo è positiva, può depotenziare la carica competitiva dei candidati Mdp nei collegi. Ma bisognerà vedere bene gli sviluppi. Ieri il segretario è rimasto in famiglia a preparare la seconda lezione alla Stanford e ha bloccato il grilletto dei suoi fucilieri: nessuno dei suoi si è esposto su Twitter e tantomeno in tv sulle disgrazie della sinistra. Non un commento di gaudio né uno sfottò, niente. Per non sortire l’effetto altamente indesiderato di ricompattare il fronte avverso che vede in Renzi il nemico da battere. Tuttavia le parole di Pisapia di ieri, pur senza ricalcare lo schema Pd, fanno ben sperare: «Con una legge di stampo proporzionale come il Rosatellum bis, ci possono essere due o tre liste che devono però poi trovare unità in un’ipotesi di governo. Oggi ognuno deve fare la sua battaglia avendo ben presente che l’avversario non è quello che ci sta vicino, ma le destre e i populismi».
Togliatti contro Vittorini
Parole che fanno infuriare chi già accusa Pisapia di esser passato col nemico. «Lui si allea col Pd e Alfano, noi non faremo le ancelle», sbotta il governatore toscano Enrico Rossi. «Pisapia se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato...», dice parafrasando Togliatti, che su Rinascita irrideva l’uscita di Vittorini dal Pci. Il che significa che ai vertici Mdp la ferita brucia assai: non è un buon viatico per chi sta costruendo un nuovo soggetto politico aver perso per strada il leader designato.
Renzi ha sposato la linea di non interferire nel dibattito altrui, ma ora più che mai - con la tensione alle stelle in quel mondo lì - attende le mosse di Pisapia e magari di qualche deputato Mdp stufo di questa querelle...

Corriere 9.10.17
«Buon viaggio al suo partitino del 3%» Pisapia liquida Speranza. Mdp si spacca
E le parole dell’ex dem dividono i suoi. E c’è chi accusa: lui e i big hanno deciso da soli, anche sull’assemblea
di Alessandro Trocino

ROMA Quella che ieri Roberto Speranza chiamava «una soap opera insopportabile» ha avuto ieri, proprio dopo l’intervista rilasciata al Corriere della Sera , una puntata particolarmente vivace. Con lo strappo, ormai non più rammendabile, tra Speranza e Giuliano Pisapia, ovvero tra Articolo 1-Mdp, a trazione bersaniana e dalemiana, e Campo progressista, a trazione ulivista. E con uno sbrego, minore ma non meno lacerante, che percorre internamente il partito di Speranza, con i deputati in rivolta, per non essere stati avvertiti del cambio di rotta repentino deciso dall’alto. E con la prospettiva di una fuoriuscita dal gruppo parlamentare.
A dare il la è Speranza, stufo di attendere il «Godot» Pisapia e soprattutto in netto disaccordo sull’«alleanza farlocca» con il Pd renziano. La replica di Pisapia non è conciliante: «Non c’è problema. Buon viaggio a Speranza e al suo partitino del 3 per cento».
A Pisapia rispondono in tanti. Miguel Gotor, a tono: «Ricambio gli auguri di buon viaggio a Pisapia, rimanendo in speranzosa attesa del suo partitone». Replica che si basa sull’assunto che Pisapia alla fine dovrà accontentarsi di un altro partitino, per poi finire inglobato dal Pd. Ma non è questa l’intenzione dell’ex sindaco di Milano, che nella manica potrebbe avere qualche asso da giocare, dalla presidente della Camera Laura Boldrini a quello del Senato Pietro Grasso, fino alla radicale Emma Bonino. Che vedrà, il 28 e 29 alla Convention europeista insieme a Carlo Calenda, Romano Prodi ed Enrico Letta.
Quanto a Mdp, Speranza dà appuntamento al 19 novembre per la Costituente. Sicuramente ci saranno la Sinistra italiana di Fratoianni e Possibile di Pippo Civati. Resta da capire se ci sarà tutta Mdp, viste le reazioni indignate degli esponenti «ulivisti» del partito. Da Giovanna Martelli («La data dell’Assemblea è stata decisa in una stanza») a Filiberto Zaratti («I big hanno deciso da soli»), da Nello Formisano («Comincio ad avere dubbi sul progetto») fino a Ciccio Ferrara, che è il vicepresidente di Mpd: «Non ci interessava la costruzione dell’ennesimo partitino, volevamo un movimento largo». Interviene anche il coordinatore Massimo Paolucci: «Amareggia la decisione di Pisapia».
Il nodo resta il rapporto con il Pd. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala spiega: «Non si può trattare il Pd da nemico». E il Pd renziano è soddisfatto: la rottura con Mdp e sinistra radicale apre la strada a un accordo con Pisapia.

Corriere 9.10.17
Rosato
«Non brindo alla rottura Ma rivedo Rifondazione e D’Alema dà le carte»
di Monica Guerzoni

ROMA «Non abbiamo brindato, assolutamente no».
Davvero, Ettore Rosato? Al Nazareno non si è festeggiato per la rottura tra Mdp e Pisapia?
«Nessun brindisi, noi continueremo a lavorare perché il centrosinistra sia unito».
Il divorzio riapre i giochi anche per il Pd?
«Questo dipende dalle scelte che ognuno farà. Il nostro obiettivo lo ha indicato Renzi in Direzione ed è un campo largo di centrosinistra contro le destre e i populismi».
Sbaglia Speranza quando dice che il Rosatellum porta ad «alleanze farlocche»?
«Mi sembra sia proprio il contrario. Nel momento in cui hanno visto che facciamo sul serio hanno ripreso a soffrire della solita malattia, il virus che vuole Renzi come nemico invece che Berlusconi, Salvini e Grillo. La nuova legge elettorale invece consente le coalizioni, quelle vere, quelle che metteranno in campo i candidati del centrosinistra contro gli avversari».
La possibilità di un’alleanza con Bersani e D’Alema si allontana definitivamente, o è rimandata al dopo-elezioni?
«Non ci si incontra dopo le elezioni, ci si incontra prima, dicendo agli elettori con chi si sta. Al momento Mdp sta facendo Rifondazione comunista. Ma almeno il Prc lo faceva per scelta ideologica, mentre loro sono mossi solo dal rancore».
Speranza ha confermato che metteranno un loro candidato in ogni collegio. La sconfitta del Pd è inevitabile?
«Io penso di no. Poi vedremo se gli elettori capiranno questa scelta, o se premieranno piuttosto un progetto unitario che mette in campo tutte le energie per tornare al governo».
Ci sarà una lista Pisapia in coalizione con il Pd?
«Pisapia è una persona seria, che farà le sue scelte in autonomia. Lui sa che noi lavoriamo seriamente a una coalizione ampia, vogliamo mettere insieme e non dividere».
Convocando per il 19 novembre l’assemblea costituente, Speranza ha spaccato il gruppo di Mdp-Articolo 1. Lei è pronto ad accogliere i transfughi?
«Non c’è nessun contatto in tal senso, non stiamo facendo una campagna acquisti. Non intendiamo interferire con il cammino faticoso che c’è in quel pezzo di sinistra. È certo che, quando leggo di colleghi che si preoccupano di non far vincere la destra, stiamo dicendo le stesse cose. E questo mi fa piacere».
Perché accusate D’Alema di essere il regista delle divisioni?
«Nessuno mi toglierà mai dalla testa che chi dà le carte lì e traccia la linea è Massimo D’Alema. Lo dico con rispetto».
Come vede le primarie della sinistra, per eleggere l’assemblea costituente di un nuovo partito con Fratoianni e Civati?
«Auguri. Abbiamo già visto le primarie di Di Maio, vedremo cosa porterà la fantasia in questo caso. Provino a chiedere ai loro militanti se preferiscono un governo con il Pd oppure quello di Salvini o di Grillo, forse scopriranno che sono più soli di quanto pensano».
I loro militanti temono un governo con Berlusconi.
«Lo temo anch’io, per questo abbiamo fatto una legge elettorale che costruisce le coalizioni prima e non concordo con chi vuole il proporzionale puro, come i dirigenti di Mdp. Il governo con Berlusconi lo ha fatto Bersani da segretario del Pd, quindi non vengano a darci lezioni».
Cosa succede se Renzi incassa una batosta in Sicilia?
«Niente, le regionali siciliane sono le regionali siciliane».


Il Fatto 9.10.17
Pisapia: “Addio Mdp”. A sinistra nuovo partito
“Buon viaggio col vostro 3%”: respinto l’aut aut che chiedeva di tagliare con i Dem. Art. 1 si unirà con Si e Civati: assise il 19 novembre
di Carlo Di Foggia

Neppure si erano tanto amati. I partiti della sinistra e Giuliano Pisapia separano i propri destini in una domenica d’ottobre. La rottura era, come si suol dire, nell’aria e ieri si è dispiegata. Al mattino Roberto Speranza, coordinatore dei bersaniani di Art. 1-Mdp, spiega al Corriere: “Abbiamo parlato troppo di noi, ora basta. Pisapia è naturalmente protagonista di questa storia, ma non si può più perdere un solo minuto. È diventata una soap opera insopportabile”. Letti i giornali, ottiene la risposta irridente del leader di Campo progressista: “Non c’è problema. Buon viaggio a Speranza. Non credo nella necessità di un partitino del 3% ma a una sinistra di governo”. Chiusa la parentesi, tocca ai protagonisti delle due formazioni attaccarsi via agenzie: “Pochi si erano accorti che egli ci fosse ancorà. Vuole allearsi con il Pd e Alfano ma noi non facciamo le ancelle” (Enrico Rossi, Mdp); “Speranza vuole la cosa rossa del passato” (Bruno Tabacci, Cp) e via discorrendo. Oltre lo strappo, l’altra certezza è una data: il 19 novembre prossimo, che Speranza lancia come giornata di una grande assemblea costituente per una forza unica della sinistra.
Per chi se la fosse persa, la storia è questa. Più o meno da quando è nato (febbraio) dalla scissione con il Pd, Mdp prova a convincere Pisapia a fare il “federatore” di quel che considera a sinistra dei Dem, che a loro volta corteggiano Pisapia. Dopo frecciatine e retroscena pilotati il tutto si è rotto in questi giorni. La frattura era nell’aria per vari motivi. Il primo è che, in vista delle urne, Mdp deve differenziarsi definitivamente dal Pd e quindi martedì è uscita dalla maggioranza (e dal governo) chiedendo una serie di misure sociali nella manovra. Così si è distanziata anche dalle truppe parlamentari di Pisapia (come l’ex Dc Tabacci), che dopo lo scontro di ieri si ingrosseranno (sono dati in uscita in 7-8 da Mdp). I bersaniani hanno deciso di andare verso un soggetto unico con Sinistra italiana e Possibile di Pippo Civati (aprendo anche a chi si è trovato a giugno al Teatro Brancaccio con Anna Falcone e Tomaso Montanari). In vista del 19, si voterà per nome, simbolo, programma e membri dell’assemblea del nuovo partito. C’è l’ok tanto di Nicola Fratoianni (Si) e Civati quanto di Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani,
Stando ai sondaggi, da quando ha avviato il balletto con Pisapia, Mdp ha perso metà dei pur virtuali consensi (ora è al 3% irriso da Pisapia). Una settimana fa il vertice ha quindi dato all’ex sindaco di Milano l’ultimatum: “Convoca tu l’assemblea”. Niente da fare e così è scattato il piano.
E ora? La nuova legge elettorale in discussione da martedì alla Camera (il “Rosatellum bis”) è scritta per premiare le liste civetta in aiuto dei partiti più strutturati. Molti dei “pisapiani” vecchi e nuovi possono essere tentati dall’appoggiarla (e convincere Pisapia). Che per ora lavora al suo “campo largo” (a fine mese si incontrerà con Prodi, Letta, Calenda e Bonino). Il Pd apre le porte: “Noi lavoriamo a un disegno ampio e inclusivo…”, dice Lorenzo Guerini.

Il Fatto 9.10.17
Ma a sinistra del Pd si vince solo con l’usato sicuro
Stando ai sondaggi, l’idea di un progetto che raccolga Mdp, Campo Progressista e Sinistra Italiana si è scontrata con l’incapacità di trovare un leader condiviso. E Pisapia scalda più le segreterie che gli elettori
di Fabrizia Caputo e Lorenzo Giarelli

Da mesi il futuro della sinistra domina il dibattito politico, ma a pochi mesi dalle elezioni ancora non è chiaro se, di là dal Pd, le varie liste si presenteranno da sole o sotto un unico leader. Movimento democratici e progressisti, Sinistra Italiana e Campo Progressista sembrano da ieri allontanarsi definitivamente, nonostante condividano da settimane palchi e convegni di mezza Italia. Resta in campo lo smarcamento degli ex vendoliani e dei bersaniani dal Pd.
I dati Un sondaggio di Demopolis pubblicato per il Fatto Quotidiano evidenzia come di questi tre partiti, al momento, soltanto Mdp superi nelle dichiarazioni di voto la soglia di sbarramento del 3% fissata dal Rosatellum bis, assestandosi attorno al 4%. Sinistra italiana viene accreditata al 2,3%, mentre il movimento di Pisapia non va oltre il 2%. Ma dalla stessa ricerca emerge anche che l’idea di una lista unica che raccoglie i tre partiti può arrivare al 9% nelle dichiarazioni di voto degli intervistati. Un dato che diventerebbe significativo anche in termini di seggi, a prescindere dal sistema elettorale.
Sulla stessa linea, i dati di Ipr marketing, che pur attestando Sinistra italiana poco al di sopra dell’1%, quotano nelle intenzioni di voto una lista unitaria di sinistra al 10%, strappando molti voti al Pd, che in questo caso scenderebbe intorno al 23%. La ricerca di Ipr sottolinea anche come Mdp abbia perso la metà dei propri consensi in questi ultimi mesi: quando lo scorso febbraio, un gruppo di fuoriusciti dal Pd creò il nuovo movimento, i sondaggi di Ipr lo davano intorno all’8%, prima che mesi di indecisioni facessero calare le percentuali dei bersaniani. Al momento l’idea di una lista unica è ancora lontana da una definizione precisa. Oltre a un programma e un simbolo comune, manca soprattutto un leader condiviso, una scelta che potrebbe condizionare di molto il potenziale elettorale della lista.
Tra i leader, il più corteggiato è, o meglio era, visto quanto accaduto ieri, Giuliano Pisapia. C’è poi chi all’interno del Pd lo vedrebbe come l’uomo ideale per un dialogo tra le varie anime del centrosinistra.
Che l’ex sindaco si muova in una direzione o nell’altra resta il fatto che, stando ai sondaggi, il suo nome sembra scaldare molto più le segreterie dei partiti che gli elettori. Se Demopolis attesta Campo Progressista attorno al 2%, un sondaggio di Swg pubblicato il 5 ottobre attribuisce al partito l’1,7%. Non solo: il consenso di Pisapia è persino in calo, se si pensa che lo scorso aprile Scenari politici-Winpoll attestava la sua forza politica attorno al 2,8%. Anche negli indici di gradimento rilevati da Demos lo scorso settembre, Pisapia, che raccoglie il 29%, è persino dietro a Bersani, che per mesi lo ha indicato come il giusto candidato per la coalizione e che invece, da solo, ha ancora ha il 30% di fiducia. Eppure si è andati avanti per mesi con convegni, interviste, feste di partito in cui Pisapia è stato costantemente al centro della discussione e proposto a più riprese come soluzione dei mali della sinistra.
L’opinione. Per Antonio Noto, direttore di Ipr marketing, “Campo progressista di Pisapia non ha un grande peso”, perché in realtà “è un partito che sembra non esistere e potrebbe essere chiamato tranquillamente Campo Pisapia”. Per il sondaggista l’idea “è che dietro di lui non ci sia nulla”.
Non va meglio ad altri aspiranti leader. Roberto Speranza, uno dei fondatori di Mdp, è fermo al 18% del gradimento nella graduatoria di Demos, per non parlare di Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, che prende il 12% nell’indice sulla fiducia.
E se il leader della sinistra unita fosse Pietro Grasso? Nelle scorse settimane, complice l’ovazione ricevuta alla festa nazionale di Mdp a Napoli, qualcuno ha avanzato l’idea che Bersani potesse chiedere al presidente del Senato di guidare la lista. L’idea però non convince Noto: “Gli elettori di sinistra farebbero fatica a identificarlo come un personaggio storico di quel colore politico: Grasso è molto rispettato e viene considerato un grande uomo di Stato – spiega – ma il popolo di sinistra cerca altro”. Poco spazio alle novità, dunque.
“Il leader che ancora riesce smuovere più consenso – prosegue Noto – è Pierluigi Bersani perché in quell’area politica è più importante aver fatto le battaglie che averle vinte”.
Il passato che avanza “L’elettorato di sinistra paradossalmente è più conservatore dell’elettorato di destra – spiega Noto – perché è molto meno propenso a guardare lontano”. Un esempio su tutti? Una eventuale leadership al femminile di Anna Falcone o Laura Boldrini non è da prendere in considerazione in termini di appeal.
La prima, che oggi in una conferenza stampa insieme a Tomaso Montanari presenterà “una proposta pubblica di percorso per costruire la sinistra di tutte e di tutti” secondo il sondaggista rappresenta per ora “una nicchia, una parte molto ristretta di elettorato”, mentre la presidente della Camera “non riscuote consensi particolari nonostante sia politicamente più giovane di un Bersani o di un D’Alema”.

Il Fatto 9.10.17
Scotto
“Non voleva che si votasse”

“Bisognava uscire dalla malattia del leaderismo. Il politicismo di questi mesi ci stava logorando e ha spinto molta gente ad andarsene. Abbiamo deciso per un progetto in cui militanti e cittadini sceglieranno nome e membri dell’assemblea costituente di una nuova forza della sinistra” dice Arturo Scotto dopo la rottura con Pisapia.
Perché l’ex sindaco non ci stava?
Non ho mai capito perché non volesse convocare l’assemblea. Qualcuno pensava che bastasse un comitato di saggi per stabilire le modalità con cui si selezionavano idee e gruppi dirigenti di questa nuova sinistra. Massimo rispetto, ma noi pensiamo che i più saggi siano i militanti non quattro persone in una stanza. Molti intorno a lui, vedi Tabacci, credono che alla fine il centrosinistra non si possa fare senza il Pd e senza il Pd di Renzi, che invece va battuto nelle urne. Il vincolo è la difesa del popolo che ha sofferto i tagli alla sanità e il jobs act. Basta guardare al disastro dell’Ilva. È il progetto di una sinistra autonoma dal Pd e da quello che ha fatto in questi anni.
Mdp candida Speranza per la leadership?
La leadership uscirà dall’assemblea – che sarà aperta a tutti – e potrebbe anche essere duale, magari con una donna e un uomo. Io credo come Speranza che sia il tempo di una nuova generazione che si carichi il destino della sinistra e non sia ferma all’idea di una leadership maschile e intesa come esercizio del potere.
Siete al 3% come dice Pisapia?
Le percentuali elettorali le decidono gli elettori, non le percentuali di titoli di giornale che si conquistano.

Repubblica 9.10.17
Il Pd ha 10 anni ma ne dimostra molti di più
Con Renzi alla guida c’è stato un netto calo nella partecipazione dei votanti alle primarie La crescente personalizzazione ha segnato il passaggio al PdR
di Ilvo Diamanti

IL PARTITO democratico compie (quasi) dieci anni. Il 14 ottobre del 2007 si svolgevano, infatti, le primarie per l’elezione dell’Assemblea costituente. E del segretario. Le primarie rappresentano, dunque, il “rito fondativo” del Pd, per citare la formula coniata da Arturo Parisi. Insieme a Prodi, il sostenitore più determinato — e determinante — del passaggio dall’Ulivo dei partiti al partito dell’Ulivo. Un soggetto politico unitario del centrosinistra (senza trattino) capace di aggregare i principali partiti che avevano accompagnato la storia della Prima Repubblica: Dc e Pci. Per allargarne i confini. Da allora, molto tempo è passato e molte cose sono cambiate. Mi limito a indicarne due. La “scissione” recente delle componenti — e di alcuni leader — di sinistra, che ne ha mutato l’identità originaria. E la progressiva personalizzazione, che ha segnato il passaggio da Pd a PdR. Tanto più dopo le primarie (stra)vinte da Matteo Renzi, lo scorso fine aprile.
C’È PERÒ un aspetto, meno dibattuto, che vale la pena di analizzare. Perché, a mio avviso, ha contribuito e contribuirà a modificare ulteriormente l’identità del PD. Ma, soprattutto, la sua capacità di interpretare un progetto. Di agire da “spina dorsale di un sistema malato”, come ha scritto di recente, su queste pagine, Ezio Mauro. Mi riferisco alla struttura sociale della base attiva. Coinvolta nelle Primarie. Riguarda, soprattutto il profilo dell’età. Infatti, il PD compie 10 anni, ma, in realtà, ne (di)mostra molti di più.
È invecchiato, soprattutto negli ultimi anni. Un aspetto significativo, che va tenuto sotto osservazione. Da chi si riconosce nel PD. Ma non solo. Anche se, considerando le intenzioni di voto “politico”, emergono indicazioni più articolate. Il PD (Demos, settembre 2017) ottiene, infatti, consensi molto maggiori rispetto alla media fra gli “anziani” (con oltre 65 anni). Ma anche fra i più “giovani” (sotto i 30 anni). Presso i quali il PD “compete” con il M5s. Che, invece, cala sensibilmente fra gli “anziani”. PD e M5s, secondo i sondaggi, risulterebbero i partiti più “votati”, in questa fase.
È significativo che entrambi si affidino alle primarie, per selezionare i propri candidati. E, nel caso del M5s, per scegliere il leader. Naturalmente, interpretano due modelli diversi. Anzi: alternativi. Come rivelano i metodi utilizzati per le Primarie. Online, in-rete, nel caso del Movimento 5 Stelle. Un non-partito anti-partito, che tende a distanziarsi dagli altri. Anche nelle forme di partecipazione. Dall’altro lato, il PD. Erede dei partiti di massa.
Che, per questo, adotta metodi di partecipazione più tradizionali. Le Primarie costituiscono il tentativo di superare il passato. Adottando il modello utilizzato negli USA. Non per caso, per il PD, viene evocata la “via americana”. Con la differenza, decisiva, che in Italia le (sue) Primarie avvengono nel solco dei partiti storici, che facevano della partecipazione un metodo di radicamento sul territorio.
Per questo è particolarmente interessante osservare come sia cambiata la partecipazione nel corso del tempo. Dal 2007 ad oggi, nel 2017. Anzitutto dal punto di vista della base coinvolta. Che si riduce progressivamente. In modo molto rilevante. Da oltre 3milioni e 550mila elettori (militanti), nel 2007 (quando si afferma Veltroni), si scende, infatti, a 3 milioni e 100mila, nel 2009 (affermazione di Bersani). Nel 2013 l’affluenza si ridimensiona ancora: 2 milioni e 800mila. Quest’anno, infine, scivola di circa un milione. E si attesta intorno a 1 milione e 800 mila. È interessante osservare come il calo più sensibile, per non dire il crollo, della partecipazione avvenga con l’avvento di Matteo Renzi. L’innovatore. Anzi: il “rottamatore”. Il quale, lo scorso aprile, trionfa con il circa 70% dei voti. Eppure non riesce a frenare il disincanto politico, che consuma la passione verso i partiti. Ma soprattutto il PD. Perché il PD resta “l’ultimo partito”, come recita il titolo di un interessante saggio di Paolo Natale e Luciano Fasano, appena pubblicato (da Giappichelli). Insieme all’ampiezza, cambia, in modo significativo, anche la struttura della partecipazione. Soprattutto, riguardo all’età. Se ci limitiamo alle due ultime consultazioni, l’evoluzione appare evidente. I votanti più giovani (16-34 anni) scendono dal 19%, nel 2013, al 15% nel 2017. Ma, soprattutto, nelle Primarie, è la quota di elettori “anziani” (65 anni e oltre) a crescere in misura rilevante: dal 29% nel 2013, al 42% nel 2017. Mentre, per quel che riguarda il voto al PD alle elezioni politiche, dal 2007 al 2017 (stime Demos) l’incidenza delle classi di età più giovani (18-34 anni) e anziane (65 anni e oltre), appare costante. Rispettivamente, intorno al 23-24%, i giovani, e al 40%, gli anziani.
Questi dati suggeriscono come sia in atto un cambiamento sensibile nella base del PD. Sta invecchiando. In misura molto più rapida e sensibile rispetto alla popolazione — e all’elettorato nell’insieme. Ma se il partito riesce ancora a intercettare il voto dei più giovani, in misura perfino superiore alla media, non riesce, però, ad appassionarli. I “giovani- adulti” (30-40enni), d’altronde, sono sempre più attratti dal M5s. Così, alle Primarie, come abbiamo osservato alcuni mesi fa, si è recato un “popolo dai capelli grigi” (o con pochi capelli…). Affiancato e accompagnato, talora, dai figli (e dai nipoti…). E ciò proietta ombre inquietanti sul futuro. Perché è vero che la partecipazione attraverso i partiti è in declino.
Ma senza partecipazione i partiti non hanno speranza. Tanto più i partiti che hanno una storia radicata nella società e nel territorio. Come il PD. Per loro, oggi, la “rete” è utile, anzi necessaria. La televisione: inevitabile. Ma non possono bastare. Parallelamente, la “personalizzazione” procede senza sosta. Tanto più in tempi di “democrazia del pubblico”. Di “democrazia digitale”. Ma rischia di diventare deleteria. Trasformarsi in un “Partito personale”, nel “Partito del capo” (per citare le note definizioni di Calise e Bordignon), diventare PdR. Distaccarsi dalla società e dal territorio.
A dispetto dei propositi di rottamazione: significa “invecchiare”. Perdere il futuro.

Repubblica 9.10.17
Mdp-Pisapia, l’ora dell’addio “Partiamo”. “Rischiate il 3%” Divisioni nel partito di Bersani
A novembre la “costituente” tra demoprogressisti, Fratoianni e Civati Rosa di leader: Grasso, Speranza o Errani. L’ex segretario pd: porte aperte
Solo tre mesi insieme offerta del pd papabili per la leadership
di Giovanna Casadio

ROMA. Pierluigi Bersani dice che «le porte sono sempre aperte» e Giuliano Pisapia potrebbe ancora unirsi all’assemblea costituente della sinistra fissata per il 19 novembre. Ma lo strappo tra Mdp - il partito di Bersani e D’Alema - e Campo progressista, il movimento di Pisapia, è ormai consumato. Il divorzio avviene con un’intervista di Roberto Speranza, coordinatore di Mdp, al
Corriere della sera,
nella quale si annuncia che il progetto costituente a sinistra partirà con gazebo e assemblee. Senza aspettare Pisapia indicato in pratica con “temporeggiatore”, ritenuto ambiguo e filo Pd, tanto da aver creato una situazione «da soap opera». L’ex sindaco di Milano gli fa gli auguri: «Non c’è problema. Buon viaggio a Speranza, sono sicuro che ci ritroveremo in tante battaglie. Io continuo in quello che ho sempre detto, non credo nella necessità di un partitino del 3%, credo in un movimento molto più ampio, molto più largo e soprattutto capace di unire, non di dividere».
Sono passati poco più di tre mesi dalla piazza di Santi Apostoli convocata il 1° luglio per lanciare “Insieme”, seme del nuovo partito della sinistra con la guida di Pisapia. Ora, finisce in scambi di accuse e problemi di leadership. Per stamani alle 10 è stata convocata la riunione di Mdp. Sempre oggi alle 17 si incontrano i dirigenti di Campo progressista. A rischio c’è anche il gruppo parlamentare. Dei sessanta tra deputati e senatori demoprogressisti oltre venti sono di tendenza-Pisapia, gli altri ex dem sono bersaniani o dalemiani. «Intollerabile che abbiano deciso quattro uomini in una stanza, auspico un confronto democratico con meno testosterone e più ragione», si sfoga Giovanna Martelli, deputata mantovana di Campo progressista. E Ciccio Ferrara, braccio destro di Pisapia, lunga militanza in Sel, afferma di essere «dispiaciuto » per le strade che si dividono. «Amareggiato» è pure Massimo Paolucci, eurodeputato, dalemiano di ferro.
Però la distanza è diventata incolmabile. Campo progressista è convinto che l’accelerazione e lo strappo siano stati voluti da D’Alema, dopo che Pisapia gli aveva chiesto un passo di lato. I demoprogresisti sono certi che Pisapia stia flirtando con Renzi in vista di una futura coalizione soprattutto se passerà la nuova legge elettorale il cosiddetto Rosatellum. I renziani esultano, la sinistra dem è preoccupata. Lorenzo Guerini, coordinatore del Pd, parla di una proposta di programma da offrire alla sinistra di Pisapia.
Mdp punta a costruire un “quarto polo”. Il leader? Le ipotesi sono Piero Grasso, presidente del Senato, Vasco Errani (con cui giovedì scorso a Ravenna, durante un dibattito, Pisapia aveva ingaggiato uno scontro) e Speranza. Chi ne farà parte: Sinistra italiana di Fratoianni e Vendola, Possibile di Pippo Civati, il movimento diTomaso Montanari e Anna Falcone. Ma nella costituente della sinistra saranno invitate personalità che si sono già impegnate nei comitati per il no al referendum costituzionale di dicembre, come il presidente emerito della consulta Gustavo Zagrebelsky, lo scrittore Maurizio De Giovanni, Salvatore Settis, associazioni e settori del sindacato.
I demoprogressisti di rito bersanian-dalemiano stanno preparando una carta dei valori da votare nei gazebo del 19 novembre per eleggere i 1.500 delegati all’assemblea nazionale della sinistra.

Repubblica 9.10.17
Promesse e divorzio
Cento giorni di equivoci finiti a tweet in faccia
di Concetto Vecchio

ROMA. «Pisapia se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato», lo irride Enrico Rossi su Facebook, usando le stesse velenose parole che Palmiro Togliatti riservò a Elio Vittorini quando lo scrittore di Conversazione in Sicilia disse di non sentirsi più comunista. Non si sono mai capiti, Giuliano Pisapia e i bersaniani, in questa unione di convenienze inconciliabili, tra l’aspirazione dell’ex sindaco di Milano a creare una forza larga a sinistra - per poi allearsi con il Pd - e la necessità di Mdp di avere un leader, per andare poi contro il Pd. Cento giorni dopo il viaggio, iniziato il 1° luglio in piazza Santi Apostoli, tra la banda de “I sei ottavi” che suona “Io ci sto” di Rino Gaetano e la benedizione ai “cari compagni e care compagne” di Sabrina Ferrilli, è già finito. Pisapia ora si allontana da Roberto Speranza e dal suo «partitino del 3 per cento» e Gotor gli replica al curaro su Twitter: «Ricambio gli auguri di buon viaggio a Giuliano Pisapia rimanendo in speranzosa attesa del suo partitone».
Il nome del nuovo soggetto era una promessa d’amore: “Insieme”. Bersani posò paterno le mani sulle spalle di Pisapia, che aveva citato don Milani e disse: «Non faremo primarie, il leader c’è già: Giuliano». Ma che la rotta sarebbe stata più perigliosa del previsto si capì dal fatto che Pisapia, a differenza di D’Alema, non volle a bordo né Sinistra italiana né Tomaso Montanari. E fu la prima crepa. Poi il 21 luglio Pisapia andò alla Festa dell’Unità, abbracciò sul palco Maria Elena Boschi, disse «qua mi sono sempre sentito a casa mia». «Boschi non l’abbracciavamo prima non l’abbracciamo adesso», diede fuoco alle polveri il senatore bersaniano Federico Fornaro e la pioggia di riprovazione sui
social fu tale che Giuliano, piccatissimo, cancellò la riunione con Speranza già fissata a Roma qualche giorno dopo. Iniziarono giorni difficili. Poi il 3 agosto, prima del rompete le righe agostano, Pisapia e Speranza fecero pace annunciando «una grande assemblea democratica » per ottobre, per «fare un soggetto nuovo». Un nuovo partito, per Mdp, una cosa più leggera, per Campo progressista. Senza Renzi, per Mdp, con Renzi per Pisapia. Poteva mai durare?
Poi sorse un altro problema: Pisapia cominciò a soffrire il protagonismo di D’Alema. Si capì sulle candidature in Sicilia. D’Alema scelse Claudio Fava, mentre Pisapia puntò sul rettore Micari, il candidato dei renziani scovato da Leoluca Orlando. «Noi siamo coerenti, Pisapia speriamo», fu il giudizio sull’operazione dell’ex premier. Era il 2 settembre. Poi rilasciò un’intervista nella quale chiese più coraggio, ricordandogli il suo peccato d’origine di ex rifondarolo. Pisapia non la prese benissimo. E ai microfoni di Massimo Giannini su Radio Capital, definì D’Alema «divisivo», e gli chiese sic et simpliciter di fare «un passo di fianco». I dalemiani reagirono in massa. Erano ormai come quelle coppie che si tirano addosso i piatti.
Giunti al dunque del Def, ovvero sul terreno concreto delle scelte, Mdp votò no, Bruno Tabacci sì. Era il preannuncio di divorzio. A Ravenna, l’altra sera, Pisapia sigillò la serata della ennesima riconciliazione con un sardonico «il leader sei tu», rivolto a uno stupito Vasco Errani, uno dei capi della ditta, che alla fine lo rincorse nel parcheggio della festa dell’Unità in cerca di spiegazioni, e basta questa scena finale per sigillare i titoli di coda di un brutto film.

Il Fatto 9.10.17
Leader cercasi: il paradosso della democrazia di Pericle
Le elezioni politiche del 2018 si configurano come una festa per gli elettori, chiamati a scegliere per chi votare. Per cosa stiano effettivamente votando è, al solito, nebuloso, irrilevante e pure un po’ noioso
di Mirko Canevaro

Avanza l’allucinante Rosatellum-bis alla Camera, ostinatamente senza preferenze, senza premi di maggioranza, e senza identificazione automatica del leader di coalizione. Non importa: politici e commentatori, incuranti, continuano a spiegarci che democrazia è scegliere chi comanda. La cronaca politica è un’accozzaglia di leader lanciati, abbattuti e spompati, di primarie (online o meno), di scontri di personalità – primarie Pd qualche mese fa, primarie M5S or ora, “Salvini premier” a Pontida, per non parlare della sinistra, tra Pisapia, Bersani, D’Alema, ora persino Grasso, e le “popolarie” di Civati. Rosatellum bis o no, le elezioni politiche del 2018 si configurano come un’altra festa democratica in cui gli elettori sono chiamati a scegliere, democraticamente, per chi votare. Per cosa stiano effettivamente votando è, al solito, nebuloso, irrilevante e pure un po’ noioso.
È certo un paradosso che in democrazia, dove il potere dovrebbe essere del popolo, la dialettica politica sia così appiattita sulla scelta di chi debba comandare. Che sia un problema moderno? In una democrazia rappresentativa, il compito più immediato del popolo sovrano è scegliere i propri rappresentanti. Ma scavando un poco, si scopre che il paradosso è più profondo, e più antico. Non è un caso che la democrazia più romanticamente identificata come prototipica, quella ateniese, sia ricordata attraverso il nome del suo leader: la “democrazia periclea”.
Quello stesso momento fondativo della tradizione democratica che gli storici moderni amano chiamare “democrazia radicale”, è caratterizzato dal dominio e dall’azione pervasiva di un uomo solo – Pericle – capace di porsi al comando del demos. Non è una prospettiva moderna, ma la diagnosi dell’Atene del V secolo a. C. che offre il grande storico Tucidide: “Di nome democrazia, ma di fatto governo del primo cittadino”.
Questo paradosso – la complessa relazione tra individuo e istituzioni democratiche, e l’importanza relativa del “grand’uomo” e del popolo nel determinare le sorti di una democrazia – sono al centro della bella biografia di Pericle pubblicata da Vincent Azoulay. È uno studio sofisticato non certo della vita del politico o della sua democrazia, ma piuttosto di Pericle nella democrazia. Azoulay sceglie di problematizzare l’influenza di Pericle sulle scelte del demos e di evidenziare i limiti imposti all’azione del singolo da un contesto istituzionale, sociale e culturale che ingigantiva l’influenza della collettività su ogni scelta politica: controllare capillarmente (e revocare) ogni forma di potere individuale e, di conseguenza, prevenire l’emergere di forme di autorità che non dipendessero da una relazione – precaria, continua, ossessiva – col popolo, basata su persuasione e negoziazione.
In una bella pagina, Azoulay riassume questa problematica relazione attraverso l’analisi di un aneddoto trasmessoci da Plutarco: di fronte all’accusa in assemblea che il programma edilizio da lui incoraggiato (e che ci ha dato l’Acropoli e il Partenone) sperperasse i soldi del demos, Pericle offrì provocatoriamente di sobbarcarsi interamente le spese, a condizione che la dedica del complesso monumentale fosse a suo nome, e non a nome degli ateniesi.
La provocazione riuscì: il popolo finanziò l’opera, e il risultato è ancora oggi visibile a imperitura gloria della democrazia ateniese. L’immagine che emerge è di un’autorità reale ma precaria, continuamente in pericolo, rinnovata attraverso la persuasione, e in ultima analisi dipendente dal popolo. Un’autorità nel demos che non poteva tradursi in potere sul demos.
C’è un altro elemento paradossale nella rappresentazione tucididea (abbracciata e propagata dalla tradizione) della posizione di Pericle nella democrazia: una contrapposizione netta e semplicistica tra il leader che parla, informa, comanda, e il popolo che ascolta, approva e obbedisce. Come se il popolo fosse null’altro che una massa indefinita che fa da contraltare, passivamente, al potere del “grand’uomo”. Per Tucidide il dibattito assembleare, la scelta politica, si riduce al solo discorso del singolo (demagogo) che persuade il popolo, o al limite all’agone tra due contendenti, di cui il popolo è ascoltatore e arbitro. Ma, tra le crepe del testo tucidideo, emerge una realtà più complessa, e più interessante. Tucidide riduce le deliberazioni assembleari a uno o due discorsi apparentemente decisivi, e tuttavia (suo malgrado) osserva: “E molti vennero avanti e parlarono, esprimendo i loro pareri sia dall’una sia dall’altra parte”. L’immagine è quella di un demos politicamente attivo, in cui quella di Pericle, per quanto incisiva, è una voce tra tante.
La scelta di rappresentare la democrazia come il luogo del potere e della parola dei leader, da parte di Tucidide, non è dunque neutra o inevitabile. È una scelta invece consapevole, e in ultima analisi antidemocratica – è figlia di uno scetticismo verso la capacità del popolo di farsi avanti e autogovernarsi. Mutatis mutandis, la nostra ossessione pseudo-democratica per la scelta dei leader è anch’essa egualmente ostile al principio democratico della sovranità del popolo. Nell’era della sfiducia per il potere politico tradizionalmente inteso e organizzato, se un nuovo slancio democratico si può davvero realizzare, non può e non deve concentrarsi sul chi, ma solo e rigorosamente sul cosa.

Repubblica 9.10.17
L’intervista.
Il leader di Campo progressista: “Vivo giornate dolorose, soffro per gli strappi”. “Mi scrivono: resisti, tornerà l’arcobaleno di Milano”
“Loro hanno cambiato strada io farò una sinistra di governo Gentiloni? Profilo altissimo”
di Stefano Cappellini Tommaso Ciriaco

ROMA. Giuliano Pisapia, ormai Bersani, Errani e Speranza dicono apertamente che lei sia immobile. Che possono andare avanti anche senza di lei. Che è protagonista di una sorta di soap opera. Anche lei è pronto ad andar avanti senza di loro?
«Per fare chiarezza usiamo la moviola: Campo Progressista è nato perché l’offerta politica del centrosinistra non bastava più. La sinistra e il centrosinistra hanno perso negli ultimi anni oltre 3 milioni di elettori. Demos ci dice che solo il 6 % degli italiani ha fiducia nei partiti, eppure secondo l’Istat sono 7 milioni gli italiani che fanno volontariato. Significa che la passione, la voglia di impegnarsi, aumentano, ma non trovano più uno sbocco. Campo progressista è nato per dare una “casa” a queste persone, per aprire la partecipazione politica, non per fare un nuovo piccolo raggruppamento o per chiudersi ancora di più. Io non ho cambiato idea. Continuo a pensare che ci sia bisogno di un nuovo centrosinistra aperto, ampio, innovativo in discontinuità con quello degli ultimi anni».
Mdp ha già deciso di costruire un partito: anche secondo lei il loro primo obiettivo è far perdere il Pd? Questo come si concilia con il suo progetto di unire?
«Il nostro obiettivo resta battere le destre e il populismo per dare risposte serie e concrete ai bisogni dei cittadini, dalla lotta alla povertà ai diritti. Credo che in Mdp ci sia una divisione profonda tra chi ha questo nostro stesso obiettivo e chi invece vuole un quarto polo che rischia di essere irrilevante e che finirebbe per essere mera testimonianza, capace di criticare ma non di dare risposte ai cittadini».
Dicono che il 19 novembre si farà l’assemblea, con o senza di lei. L’hanno scavalcata, o addirittura esautorata?
«Mi pare che parte di Mdp si sia allontanata dal progetto iniziale. Che era e resta quello di costruire una forza aperta e ragionevole. Una forza di sinistra deve avere l’ambizione di migliorare le condizioni di vita delle persone, non di abbaiare alla luna. Questo è il nostro progetto. A giocare per perdere sono già in tanti, non occorre il nostro contributo. Ricordo che a Milano prima abbiamo battuto la destra e poi abbiamo impedito che tornasse, mentre i 5 Stelle sono rimasti del tutto ininfluenti».
Errani ha detto che D’Alema è una risorsa. Lei invece ha cambiato idea o pensa che un passo di lato di D’Alema sia necessario?
«Non ne posso più di questo balletto dei nomi, usciamo dal personalismo. Mi dicono: o stai con D’Alema o stai con Renzi. Per chiarezza: non sono io a decidere il futuro politico di D’Alema e non sono la stampella di nessuno, ma mi rivolgo anche all’elettorato che in passato ha votato Pd e che è parte integrante del grande popolo del centrosinistra. Se il Pd fosse stato davvero autosufficiente, non ci sarebbe stato bisogno di far nascere Campo progressista. E io penso solo che c’è bisogno di un grande, responsabile, generoso impegno da parte di tutti per contribuire a cambiare le politiche e creare le condizioni per rilanciare l’economia e superare le disuguaglianze. E su questo siamo tutti d’accordo in Campo Progressista. Guardi che dall’altra parte c’è solo una cosa: la sconfitta del centrosinistra e della sinistra, e chissà per quanto tempo».
Precisamente, allora, su cosa non siete d’accordo?
«È necessario condividere sia il punto di partenza che quello di arrivo, iniziando dai contenuti. E credo che la vera distanza sia sulle prospettive. Rispetto, ma non condivido, la posizione di chi crede, e dice, che il centrosinistra è morto e non deve rinascere. Chiedo rispetto per chi, come Campo Progressista, è convinto che solo un nuovo centrosinistra e una sinistra di governo siano in grado di dare una svolta positiva al Paese. Da mesi chiediamo a Mdp di chiarire la loro posizione, perché è del tutto evidente, ed è emerso in più occasioni, che al loro interno ci sia una divisione profonda».
Renzi ha aperto all’unità, anche se con il Rosatellum. È sempre ostile alla legge o pensa che si possa migliorare?
«Il Rosatellum 2 ha troppi difetti “tecnici” che diventano politici. Pluricandidature, la gran parte dei parlamentari nominati dai partiti e non scelti dai cittadini, mancanza di voto disgiunto e di un programma comune. E, l’ho detto in momenti non sospetti, è addirittura peggiorativo delle proposte precedenti dello stesso Pd».
E se comunque alla fine dovesse passare il Rosatellum, non sarebbe obbligata un’intesa di centrosinistra per non far vincere i populisti?
«Programma, contenuti, valori. L’ho ripetuto più volte: ogni discussione deve partire da un nuovo programma, nuovo anche nel senso di diverso da quello degli ultimi anni».
Pensa che un candidato premier diverso da Renzi favorirebbe un’alleanza col Pd?
«Gentiloni è una persona di altissimo livello, ma anche lui sa che qualunque valutazione futura non può prescindere da una vera e propria discontinuità rispetto al passato e da un programma condiviso che vada nella direzione di aiutare chi più ha sofferto la crisi, di tutelare l’ambiente, di una nuova politica sulla casa, di garantire il diritto alla salute e di tanto altro. So che non è facile governare, soprattutto in un periodo di crisi, in Italia e in Europa. Ma sono anche consapevole che, proprio per questo, bisogna essere concreti».
Lei ha minacciato anche un passo indietro. Ci pensa davvero, oppure a questo punto anche solo per rispetto delle idee e di chi ha mobilitato sente di dover comunque andare fino in fondo?
«Questo per me è un momento molto doloroso. Si sono consumati strappi che mi hanno provocato una vera sofferenza. E sento forte il peso della passione che tante persone, soprattutto giovani che si sono appena avvicinati alla politica, hanno messo in questo progetto. Ci proverò fino alla fine per loro. Alcuni ragazzi ieri mi hanno scritto: tieni duro, alla fine succederà come a Milano, in cielo comparirà un doppio arcobaleno ».
Lei si è confrontato con Prodi, Letta, Franceschini, Orlando: sono loro i soggetti con i quali costruire il nuovo Ulivo, soprattutto se le regionali siciliane dovessero cambiare gli equilibri interni al Pd?
«A Barcellona stanno innalzando cartelli che dicono “parlem”, parliamo. In Spagna scandivano “recuperiamo il buon senso”. La ricetta è quella, parlare, sfiancarsi alla ricerca di soluzioni accettabili, cercare mediazioni alte e nobili, ma non sui princìpi e sui valori. Credo che la pazienza sia la virtù dei forti».
Sulla manovra Mdp ha di fatto annunciato voto contrario. Condivide o con i giusti correttivi la legge va approvata?
«Al premier abbiamo fatto, insieme a Mdp, richieste precise. Tra cui l’eliminazione, anche graduale, dei superticket sanitari. Spero che il governo ascolti, lo spero per i cittadini del nostro Paese».

La Stampa 9.10.17
Rosatellum, sondaggisti freddi:
non garantisce la governabilità
Emg: “Anche a chi arriva primo mancano 60 seggi per la maggioranza”
di Alessandro Di Matteo

Alla Camera può contare su una maggioranza ampia - almeno sulla carta, perché dovrà superare la prova dei franchi tiratori - ma tra i sondaggisti e gli esperti di leggi elettorali il “Rosatellum” proprio non fa breccia. La nuova legge elettorale che si cerca di approvare in extremis non piace a M5s, Fdi e Mdp, ma nemmeno agli esperti di numeri e di sistemi di voto: cambierà poco o niente, sostengono un po’ tutti, quasi certamente non consentirà ai cittadini di indicare un governo e una maggioranza e, probabilmente, non sarà nemmeno in grado di favorire quel governo di larghe intese Pd-Fi come denunciano 5 stelle e Mdp.
«Per ora abbiamo fatto solo macrovalutazioni - premette Fabrizio Masia di Emg - ma la sensazione, in base alle intenzioni di voto di oggi, è che siamo ancora abbastanza lontani dal pensare che si possa partorire una maggioranza di governo». I numeri, ricorda Masia, fotografano un Paese diviso in tre, «con il centrodestra vicino al 35%, il Pd al 27%-28%, come anche più o meno i 5 stelle». È vero, ammette, il meccanismo dei collegi uninominali può «penalizzare M5s, è realistico pensare che prendano molto meno di un terzo dei 232 collegi». Ma, nonostante ciò, «per vincere bisogna superare il 40% e andare molto bene nei collegi uninominali. Con i numeri di oggi, direi che anche a chi arriva primo mancheranno 50-60 seggi per avere una maggioranza».
Ma questo non vuol dire che siano più facili le larghe intese: «Dal punto di vista aritmetico è possibile che Pd, Fi e centristi ottengano qualche seggio in più. Ma siamo sicuri che per Berlusconi sarebbe così facile lasciare Salvini e Fdi? Dal punto di vista del rispetto della volontà popolare sarebbe un’operazione ardimentosa».
Roberto D’Alimonte, politologo ed esperto di leggi elettorali, è drastico: «Il problema vero è il governo del Paese e questa legge elettorale non lo risolve: Pd e Fi non avranno la maggioranza assoluta dei seggi. Di pancia direi che non fa una grande differenza». Per D’Alimonte, peraltro, le larghe intese sono l’unica vera possibilità di dare un governo al Paese: «Non perché lo vogliano Renzi e Berlusconi, ma perché è nelle cose: do lo zero per cento di possibilità a un governo di centrosinistra e a un governo Pd-M5s o Fi-M5s. Lascio un 10% di possibilità a un governo M5s e Lega e un 20% a un governo di centrodestra». Dunque, larghe intese. Il problema, però, è che anche questa formula potrebbe non avere i numeri: «Il vero rebus, oggi, è se Berlusconi riuscirà a convincere Salvini ad andare al governo con lui e il Pd, perché i voti della Lega potrebbero essere decisivi. E sarà interessante capire cosa accadrà nella Lega a quel punto. La sintesi è: un gran casino. Non è molto scientifico, ma è così».
Anche Roberto Weber di Ixè non crede che la nuova legge aiuti a costruire una maggioranza: «Mi chiedevo le motivazioni che spingono questa legge elettorale... La prima, più corriva, più banale, è che questo insieme di forze che sceglie questa cosa - che non produce una governabilità - lo fa perché mette in difficoltà i 5 stelle». Questo però non aiuta a formare un governo: «Il centrodestra ha un vantaggio che gli deriva dalla dimensione coalizionale più forte. E dopo il voto sarà difficile smontare quella coalizione» per fare le larghe intese. «Mi resta allora un retropensiero: la verità è che ognuno blinda i propri candidati. La polemica sui nominati è una sciocchezza, anche in Germania funziona così. Ma qui i collegi sono troppo ampi».
Per Nicola Piepoli, poi, quello che conta è la politica: «Se uno vuole governare troverà sempre la maniera, ricordiamo Andreotti». Certo, il Rosatellum può avvantaggiare un po’ le larghe intese «ma non è detto che cambino le carte in tavola. Il punto è l’intenzione di governare insieme. Una cosa che aveva Andreotti, che aveva Berlinguer. Chi vuole vincere si allea, chi non vuole fa come faceva Rifondazione, che faceva cadere il governo Prodi».

La Stampa 9.10.17
Un “canguro” per provare a evitare il voto con la fiducia
di Carlo Bertini

La fiducia sulla legge elettorale è sul tavolo, ma tutto sarà deciso all’ultimo momento: la difficile scelta, in grado di azzerare i novanta e passa voti segreti sul Rosatellum, potrebbe essere oggetto di valutazioni in un consiglio dei ministri non ancora convocato. Ma fino a martedì all’ora di pranzo non sarà sciolta la riserva. La corrida dei voti avrà inizio domani alle 14 e aprirà la settimana di maggior pathos per un migliaio di parlamentari ansiosi di sapere che fine faranno: la legge elettorale entra di nuovo nell’aula della Camera, ma rischia di finire impallinata al primo stormir di fronde sotto il tiro di decine di franchi tiratori.
Ecco perché il Pd sta disponendo la contraerea per provare a non porre la questione di fiducia: soluzione che entusiasma poco i vertici del partito e che comporta un azzardo per il governo, visto che il voto finale sulla legge resterebbe a scrutinio segreto. Ebbene, la contromisura già pronta è una sorta di «canguro», ovvero un emendamento preclusivo di tutti gli altri in una data materia. Che eviti in sostanza tutte le votazioni sui punti controversi. Un solo voto contrario a scrutinio palese che faccia saltare a piè pari tutti gli altri ostacoli. Il primo è quello delle preferenze, gradite a tutti quelli che ritengono di avere consenso nei territori. Su questo tema gli uffici sono al lavoro: un «preclusivo» anti-preferenze, muovendosi tra le pieghe del regolamento, pare sia già pronto. Ma sono pure attesi tutti gli emendamenti che verranno presentati entro le 14 di oggi. Gli altri due punti delicati infatti sono il voto disgiunto e le soglie: sul primo, ovvero la possibilità di votare ad esempio un candidato Pd nel collegio e la lista Mdp (per dare più chances ai partiti non coalizzati) si concentrano le attenzioni delle opposizioni, grillini compresi. Mentre sulle soglie, ovvero la possibilità di abbassarle, si giocano le speranze dei piccoli. Ma i contraenti del patto su cui si regge il «rosatellum», il sistema un terzo maggioritario e due terzi proporzionale, hanno stabilito che se cadesse uno degli architravi verrebbe fatta cadere tutta la legge. Quindi si proverà a disarmare i franchi tiratori con tutti i mezzi. Extrema ratio, la fiducia.

Il Fatto 9.10.17
Aulla, la linea sottile tra buoni e cattivi
La caserma degli orrori - Il sindaco-avvocato difende un terzo dei carabinieri indagati
di Ferruccio Sansa

“Il comandante è cambiato. Tutti gli uomini tranne uno sono nuovi”. Ti accolgono così nella stazione dei carabinieri di Aulla. Sì, ti sembra quasi che lo scandalo dei carabinieri accusati di minacce, pestaggi, addirittura violenze sessuali sia alle spalle. Ma non è così facile, il male era profondo. Lo capisci scorrendo le carte dei pm che riguardano Valerio Liberatori, l’ex comandante provinciale di Massa, e altri ufficiali e militari in servizio in tutta la Lunigiana. Sono accusati di favoreggiamento degli indagati.
No, Aulla e la Lunigiana sotto la superficie sono sempre le stesse. E non bastano operazioni di facciata. I potentati hanno radici molto profonde in questa terra dove è nato Denis Verdini. Dove sono cominciate le fortune politiche di Sandro Bondi e Lucio Barani. Ma la Lunigiana è soprattutto il feudo della famiglia Ferri. Tutti assolutamente estranei all’inchiesta dei carabinieri. Ma, qui, forse più che altrove, il confine tra prima e seconda Repubblica è invisibile. Sinistra e destra sembrano non esistere o andare a braccetto. Mentre chi rappresenta le istituzioni è anche il difensore in tribunale dei carabinieri accusati.
Tutti sembrano uniti da vincoli di amicizia. E non soltanto perché ci si incontra in quella piazza che già nel nome tradisce l’anomalia: metà è intitolata ad Antonio Gramsci e metà a Bettino Craxi.
Già, si può partire da qui, dal centro di Aulla, cittadina partigiana, distrutta nella seconda guerra mondiale e ricostruita con palazzi e strade tracciati con il righello. A pochi passi c’è lo studio legale di Roberto Valettini, il neo sindaco Pd di Aulla. Un avvocato stimato, un uomo cortese. Un terzo dei carabinieri indagati sono clienti suoi o del suo collega di studio. “Non c’è nessuna incompatibilità, ho sottoposto anche la questione all’Ordine degli avvocati”, esordisce lui secco, poi subito recupera la cortesia, “avevo assunto l’incarico prima di essere eletto. Non potevo lasciarli”. Qualcuno ha storto il naso, perché quella caserma – se le accuse fossero confermate – avrebbe portato l’illegalità ad Aulla. Avrebbe minacciato dei cittadini. “Non mi farò pagare”, aggiunge Valettini. Ancora più singolare, dicono i critici. Così come qualcuno, vedi Legambiente, non ha trovato opportuno che Valettini – in passato anche presidente del comitato che raccoglieva molte vittime dell’alluvione 2011 – sia stato difensore di un ex assessore imputato nel processo per il disastro che devastò Aulla e provocò morti. “Ho dismesso gli incarichi”, sbuffa il sindaco. Al collega che lavora nello stesso studio. Non nasconde nulla Valettini, nemmeno che anche Barani sia stato un suo assistito oppure che “Enrico Ferri sia il mio testimone di nozze”. Sì, il ministro dei 110 all’ora, all’epoca Psdi, poi Forza Italia, infine Udeur. Tre figli: Cosimo è sottosegretario alla Giustizia. Filippo era un pezzo grosso della polizia ed è stato condannato nei processi per il G8. Jacopo è stato consigliere regionale in Toscana e oggi è consigliere del comune di Pontremoli.
C’è un filo che lega tutti da queste parti. E non è la bandiera politica. Barani era socialista e ora lo ritrovi nel centrodestra. Sandro Bondi invece viene da Fivizzano, paese inerpicato ai piedi delle Apuane, dove i vicoli si aprono in una splendida piazza medicea. Qui Bondi è stato sindaco del Pci, prima di passare al centrodestra. Come Barani. Come Verdini che è pure nato qui (anche se è andato via da piccolo). Adesso ecco molti di quei volti stretti accanto ai carabinieri. Mesi fa una manifestazione sorprendente: centinaia di persone a raccogliere firme in difesa degli indagati. Era planato anche Maurizio Gasparri. Barani ha detto: “Quello che è successo ad Aulla accade in tutte le caserme d’Italia. Ed è giusto così, i militari mica sono Maria Goretti”. Chissà se davvero accade in tutte le caserme d’Italia che si urli che i “negri devono mangiare banane”. Che gli si infilino dita nel sedere e pistole in bocca.
Il maresciallo è cambiato, ma a leggere le carte non sembra sufficiente per ridare credibilità ai Carabinieri in Lunigiana. E in tanti continuano a difenderli.

Repubblica 9.10.17
L’esorcismo di massa contro i migranti islamici
Polonia, un milione di fedeli ai confini con il rosario in mano Quattromila aree di preghiera: “Così combattiamo il Male”
di Andrea Tarquini

OLTRE un milione di fedeli, anziani e giovani, gente di campagna e abitanti delle grandi città, si sono riuniti in preghiera questo sabato col rosario lungo tutti i tremilacinquecento chilometri dei confini della Polonia. «Preghiamo per la pace, e per salvare la Patria e il resto d’Europa dalla secolarizzazione e soprattutto dall’islamizzazione », hanno detto. E questo nel giorno della vergine del Rosario, ma soprattutto nella ricorrenza dell’anniversario della battaglia navale di Lepanto, dove nel 1571 «la flotta cattolica sconfisse la ben più potente flotta musulmana ». Il più grande e importante Paese del centroest, membro di Ue e Nato, è stato teatro della più massiccia mobilitazione contro l’immigrazione in Europa di Paesi non cristiani, sebbene la Polonia sia fuori dalle rotte della grande migrazione, non ospiti migranti musulmani e rifiuti ogni ricollocamento Ue.
Oltre trecentoventi chiese sabato erano stracolme di partecipanti all’iniziativa, svoltasi in almeno quattromila “zone di preghiera” lungo la frontiera. Persino allo “Chopin international”, il maggior aeroporto di Varsavia, la folla era tanta che la cappella dell’aerostazione non è bastata ad accoglierla. Al largo di Danzica pescherecci e piccoli yacht hanno formato corone unendosi all’azione. «Il rosario è un’arma potente contro il Male», ha detto padre Pawel Rytel-Andrianik, portavoce della Conferenza episcopale polacca, che ha organizzato l’enorme raduno nazionale, il maggiore evento cattolico in Polonia dalle Giornate mondiali della gioventù.
Diverse aziende statali hanno sponsorizzato l’azione, e il PiS (Prawo i Sprawiedlywosc, il partito nazional-conservatore di maggioranza assoluta il cui potente leader storico Jaroslaw Kaczynski è vicinissimo al popolare premier magiaro Viktor Orbán) l’ha appoggiata con tutta la sua organizzazione. L’influente emittente radio integralista Radio Maryja e il suo canale tv, che di solito censurano Papa Francesco quando parla di riforme della Chiesa e solidarietà coi migranti, hanno fornito la diretta integrale.
«Preghiamo perché l’Europa ha bisogno di restare cristiana per salvare la sua cultura», ha detto l’arcivescovo di Cracovia, Marek Jedroszewski. Messaggio, un chiaro no all’ondata di migranti nell’Unione. Secondo un cittadino di Danzica intervistato dal New York Times, «nei secoli passati gli ottomani ci combattevano, oggi ci minaccia l’Islam, che porta terrorismo e nemici della nostra fede».
Star dello sport, vip della tv e dello spettacolo, hanno proclamato la loro adesione all’iniziativa. Nessuno, negli ambienti episcopali polacchi risulta abbia fatto notare che il messaggio del raduno anti-islamizzazione non è conforme all’insegnamento del Santo Padre. Critica, ma poco ascoltata, l’opposizione secondo cui «è spirito retrogrado».
Fonti diplomatiche occidentali notano: «La Polonia ha accolto 1,2 milioni di ucraini in fuga dalla guerra, manodopera low cost, ma nessun profugo musulmano. Il triste ricordo è l’antisemitismo senza ebrei in casa, che fu arma di propaganda del leader bolscevico- nazionalista Mieczyslaw Moczar dopo la dura repressione dei moti studenteschi democratici del marzo 1968».

Il Fatto 9.10.17
Catalogna, a farne una provincia fu lo statista Augusto
di Orazio Licandro

Dopo l’anomalo referendum di Catalogna e i disordini e le proteste di piazza conseguenti, media e opinione pubblica internazionale hanno parlato di più Spagne, evocando una secessione già di fatto avvenuta. Andando indietro nel tempo e giungendo ad Augusto, i documenti attestano non solo le dure campagne militari che gli eserciti romani condussero sotto il comando dello stesso principe e del suo generale più fidato, Agrippa, per domare le diverse e irriducibili tribù iberiche, ma anche la sistemazione amministrativa data ai territori spagnoli. Lo storiografo e geografo Strabone (Geografia 3.4), nel libro dedicato all’Iberia, spiega la struttura imperiale del governo provinciale romano e le riforme introdotte da Augusto. Le province iberiche nel loro assetto definitivo furono tre: a sud, la Hispania Baetica (dal nome del fiume Baetis oggi Guadalquivir) con capitale Cordova; a nord e a est, la Hispania Tarraconensis, dal nome della capitale Tarraco); a ovest, la Hispania Lusitania (attuale Portogallo) con capitale Mérida. Dunque, ben prima della Catalogna, il cui termine da etimologia e origini incerte, compare nei secoli medievali e mai intesa come regno né mai davvero come espressione di un popolo bensì di raggruppamento di contee, l’area in questione era stata ricompresa e organizzata da Augusto, vero grande statista, in una provincia a sé (appunto la Tarraconensis). Ora, in un quadro internazionale europeo, dinanzi all’aspro dibattito tra ultras europeisti e sovranisti, che senso e che prospettive avrebbe il nuovo staterello di Catalogna? Una Spagna destrutturata e destabilizzata – direbbero i romani – cui prodest?

Il Fatto 9.10.17
Sfila la Catalogna unionista. “Ora recuperiamo il senno”
A Barcellona decine di migliaia di persone contro l’indipendenza Rajoy: “Non siete soli”. Domani Puigdemont va in Parlamento

Saranno anche una “maggioranza silenziosa”, ma ieri si sono fatti sentire. Dietro lo slogan “Siamo spagnoli e catalani”, un immenso fiume umano ha invaso pacificamente le strade di Barcellona per ritrovare il “senno” perduto e richiamare il paese all’unione. Convocate dalla Societat Civil Catalana, decine di migliaia di persone si sono radunate in piazza Urquinaona già molto prima dell’inizio della manifestazione, prevista per mezzogiorno, e da lì hanno proseguito per la via Laietana e si sono poi fermate nell’avenida Marquéz de Argentera, davanti alla stazione di Francia. “Basta! Recuperemos la sensatez” (“Basta! Recuperiamo il senno”) era lo slogan della giornata, anche se non sono mancati attacchi al presidente catalano (“Puigdemont in prigione”) e al capo dei Mossos (“Trapero traditore”). Gli organizzatori hanno parlato di un milione di persone, 350 mila secondo la polizia catalana, ma in ogni caso secondo Tv3 si è trattato della più grande manifestazione unionista mai svoltasi a Barcellona. Incassato il sostegno dei tre partiti unionisti – popolari, socialisti e Ciudadanos –, in prima fila c’erano il prefetto spagnolo in Catalogna Enric Millo, il ministro della Sanità di Madrid Dolors Montserrat, l’ex presidente spagnolo dell’Europarlamento Josep Borell e il Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa, che si è pronunciato più volte contro l’indipendenza: “La passione può essere pericolosa quando la muovono fanatismo e razzismo. La peggiore di tutte è la passione nazionalista – ha detto –. Un’immensa massa di catalani non accetta di vedersi imposto un golpe e scende in strada per la legalità e per la libertà”. La manifestazione, giunta 24 ore dopo quella di Madrid ma anche dopo quella indipendentista della stessa Barcellona, ha naturalmente incassato il sostegno di Mariano Rajoy, che già in un’intervista a El Paìs aveva sostenuto: “L’unità della Spagna non è negoziabile. Fino a quando non si tornerà alla legalità, ovviamente non negozierò” e che ieri in un tweet ha ribadito: “Non siete soli”.
Ulteriore segnale, semmai ce ne fosse bisogno, che le acque non sono affatto calme e che la settimana che inizia sarà tesa. Domani il presidente Puigdemont pronuncerà nel Parlament un discorso sulla “situazione politica attuale” con la dichiarazione d’indipendenza sul tavolo: “Applicherò la legge”. Che il tempo stringa e che una catastrofe economica oltreché politica possa essere difficile da evitare, lo conferma l’esodo delle imprese catalane da Barcellona, che non sembra arrestarsi. Sabato, a sorpresa, Agbar, che raggruppa tutte le partecipate in Catalogna di Suez (una delle cui filiali gestisce l’acqua potabile a Barcellona insieme con il Comune), ha annunciato la nuova sede sociale provvisoria a Madrid. E sempre sabato la fondazione della Caixa e CriteriaCaixa, dopo la controllata Caixabank venerdì a Valencia, ha spiegato che si sposterà a Palma di Maiorca.

Il Fatto 9.10.17
Il fascino delle promesse impossibili di Jeremy Corbyn, il “rosso” che piace
Facile sedurre la classe media che ha visto crollare il welfare. Ma quali sarebbero gli effetti delle sue ricette?
di Mario Seminerio

Tra gli spasmi politici e le incertezze legate al percorso della Brexit, il partito Conservatore britannico combatte una minaccia esistenziale: la diserzione del voto giovanile e di ampi strati della classe media lavoratrice, sempre più affascinati dal partito Laburista di Jeremy Corbyn e dai suoi messaggi di “protezione”.
Durante la recente conferenza di partito a Brighton, Corbyn ha rivendicato per il Labour una nuova centralità politica da posizioni che si possono considerare di sinistra estrema e dirigista, ad esempio in termini di aggressivo controllo degli affitti e un imponente programma di nazionalizzazioni. Corbyn ha gioco i facile, dall’opposizione, a suggestionare strati di elettorato che non hanno mai recuperato dalla Grande Recessione. I Tories, già alle prese con duri contrasti interni su tempi e modi della Brexit, sono costretti a replicare a Corbyn secondo vari registri: da quello ideologico del Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, che ha definito il leader laburista un “dinosauro da museo”, a quello compassionevole di Theresa May, inclusa blanda critica di maniera di capitalismo e mercato, mentre insegue Corbyn promettendo congelamento delle tasse universitarie (triplicate nell’ultimo quinquennio), agevolazioni sul rimborso dei prestiti degli indebitatissimi studenti, più edilizia sociale. Questa rincorsa dei conservatori a contenere le mirabolanti promesse di Corbyn è destinata a fallire, per la distanza dal morso della realtà che separa governo e opposizione, di fronte a un elettorato sempre più incline ad ascoltare le sirene dell’alternativa radicale dopo anni di forte compressione dei salari reali, crescita dell’indebitamento per puntellare i consumi, costi crescenti per l’abitazione e un welfare depauperato. Un’erosione di standard di vita talmente vasta e profonda da aver indotto flussi elettorali che hanno accentuato il bipolarismo e favorito il passaggio di elettori dai Tories al Labour. Mentre nel resto d’Europa i partiti socialdemocratici subiscono pesanti punizioni elettorali a vantaggio delle estreme, il Labour, col suo messaggio “rosso antico”, gode di un momentum senza precedenti.
Tutto ciò accade in un Paese dotato di moneta propria che, secondo l’illusoria vulgata no-euro, avrebbe dovuto evitare o contenere simili fenomeni di impoverimento delle classi popolari e medie. Il punto è cosa accadrà a quelle stesse classi se Corbyn arriverà ad attuare il suo programma. In un mondo di capitali mobili, le economie nazionali non possono permettersi alcuno “splendido isolamento”, ogni azione deviante e “punitiva” del sistema delle imprese rischia ricadute distruttive su quegli stessi ceti deboli ed indeboliti che si vorrebbe proteggere. Ma questi sono sterili sofismi, agli occhi del popolo stressato.

Il Fatto 9.10.17
Kabul, da 16 anni il nulla con i miliardi intorno
All’Italia (seconda solo agli Stati Uniti) la missione costa 1,3 milioni di euro al giorno. Dal 7 ottobre 2001 pochi risultati. E i talebani controllano metà Paese
di Enrico Piovesana

Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno, un milione e trecentomila euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afgana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001.
In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati.
In sedici anni la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28mila dollari per ogni cittadino afgano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno).
In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140mila afgani tra combattenti (oltre 100mila, un terzo governativi e due terzi talebani) e civili (35mila, in aumento negli ultimi anni, quelle registrate dall’Onu: dato molto sottostimato che non tiene conto delle tante vittime civili non riportate). Senza considerare i civili afgani morti a causa dell’emergenza umanitaria provocata dal conflitto: 360mila secondo i ricercatori americani della Brown University.
Chi sostiene la necessità di portare avanti questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni internazionali e Ong, non certo alla Nato), l’Afganistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite).
Politicamente, il regime integralista islamico afgano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra della minoranza tagica) è tra i più inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma. Per non parlare del problema del narcotraffico (si veda articolo accanto).
La cartina al tornasole dei progressi portati dalla presenza occidentale è il crescente numero di afgani che cerca rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli afgani sono i più numerosi dopo i siriani.
Anche dal punto di vista militare i risultati sono deludenti. Dopo sedici anni di guerra, i talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà Paese. Una situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al fronte, e la Nato a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di bisogno.
Sul fronte occidentale sotto comando italiano dove, per fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati (un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello Usa: alpini della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le offensive dei soldati afgani.
Gli esperti militari dubitano del successo di questa strategia: perché mai poche migliaia di truppe che combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150mila soldati occidentali armati fino ai denti? Secondo esperti e diplomatici, l’unica via d’uscita è il dialogo con i talebani e la loro inclusione in un governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe Usa e Nato e la riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e cooperazione.
È opportuno ricordare che i talebani, fortemente sostenuti dalla maggioranza pashtun degli afgani, non rappresentano una minaccia per l’Occidente poiché la loro agenda è la liberazione nazionale, non la jihad internazionale: combattono i jihadisti stranieri dell’Isis-Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai organizzato attentati in Occidente (né hanno avuto alcun ruolo negli attacchi dell’11 settembre, che avevano apertamente condannato).
L’alternativa è il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per formazioni terroristiche transnazionali come ISis-Khorasan.
Una prospettiva pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico, poiché uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse (Russia, Cina, Iran, Pakistan) desiderose di estendere la loro influenza strategica, stroncare il narcotraffico afgano che le colpisce e, non ultimo, mettere le mani sulle ricchezze minerarie afgane (in particolare le ‘terre rare’ indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i mille e i tremila miliardi di dollari.

Il Fatto 9.10.17
Un protettorato fondato su tonnellate di oppio
di E.Pio.

L’eroina è tornata a uccidere nelle nostre città: 266 morti per overdose l’anno scorso, soprattutto tra i giovanissimi. L’allarme è rimbalzato su tv e giornali, che hanno parlato di droga spacciata dai nigeriani. Non un cenno all’origine di questa nuova epidemia: l’Afganistan sotto occupazione occidentale, fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale.
La produzione afgana di oppio, iniziata negli Anni 80 nelle zona controllate dai mujaheddin sostenuti dalla Cia e cresciuta negli Anni 90 durante la guerra civile, era stata bandita dai talebani nel 2000. Sotto l’occupazione alleata, con il ritorno al potere dei mujaheddin, la produzione è ripartita e nel giro di pochi anni ha superato ogni record storico: oggi in Afghanistan ci sono 200 mila ettari di piantagioni di papavero contro le 80-90 mila di epoca talebana, con una produzione annua di 5-6 mila tonnellate contro le 3 mila di fine Anni 90. Un boom produttivo che, dice l’Onu, riguarda le regioni settentrionali del Paese (+324% nel 2016) controllate dal governo, mentre nel sud sotto controllo talebano la produzione è stabile.
A gestire il business afgano della droga non sono i guerriglieri islamici bensì i signori della droga legati al governo sostenuto dall’Occidente. “Gli insorti afgani intascano mediamente non più del 2,5%-5% del valore di esportazione dell’eroina afgana”, spiegavano nel 2006 Onu e Banca Mondiale e poi di nuovo l’Onu nel 2009, sottolineando che “i 25-30 più grossi narcotrafficanti afgani controllano le principali transazioni e spedizioni lavorando a stretto contatto con complici che ricoprono alte cariche governative”. A volte sono essi stessi parte del governo, come nel caso del defunto Ahmend Wali Karzai, boss di Kandahar e fratello dell’allora presidente, o di Sher Mohammed Akhundzada, ex governatore della provincia di Helmand, o di Mohammed Fahim, vicepresidente della Repubblica e ministro della Difesa, o del generale Abdul Rashid Dostum, vicepresidente e capo di stato maggiore delle forze armate, o di Mohammed Daud Daud, viceministro dell’Interno con delega all’antidroga. Boss del narcotraffico ma intoccabili per il loro ruolo politico-militare o perché informatori della Cia o alleati della Nato.
Afghanistan, Stati Uniti e Nato hanno deciso di sacrificare la lotta alla droga in nome di quella al terrorismo. La stessa scelta fatta in Europa, Asia e America Latina in nome della lotta al comunismo.
Per mantenere il controllo, gli americani si sono alleati con potenti criminali e signori della guerra locali, chiudendo un occhio su tutta l’industria della droga afgana risorta dopo il 2001. Una strategia che ha garantito non solo la tenuta del protettorato Usa/Nato in Afghanistan, ma anche quella delle grandi banche di Wall Street dopo la crisi del 2008 grazie all’enorme massa di narcodollari riciclati e immessi nel circuito finanziario: unica quanto vitale liquidità disponibile all’epoca, come denunciato dall’ex direttore generale del dipartimento antidroga e anticrimine dell’Onu, Antonio Maria Costa.

La Stampa 9.10.17
Così l’Italia inventò la democrazia senza opposizione
L’ultimo libro di Paolo Mieli sullo strano modello parlamentare italiano che alle contrapposizioni ha sempre preferito le ammucchiate
di Mirella Serri

Agli albori dell’Italia unita li chiamavano i «neri» e i «rossi». A definire «nere» le élites cattoliche e le loro organizzazioni che non riconoscevano la legittimità del neonato Stato italiano, per primi furono i liberali. I «rossi», invece, erano i repubblicani e i rappresentanti dei ceti popolari più deboli che nel 1892 daranno vita al partito socialista. Queste aggregazioni politiche alla nascita del «nostro più grande bene» - lo Stato unitario, così chiamato da Francesco Saverio Nitti - non partecipavano alla gestione del potere ed erano considerate forze antisistema e destabilizzanti. E lo furono veramente: la loro sola presenza contribuì a dar vita a una democrazia rappresentativa molto incerta, a un fragile sistema le cui conseguenze arrivano addirittura fino ai nostri giorni.
Già, proprio così, il presente trova le sue ragioni nel lontano passato: lo spiega in un ampio excursus storico Paolo Mieli nell’ultima raccolta di saggi e articoli, Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto (Rizzoli, pp.352, € 20).
Lo storico e giornalista, transitando da Quintino Sella alla Grande Guerra, dagli anni in camicia nera al Novecento degli scandali e della mafia, reinterpreta in maniera assolutamente originale e controcorrente le vicende culturali, politiche e giudiziarie dello Stivale. Tutto comincia, si potrebbe dire, con l’improvvisa morte di Camillo Benso conte di Cavour: dopo la sua scomparsa i presidenti del Consiglio cadono come foglie secche dagli alberi. Si passa rapidamente da Bettino Ricasoli a Urbano Rattazzi al mentalmente instabile Luigi Carlo Farini.
I premier che succedono al «figlio della libertà», l’autodefinizione è di Cavour, trovano un’originale soluzione per non «bruciarsi», spiega l’ex direttore del Corriere della sera e de La Stampa. Si dimettono prima del voto parlamentare «quando questo si prospetta dubbio o negativo». È un escamotage dei capi di governo per tenere aperta la porta al rientro alla testa di una nuova combinazione di forze anche se provenienti dall’opposizione. Evitando la sconfitta attraverso crisi superate senza il suggello elettorale s’inaugura una prassi di governo insolita. Si guarda con ammirazione ai Whigs liberali e ai Tories conservatori.
Ma Destra e Sinistra storica per «non bruciarsi» si cimentano in una lotta «interna a un’unica grande maggioranza… una gara la cui posta è la leadership della maggioranza stessa, mai la formazione di una maggioranza alternativa», commenta il saggista. La Destra teme che la Sinistra si possa alleare con «i rossi antisistema» e viceversa la Sinistra sospetta che i suoi antagonisti diano vita a un sodalizio con «i neri» clericali. Le forze politiche si confrontano in un «amalgama» come quello inaugurato da Agostino Depretis, il gran padre del trasformismo. Il Parlamento - anche se a fasi alterne (con l’eccezione, per esempio, del periodo fascista) - vive sempre in una singolare condizione di emergenza e di rissa permanente: non si verifica il ricambio democratico tra chi vince e chi perde e gli sconfitti non considereranno mai normale il fatto di stare seduti sui banchi dell’opposizione durante una stagione parlamentare.
A dar man forte a maggioranze che si fanno e si disfano senza il ricorso alle urne e ad alimentare gli antagonismi contribuiscono anche artisti, scrittori, musicisti. La casistica riportata da Mieli è ampia e paradossale: in queste diatribe per delegittimare chi milita nelle schiere degli avversari finiscono sotto tiro persino personalità impensabili come John Fitzgerald Kennedy, futuro indiscusso mito dell’occidente. Ma all’epoca dell’installazione dei missili sovietici a Cuba, sulla scia del Pci il presidente americano veniva attaccato, per esempio, dai più prestigiosi intellettuali come un «nazista atomico», così Carlo Levi, come un antidemocratico rispetto al «democratico» Fidel Castro da Cesare Zavattini e come il motore della vicina guerra nucleare da Giangiacomo Feltrinelli.
Parimenti i democristiani filo americani metto sotto accusa, è un altro esempio, gli «intellettuali squillo», i più noti e celebrati scrittori anti Usa, come Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Di miasmi e di veleni come questi si è nutrita, per decenni, l’anomala avventura politica degli italiani. Oggi però nell’emiciclo parlamentare si fronteggiano più contendenti e allora cosa accade?
«Abbiamo saltato il fondamentale processo della legittimazione reciproca - osserva Mieli - e ci ritroviamo nel mondo tripolare - destra, sinistra e forze antisistema - inadatto a porre le fondamenta di un edificio politico stabile come quelli che abbiamo conosciuto in passato in tutte le democrazie occidentali… Il caos italiano mentre noi consumavamo la nostra incapacità a dividerci è diventato caos dell’intero mondo occidentale. E questo non è un bene». Come dire, abbiamo esportato la democrazia, all’italiana, s’intende.

Corriere 9.10.17
L’Italia delle leggi razziali «Oggi nessuno ricorda»
Approvate dal regime nel ‘38, per l’ottantesimo anniversario mostre con documenti inediti
«Ce n’è bisogno se si continua a parlare di italiani veri»
di Gian Guido Vecchi

Trieste, 18 settembre 1938, mattina. Il cacciatorpediniere «Camicia Nera» attracca al «molo Audace» con «il Duce sulla plancia di comando». È la prima volta che si possono vedere per intero queste immagini, 34 minuti restaurati e digitalizzati dall’istituto Luce. La voce narrante informa sobria che la città è «un solo palpito di attesa e di amore» e in piazza dell’Unità ci sono 150 mila persone, camicie nere e fez, fazzoletti e applausi, gente sui davanzali. L’attesa del comizio, in effetti, è tragicamente giustificata: il discorso di Trieste è il primo e l’unico nel quale Mussolini, con toni raggelanti, annuncia in pubblico le «soluzioni necessarie» per affrontare il «problema ebraico» in quanto «problema razziale», spiega che per mantenere il «prestigio dell’impero» occorre «una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime» e infine esclama tra le ovazioni: «L’ebraismo mondiale è stato durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del fascismo».
Bisogna guardarlo bene, perché questo è «il primo atto antisemita mediatico del regime», spiega lo storico Marcello Pezzetti, il segno che le cose precipitano. Il filmato sarà al centro di una mostra che dal 16 ottobre, in vista degli ottant’anni dalle leggi razziali, verrà allestita nella Casina dei Vallati, in largo 16 ottobre 1943, il luogo della razzia nazista del ghetto di Roma. Curata da Marcello Pezzetti e Sara Berger, della Fondazione Museo della Shoah, si intitola «1938» ed ha uno scopo molto semplice: «La gente non sa, i ragazzi non sanno che cosa sono state le leggi razziali. Con materiale quasi del tutto inedito — fotografie, immagini, documenti — facciamo vedere ciò che è accaduto».
A Trieste è lo stesso Duce a smentire le tesi riduzioniste che lo vorrebbero condizionato da Hitler: «Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti». Il documento programmatico dell’antisemitismo biologico, «Il fascismo e i problemi della razza», era uscito il 14 luglio 1938. In agosto il regime schedò la popolazione ebraica, un censimento prezioso per le deportazioni naziste. All’inizio di settembre arrivò la cacciata di studenti e insegnanti «di razza ebraica» da tutte le scuole. Dopo Trieste, nelle sedute del 7, 9 e 10 novembre, il consiglio dei ministri approverà il «corpus» delle leggi razziali, la morte civile della popolazione ebraica, l’espulsione da ogni impiego pubblico, dalle professioni, i divieti sulla proprietà e i matrimoni «razzialmente misti».
Nella mostra fanno impressione gli schemini disegnati a mano dagli «esperti» di «Demorazza», nel ministero dell’Interno, per calcolare il grado di «razza ebraica», le immagini dei cartelli sulle vetrine («Proprietari o personale di questa libreria sono ariani») o degli ebrei in giacca e cravatta costretti al «lavoro obbligatorio» con ramazze e picconi. La perversione burocratica produce decine di circolari grottesche, pure divieti sui «saltimbanchi girovaghi» o «gli allevatori di piccioni viaggiatori». I ricercatori hanno trovato un verbale nel quale il presidente del Coni e quello della Federcalcio dispongono la cacciata degli atleti e degli sportivi ebrei: come Arpad Weisz, l’allenatore che vinse uno scudetto con l’Inter e due con il Bologna e morì ad Auschwitz.
Un’altra mostra, sempre allestita da «Cor», racconterà in aprile le vicende delle persone. «Se ne sente un gran bisogno», sospira Pezzetti: «Allora “italiano” e “ariano” divennero sinonimi. Oggi si torna a parlare di “veri italiani” e cose simili. La mostra non ha riferimenti all’attualità perché sarebbe pleonastico. Il virus razzista sta penetrando nelle coscienze. Qui noi lo facciamo vedere: guardate i danni che ha fatto».


La Stampa TuttoLibri 9.10.17
Flaubert produceva una pagina a settimana
di James Salter

Gli scrittori che più stimo sono Nabokov, Faulkner, Saul Bellow e Isaac Singer: metto insieme questi ultimi due per via delle qualità che li accomunano. Mi piace Nabokov per il suo acume e la sua straordinaria capacità linguistica, per la sua voce e il suo stile. Come ho detto, credo siano queste le cose che durano, più dei soggetti. Era molto arguto. Un giorno al bar dell’hotel-residence dove viveva, a Montreux, parlammo per quasi un’ora. Era inverno e Montreux, che non è un posto allegro, sembrava deserta come l’enorme, vecchio albergo. Al bar c’eravamo solo noi: io, Nabokov e Vera, la moglie, con un abito di Rodier azzurro. La sera prima, a cena, anche la sala da pranzo era praticamente vuota, con uno stuolo di camerieri in giacca bianca immobili fra i tavoli. Al bar Nabokov fu cauto, autorevole, cortese. Fece qualche osservazione buffa, ma sua moglie rimase sempre impassibile. «Vede?» disse. «Non ride mai. È sposata con il più grande clown d’Europa e non ride mai».
Alcuni anni dopo conobbi per caso un tale – un matematico, mi pare – che aveva condiviso l’ufficio con Nabokov alla Cornell University.
«Di che cosa parlavate?» gli chiesi.
«Oh, parlava di quello che aveva letto sul National Enquirer. Lo comprava tutti i giorni. E gli piaceva parlare del tempo».
«Del tempo? In che senso?»
«Si guardava il polso e diceva: “Secondo me sono le 8.26. Tu che ora fai?”».
* * *
Flaubert inizia a scrivere Madame Bovary nel 1851, un anno dopo la morte di Balzac. Aveva quasi trent’anni. Ammirava Balzac; erano entrambi realisti. Madame Bovary, che sarebbe diventato il romanzo realista per eccellenza, fu scritto in quattro anni e mezzo. Da dove sia nata l’idea, fino a che punto la storia fosse basata su un fatto reale o su un caso famoso, sono temi interessanti, ma preferirei parlare di Flaubert e dei suoi metodi, del suo modo di lavorare, delle sue speranze e delle sue intenzioni.
Flaubert era scapolo. Non si sposò mai. Visse sempre a Croisset, vicino a Rouen, nella comoda casa di famiglia provvista di un grande giardino affacciato sul fiume. C’erano dei domestici. Abitava con la madre e una giovane nipote, Caroline, alla quale era molto affezionato. Viaggiava di rado: ogni tanto andava a Parigi per cambiare aria o vedere gli amici, e una volta si spinse fino in Egitto con Maxime Du Camp, un amico. La sua era una vita decisamente borghese, sebbene lui disprezzasse la borghesia. La feccia borghese, così la definiva, e la loro società democratica. Aveva un’amante, la poetessa Louise Colet, che viveva però in un’altra città, quindi lui poteva mettere tutte le energie nel lavoro.
Il suo studio era al piano superiore della casa, una grande stanza con vista sul giardino e sulla Senna. Di solito scriveva in quella stanza dal primo pomeriggio fino al primo mattino, interrompendosi solo per cenare. Ed era instancabile: scriveva, rimaneggiava, rivedeva, e lentamente produceva «una pagina alla settimana o una in quattro giorni o tredici in tre mesi». Ci sono circa quattromilacinquecento pagine di minute per le trecento del libro.
Soppesava ogni frase. Sceglieva, scartava, risceglieva ogni parola. «Una buona frase in prosa» diceva «dovrebbe essere come un buon verso in una poesia, inalterabile, perché altrettanto ritmico, altrettanto sonoro.» Verificava le frasi e i paragrafi a voce alta in quello che definiva il suo gueuloir – il suo urlatoio – per giudicarne il ritmo e la scorrevolezza. Inoltre, ogni settimana leggeva ad alta voce a un amico quello che aveva scritto.

La Stampa 9.10.17
“I compiti? Guardate i video”
La carica dei prof su YouTube
Boom di filmati tra problemi di matematica e lezioni di storia C’è chi ha raggiunto 400mila visualizzazioni come una popstar
di Flavia Amabile

La prossima volta che vi renderete conto che vostro figlio ha gli occhi incollati allo schermo del cellulare e che sta guardando un video su YouTube, pensateci bene prima di sgridarlo: potrebbe star studiando e voi ci fareste la figura del solito adulto che arriva dall’Età della Pietra.
Un mondo intero di professori è sbarcato negli ultimi anni su YouTube. Alcuni sono in pensione ma non hanno perso la voglia di insegnare, altri sono pienamente operativi e utilizzano il loro canale al posto dei compiti e invitano i loro alunni a studiare osservando dei video specifici su cui si discuterà in classe. Ci sono i professori che utilizzano YouTube per formare altri professori e dedicano ai loro alunni video visibili solo ad una ristretta cerchia di persone.
È un universo in continua evoluzione, che non ha le cifre e il giro d’affari che c’è dietro le giovani youtuber ma può comunque dare soddisfazioni e anche centinaia di migliaia di iscritti a chi prova a utilizzare i video condivisi per diffondere cultura e insegnamenti. Elia Bombardelli non ha ancora trent’anni, da cinque insegna matematica e fisica al Liceo Internazionale Arcivescovile di Rovereto e da quattro ha aperto il canale YouTube LessThan3Math che ha oltre 130mila follower. Fra le sue hit ci cono «Dominio di una funzione, cos’è e come trovarlo» che ha superato le 400 mila visualizzazioni oppure «Seno, Coseno e Tangente. Funzioni goniometriche» con oltre 300 mila visualizzazioni.
La matematica è una delle materie in cui gli studenti italiani hanno le maggiori difficoltà e quindi una delle più ricercate in rete. Un altro riferimento è Carlo Incarbone, detto «Inca». Su YouTube lo si trova come VideoLezioniInca, i suoi iscritti sono meno di 30 mila ma lo considerano un mito. Classe 1951, abita a Collegno, in provincia di Torino, dopo venti anni a insegnare matematica e fisica è andato in pensione e ha realizzato circa novecento video svelando i misteri del mondo dei numeri e della scienza. Cambia l’argomento ma i video hanno tutti la stessa sceneggiatura: telecamera fissa, il professore con occhiali leggermente sghembi sul naso, intento a spiegare e intanto scrivere gli esercizi alla lavagna. La registrazione avviene nella camera dei figli che non vivono più a casa ed è un vero e proprio lavoro oltre che una passione: l’Inca impiega 20 minuti per registrare ogni video, altri 20 per la rielaborazione dal pc, infine si occupa di caricare il tutto sul web.
Paolo Cutini, invece, insegna inglese al Convitto Nazionale Regina Margherita - liceo linguistico e delle scienze umane di Anagni, in provincia di Frosinone. Come racconta di sé, si interessa di «informatica applicata alla didattica, perché ritengo che le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione possano essere un utilissimo complemento alle risorse tradizionali usate nella scuola». Ha creato il sito Cyberteacher.it con cui è riuscito a vincere il premio Docente dell’anno del 2016 e il premio Innovazione 2014 ideato dall’Associazione nazionale dei presidi (Anp) in collaborazione con Microsoft. Il suo metodo prevede l’inseguimento dei suoi alunni anche su Skype e l’uso di ogni strumento possibile per diffondere le sue lezioni. Il sito Cyberteacher.it - spiega - «è stato creato con il duplice scopo di mettere a disposizione di insegnanti e studenti di scuola superiore alcune risorse da usare nello svolgimento dell’attività scolastica e, soprattutto, di sperimentare alcune soluzioni didattiche innovative». Ad esempio gli studenti eseguono gli esercizi online e il docente li riceve automaticamente, oppure la registrazione dei risultati in un database in modo da avere una valutazione statistica immediata e consultabile da alunni e genitori, la creazione di mini-lezioni sotto forma di file audio. E poi un wiki, un blog e la radio web. Oltre al canale YouTube, ovviamente.

La Stampa 9.10.17
“La mia unica regola: non annoiare i ragazzi”
di F. Ama.

Chiara Spalatro ha iniziato a utilizzare i video nelle sue classi tre anni fa. Insegna italiano e storia nella scuola media Alighieri-Spalatro di Vieste, in provincia di Foggia. È una convinta sostenitrice delle classi capovolte, quelle in cui si insegna rovesciando il metodo tradizionale. Niente più lezioni frontali in classe e compiti a casa. A scuola si lavora con pc, tablet e smartphone per risolvere problemi e sperimentare quello che si è imparato. A casa si seguono lezioni video o spiegazioni preparate dai docenti in versione podcast, testi condivisi tra più docenti. E quindi ha aperto un canale YouTube e portato la rivoluzione in classe. «Ai miei studenti almeno due volte a settimana non assegno compiti ma video. Li realizzo io stessa a casa con il mio pc, seguendo le lezioni del programma scolastico e alcune regole. Non devono essere troppo lunghi né lenti. I ragazzi devono riuscire a vederli fino in fondo senza annoiarsi. Il consiglio è di vederli una prima volta per intero, quindi di rivederli fermandosi di tanto in tanto per prendere appunti. Sulla base del lavoro svolto a casa, lavoriamo poi in classe senza interrogazioni ma parlando tutti insieme in modo che tutti siano sempre coinvolti».
I ragazzi sono contenti salvo qualcuno che preferisce studiare sul libro. «Non mi oppongo. Questo metodo non esclude affatto il libro, il testo è il punto di partenza dell’intera lezione». Non tutti hanno il wifi a casa per vedere con tranquillità i video. «Ma si organizzano, si vedono a casa di qualcuno o vanno in biblioteca dove c’è la connessione wifi», assicura Chiara Spalatro.
I problemi iniziano quando lasciano le medie e vanno alle superiori dove di nuovo si ritrovano con i compiti a casa e le interrogazioni. «Nessun problema, nella peggiore delle ipotesi avranno fatto un’esperienza diversa sviluppando competenze che aprono nuovi orizzonti», risponde la loro professoressa.

Repubblica 9.10.17
La Chiesa che combatte il narcisismo contemporaneo
Monsignor Paglia e quegli ideali condivisi anche dai laici
di Eugenio Scalfari

VINCENZO Paglia, sacerdote, arcivescovo e patrono per molti anni e tuttora della Comunità cattolica di Sant’Egidio, ha scritto un nuovo libro intitolato Il crollo del Noi edito da Laterza. Si occupa di una quantità di argomenti e cita un numero impressionante di Papi e di scrittori delle più varie culture e nazionalità, che gli servono per meglio illustrare i temi dei quali il suo libro si occupa. È molto efficace questo metodo di scrittura e i personaggi citati gli offrono la possibilità di polemizzare o di consentire con loro e comunque di raccontare la vita degli individui, delle famiglie, delle città, dei giovani, dei poveri, delle culture. Soprattutto di arrivare a una conclusione che è il nucleo del suo pensiero: la fratellanza, la pace, l’amore e il nuovo umanesimo che, a suo parere, consente all’umanità di sviluppare una cultura adatta ai tempi senza perdere ed anzi consentendo la fraternità tra credenti e non credenti che però condividono e rafforzano valori comuni.
“Noi” non è soltanto una parola e il titolo di un libro: è un programma che presenta molte difficoltà a realizzarsi, ma il cui valore è indiscutibile. Si contrappone ad un’altra parola e ad un’altra forza valoriale: l’Io. La differenza tra Io e Noi è capitale e soprattutto consiste nel fatto che l’Io è la base che distingue la nostra specie da tutti gli altri esseri viventi, mentre il Noi è proprio l’Io che deve realizzare questo passaggio e condurre il Noi alla stessa altezza specifica dell’Io: due figure che si equivalgono
anche se l’una crea l’altra.
Citerò qui il nucleo del pensiero dell’autore, da lui espresso nelle pagine iniziali del libro: «Se per un verso è vero che l’uomo del XXI secolo può sentirsi più libero, certamente oggi si trova più solo, incurvato sotto il peso di un carico invisibile e tuttavia pesantissimo. C’è l’Io, pieno della sua presente competenza. Si sente l’Unico. Tutto deve basarsi su di lui. L’individuo si trova costretto a dover sognare, decidere, volere e reinventare » e chiude citando le parole di un suo collega di altissimo livello intellettuale, che ormai purtroppo non c’è più: Carlo Maria Martini. Queste parole furono da lui pronunciate nel 2003. Eccole: «Voi umanisti moderni, contrari alla trascendenza delle cose supreme, dovete riconoscere il nostro nuovo umanesimo. Anche noi, noi più di tutti siamo i cultori dell’uomo. Vogliamo favorire una visione e un impegno comune tra credenti e non credenti per affrontare insieme le grandi sfide del presente».
Ricordiamoci che Martini fu il grande sostenitore di papa Francesco. La pensavano allo stesso modo e di questo pensiero papa Francesco ha fatto l’impegno principale del suo pontificato portando avanti l’incontro della Chiesa con la modernità.
Mi permetto qui di ricordare ciò che ci dicemmo il Papa ed io su questo tema in uno dei nostri incontri durante i quali siamo diventati amici. Stavamo considerando il suo impegno per una Chiesa moderna che sappia intendersi con la modernità laica. «Santità – dissi io – tenga conto che non crediamo nella verità assoluta. Siamo relativisti, come la cultura illuministica ci ha insegnato. Voi cattolici credete invece nell’Assoluto». «È vero – rispose il Papa – noi credenti crediamo tutti nell’Assoluto per quanto riguarda la verità che promana da Dio. Il nostro Dio unico per noi rappresenta l’Assoluto ».
A quel punto della nostra conversazione gli domandai come fosse possibile un incontro con la modernità e la sua risposta fu questa: «Noi credenti e ovviamente soprattutto noi presbiteri e noi vescovi crediamo nell’Assoluto, ma ciascuno a suo modo perché ognuno ha la propria testa e il proprio pensiero. Quindi la nostra verità assoluta, da tutti noi condivisa, è però diversa da persona a persona. Non evitiamo infatti discussioni nel caso delle quali i nostri diversi pensieri si confrontano. Un tipo di relativismo c’è dunque anche tra noi». Questa fu la risposta di papa Francesco che ovviamente è il più citato nel libro di Paglia.
Credo a questo punto di dover elencare i temi che l’autore affronta nel suo libro. Sono i seguenti: i poveri; le diseguaglianze; uno; tu; noi; Papa Francesco; relativismo e Assoluto; modernità; Dio Unico; società; Gesù e il Samaritano; la famiglia; i giovani, Dio e Amore; la fratellanza; il numero delle contraddizioni; l’Umanesimo; la prossimità; la parola.
Questi temi si intrecciano continuamente l’uno con l’altro e questo è il pregio del libro. Per esempio la libertà: è una condizione necessaria per tutto e per tutti ma allo stesso tempo realizza il trionfo dell’individualità. Scriveva Paglia: «L’Io è rimasto solo, anzi l’Unico. L’individualismo, l’egoismo, l’autorealizzazione e l’aspirazione ad una felicità privata richiamano l’antico mito di Narciso. L’individuo narcisista ha ormai preso la scena».
Questo è un problema che richiama direttamente quello dei poveri. Il narcisismo di fatto preclude la considerazione del prossimo, salvo che il prossimo resti incantato da quel Narciso e si metta al suo servizio. Molto spesso questa che è la “servitù volontaria” descritta dall’amico di Montaigne, Etienne de La Boétie, produce regimi autoritari o addirittura dittature tiranniche. La storia antica e moderna è purtroppo costellata da casi del genere: libertà, narcisismo, uso del popolo sovrano come prezioso strumento che trasforma quella sovranità in servitù volontaria conquistata dalla demagogia con la conseguenza della dittatura. Questi sono meccanismi che hanno funzionato assai di frequente causando non solo egoismo ma addirittura odio e guerre. La voglia del potere diventa il tratto caratteristico della storia. Il rimedio sarebbe quello di tenere insieme i due grandi valori di Libertà e Giustizia, Libertà ed Eguaglianza. Ricordate i valori iniziali della Rivoluzione francese del 1789? Ricordate la bandiera tricolore e il significato di quel simbolo dell’Europa liberale: “Liberté, Egalité, Fraternité”. E ricordate lo slogan dei fratelli Rosselli e del Partito d’Azione? Diceva “Giustizia e Libertà”. Non a caso furono uccisi dai fascisti.
A questo proposito Paglia cita un brano di Aristotele che è altamente significativo: «Chi non può entrare a far parte di una Comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a sé stesso, non è parte di una città ma è una belva o un Dio».
Nel libro di cui stiamo parlando l’autore dedica molte pagine alla Bibbia dell’Antico Testamento e in particolare alla parte chiamata “Genesi” che racconta la creazione e poi la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre per aver mangiato il frutto dell’albero proibito, avendo dato ascolto al serpente che altro non è che il Demonio. Ma qui si apre un problema non facile da risolvere: a chi si deve l’esistenza del Demonio? È una potenza contraria a Dio, oppure è Dio stesso in una veste volutamente opposta a quella naturale? La religione cattolico- cristiana distingue ovviamente tra il bene e il male, ma non affronta l’origine del male: è Dio stesso ad averlo creato nel momento in cui riconosceva alle sue creature umane il diritto al libero arbitrio? Papa Francesco, preceduto in questo da Giovanni XXIII e da Paolo VI ma con una forza più rivoluzionaria rispetto alla teologia ecclesiale, ha abolito i luoghi dove dopo la morte le anime dovrebbero andare: Inferno, Purgatorio, Paradiso. Duemila anni di teologia si sono basati su questo tipo di Aldilà che anche i Vangeli confermano. Con un’attenzione però – che in parte si deve alle lettere di San Paolo (quella ai Corinzi e quella ai Romani) e in parte anche maggiore ad Agostino di Ippona – al tema della Grazia.
Tutte le anime sono dotate della Grazia e quindi nascono perfettamente innocenti e tali restano a meno che non imbocchino la via del male. Se ne sono consapevoli e non si pentono neppure al momento della morte, sono condannate.
Papa Francesco – lo ripeto – ha abolito i luoghi di eterna residenza nell’Aldilà delle anime. La tesi da lui sostenuta è che le anime dominate dal male e non pentite cessino di esistere mentre quelle che si sono riscattate dal male saranno assunte nella beatitudine contemplando Dio.
Questa è la tesi di Francesco ed anche di Paglia. Faccio qui una mia osservazione: il Giudizio universale che è nella tradizione della Chiesa, diventa privo di senso. Le anime che hanno scelto e praticato il male scompaiono e il Giudizio universale resta un semplice pretesto che ha dato luogo a splendidi quadri nella storia dell’arte. Nient’altro che questo.
Naturalmente la teologia sostiene che una scintilla divina è presente in tutte le specie, cioè il Creatore è nelle anime di tutti gli esseri viventi e più che mai nella specie umana creata «a sua immagine e somiglianza ». Questa tesi che finora non è stata messa in discussione è quella che Spinoza utilizzò sostenendo appunto che Dio era presente in tutte le creature e non esisteva che in questo modo. La tesi di Spinoza trasformò insomma la trascendenza in immanenza e fu per questo che fu scomunicato dalla comunità ebraica e le sue opere furono messe all’indice dalla Chiesa.
Recentemente ho parlato di questo argomento con papa Francesco chiedendogli se la condanna alle sue tesi potesse essere revocata. Ma la sua risposta è stata negativa: la trascendenza di Dio non può essere messa in discussione. Senza la trascendenza l’Essere divino cesserebbe di esistere se e quando la nostra specie scomparirà dalla Terra.
Se il Dio fosse immanente anche egli scomparirebbe. Perciò quella scomunica non può essere abolita. Per un non credente questa tesi non è accettabile anche se le ragioni che affermano la trascendenza sono comprensibili.
Chiuderò questa recensione con una frase che l’autore scrive illustrando con essa il nucleo del suo pensiero: «I credenti in Dio (religiosi) e i credenti nell’uomo (umanisti) nell’incontro con i poveri ritrovano una preziosa alleanza. Direi che è di qui che bisogna ripartire per ritessere le lacerazioni presenti nella nostra società. Il coinvolgimento per il riscatto dei poveri traccia una linea di cambiamento edificante. Per i cristiani questo umanesimo è fondamentale: chi incontra i poveri incontra Dio stesso».
Aggiungo da parte mia: per i non credenti è un incontro con i valori laici della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità.
Grazie, caro Vincenzo, per il libro che hai scritto.
L’OPERA Vincent van Gogh:
Il buon Samaritano (olio su tela, 1890) Conservato al Kröller Müller Museum di Otterlo (Olanda), il dipinto, ispirato dalla parabola del Vangelo e dallo stesso soggetto dipinto da Eugène Delacroix, è una delle ultime opere dell’artista, che morì due mesi dopo la realizzazione
IL LIBRO Il crollo del Noi di Vincenzo Paglia (Laterza pagg. 114, euro 15)