lunedì 16 ottobre 2017

La Stampa 6.10.17
Il vento anti migranti che soffia dall’Est contagia anche Vienna
L’obiettivo comune è frenare le spinte per una maggiore integrazione
di Marco Bresolin

Lo spettro Visegrad che da tempo si aggira per l’Europa mette la quinta. Già, perché ora c’è una spina in più nel fianco (destro) dell’Ue, dove le rigidità e muri del quartetto dell’Est hanno un nuovo e potente alleato: l’Austria appena uscita dalle urne. Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria sono pronte ad accogliere Vienna nel loro club, dando vita a un nucleo duro di cinque Paesi che ha una parola d’ordine - sovranismo - e un obiettivo dichiarato: frenare le spinte verso una maggiore integrazione a dodici stelle. A partire dalla cancellazione del termine solidarietà dal vocabolario delle politiche migratorie.
L’unica strada percorribile, per loro, è la blindatura dei confini. Quelli esterni, ma anche quelli interni: una soluzione per «farla pagare» agli Stati considerati troppo morbidi o inefficienti nei controlli, lasciandoli soli al loro destino (ogni riferimento all’Italia e alla frontiera del Brennero non è affatto casuale). Soltanto meno di un anno fa Bruxelles aveva tirato un sospiro di sollievo con la sconfitta di Norbert Hofer alle presidenziali e oggi rischia di trovarsi l’estrema destra al governo. Ma attenzione: anche se ciò non accadesse, ci sarebbe poco da stare sereni.
Da mesi gli analisti osservano una «preoccupante» svolta a destra nelle politiche e negli atteggiamenti dei governi Ue, una virata che segue il trend elettorale. Anche senza entrare nelle coalizioni di maggioranza, i partiti estremisti sono comunque riusciti a incidere sulle agende di governo. È successo in Olanda, dove Mark Rutte - pur conservando la sua fama di europeista - ha fermato l’avanzata di Geert Wilders proponendo ricette dagli ingredienti molto simili. E ora che ha messo insieme una coalizione di centro-centrodestra non ha certo intenzione di ammorbidire la sua linea. Lo stesso potrebbe capitare a Berlino, dove la nuova maggioranza che sosterrà Angela Merkel rischia di portarla su posizioni che mal si conciliano con il concetto di solidarietà, in campo economico e migratorio.
È su questo binario che si muove da tempo Sebastian Kurz, vincitore indiscusso delle elezioni austriache. È lui che - da ministro degli Esteri - ha trascinato il governo di Kern su posizioni più dure. È lui che ora vuole parlare direttamente al quartetto di Visegrad per costruire un asse a cui guardano con attenzione anche Stati come Slovenia e Croazia. Nel club V4 i «duri e puri» restano Polonia e Ungheria, mentre i due Paesi dell’ex Cecoslovacchia fanno la parte dei poliziotti buoni. Almeno per una settimana ancora, visto che domenica si voterà in Repubblica Ceca e i socialdemocratici del premier uscente Bohuslav Sobotka sono dati al terzo posto.
Con tutta probabilità vincerà la formazione euroscettica «Ano 2011», guidata dall’imprenditore populista Andrej Babiš, ribattezzato dalla rivista Foreign Policy «Babisconi» per via delle tante analogie con il leader di Forza Italia.
Il ritorno alle urne di Praga è dovuto proprio alla crisi sfociata in primavera tra le due principali anime della coalizione e i socialdemocratici sono destinati a uscire dalla stanza dei bottoni. Sarebbe il quinto governo perso dai partiti della famiglia socialista europea, che fino a pochi mesi fa avevano il piede nelle maggioranze di dieci Stati Ue. Il 2017 elettorale li ha dimezzati. Repubblica Ceca e Austria (salvo improbabile grande coalizione), si aggiungerebbero così a Germania, Francia e Olanda. A sventolare la bandierina rossastra sui palazzi di governo restano soltanto Italia, Portogallo, Malta, Svezia e Repubblica Slovacca, gli unici cinque Paesi che possono ancora vantare un premier socialdemocratico.
Un bel tema su cui avranno da riflettere, da mercoledì, gli esponenti del Pse che si ritroveranno a Bruxelles per una due giorni dedicata proprio al futuro della socialdemocrazia europea. Giovedì mattina, nel consueto vertice prima del Consiglio europeo, toccherà poi ai leader definire le strategie immediate.
A partire dal rebus Eurogruppo, per mantenerne la guida anche dopo la partenza di Jeroen Dijsselbloem. Ma con sole 5 poltrone al Consiglio (su 28) e nemmeno una delle tre principali presidenze delle istituzioni Ue, il rischio marginalizzazione è reale.