La Stampa 31.10.17
Liliana Cavani
“In principio fu l’eguaglianza ma poi venne il terrore”
La regista: “Un antico sogno, erede del cristianesimo e della Rivoluzione francese. Con Stalin, il totalitarismo”
intervista di Francesca Paci
Lo
studio di Liliana Cavani è il suo salotto affacciato sull’isola
Tiberina dove nonostante le grandi finestre sembra regnare una penombra
mistica.
Cosa le evoca la Rivoluzione d’ottobre?
«È stata un
importante atto politico che ha provato a realizzare il sogno antico e
moderno dell’eguaglianza, un sogno erede della rivoluzione francese e
prima ancora di San Francesco che, senza predicarlo, lo viveva. Il
Vangelo è un patrimonio della cultura occidentale».
Come ha potuto il 1917 spianare la strada al terrore raccontato nel 1962 dal suo documentario, «L’età di Stalin»?
«Gli
elementi più liberi vagheggiavano l’utopia. Non dimentichiamo che il XX
secolo si tira dietro la miseria dell’800, l’analfabetismo,
l’emigrazione. Lenin portava istanze comprensibili: il 1917 riscattò
tutti. Purtroppo gli intellettuali finirono come le rivoluzionarie
francesi, che lottarono per essere escluse. A quel punto, superato
Lenin, Stalin andò al passo col nazismo-fascismo. Continuo però a
credere valida l’idea che l’uomo meriti un’emancipazione politica».
Il
cinema è l’anima della Russia bolscevica. Nel montaggio di Ejzenstejn
c’è già l’antinomia del media-messaggio, macchina dei sogni o della
propaganda. Cosa ha imparato di quella stagione?
«L’arte del
cinema era nuovissima, in quegli anni nasce il cinema sociale. Nasce
anche il montaggio, il fraseggio che narra la storia rendendola un
romanzo filmato. Non è sorprendente che i totalitarismi ne
approfittassero, arrivarono le pellicole di propaganda nazista e quelle
sovietiche. Il cinema parlava il linguaggio della modernità».
È la modernità la cifra del secolo breve?
«Piuttosto
l’intolleranza. Il Novecento è un secolo moderno ma anche feroce, con
la violenza come pratica teorizzata. Mio nonno era un socialista
progressista. Da quando è morto, nel 1947, mi chiedo cosa avrebbe
pensato del progresso di fronte al Terzo Reich. Non so immaginare nulla
come il nazismo nell’antica Roma. Eppure quando nel 1965 andai in
Germania per la Rai c’erano studenti che ignoravano chi fosse Hitler. È
la stessa memoria corta che si avverte oggi nei Paesi dell’ex blocco
comunista. L’Europa ha visto la luce per esorcizzare tutto questo».
Nel 1945 lei è una scolaretta: si parlava di politica in famiglia?
«Sono
cresciuta antifascista ma della guerra ricordo poco. Ho invece
l’immagine di una visita di Starace a Carpi, siccome in piazza non
vedevo nulla, un vicino mi sollevò e mi apparvero tutti quei fazzoletti
neri. Pochi anni dopo la stessa piazza si sarebbe riempita di fazzoletti
rossi in festa per la liberazione. Purtroppo avvenne tutto senza
consapevolezza. I fazzoletti rossi erano giusti ma mancava la Storia. Si
ambiva al cambiamento, la fine della guerra ma anche la pace sociale,
la parità dei sessi. Era stato il 1917 a tenere a battesimo questi
concetti, anche se poi la messa in discussione della proprietà avrebbe
portato al fascismo. C’era tanta ingenuità».
Che rapporto ha avuto con il comunismo?
«Non
sono mai stata nel partito. A casa si respirava il socialismo. Più
avanti ho incontrato dei cattolici bravissimi, come il padre di una mia
amica di Carpi che salvò i 110 ebrei della città. Ho conosciuto il
cristianesimo sociale, ho visto i cattolici operare con più giustizia e
umanità. Erano i tempi di una chiesa nuova, c’era De Gasperi, l’unico
non ammesso al cospetto di Pio XII perché nel ’48 aveva preferito i
comunisti ai monarchici. Da piccola non capivo, non andavamo a messa ma
vivevamo di valori. Esiste una morale laica non opposta a quella
cristiana».
C’è chi dice che fu proprio l’Unione Sovietica a seppellire la falce e il martello.
«Stalingrado
fu grande, il popolo ci difese: è lì che passa il messaggio del
comunismo come unità ideale. Ma lo stalinismo fu una dittatura, è
inutile sfuggire. Ricordo una polemica nel ’68 a Venezia, dove portavo
Galileo. Alla Casa della Cultura del Pci si protestava contro la
presidenza di Chiarini perché era un socialista, ma a me sembrava che
fosse un modo per non parlare dei tank entrati in quelle ore a Praga.
Così quando alcuni miei colleghi ritirarono i loro film dalla Mostra io
non lo feci. Non capivo il silenzio su Praga. Due anni prima, sempre a
Venezia, avevo conosciuto dei giovani cineasti cecoslovacchi che mi
avevano poi invitato a Praga a presentare Francesco. Uno di loro era il
direttore della tv e, mentre noi contestavamo Chiarini, veniva arrestato
da quelli che pretendevamo di rappresentare».
Il suo Galileo è il contrario dello scienziato disegnato dal comunista Brecht?
«Non
amavo il Galileo di Brecht, il mio lo feci diverso. Non è vero che
tradì. Era moderno. Capì che era più importante vivere e aveva ragione:
avrebbe poi inventato il microscopio».