La Stampa 31.10.17
Quando Hemingway
si infatuò di Mussolini
Nel
giugno del ’22 lo scrittore divenuto icona dell’antifascismo intervistò
il futuro Duce e ne fece l’elogio (salvo ricredersi già sei mesi dopo)
In un libro di Canali l’Italia in camicia nera raccontata dai
giornalisti Usa
di Mirella Serri
«È un uomo
grande, dalla faccia scura, con una fronte alta, una bocca lenta nel
sorriso e mani grandi». E ancora: «Non è il mostro che è stato dipinto».
Già, proprio così: gran parte della stampa italiana lo ritrae come «un
rinnegato socialista» ma, invece, guai a addossargli colpe non commesse:
Benito Mussolini, è di lui che si parla, ha «avuto molte buone ragioni
per lasciare il partito». È il giugno del 1922, quattro mesi prima della
marcia su Roma, e sulle colonne di una testata d’oltroceano, il Toronto
Daily Star, appare in due puntate un lusinghiero ritratto del leader
del fascismo: a vergarlo è il giovane Ernest Hemingway.
Una
quindicina di anni più tardi, dopo aver partecipato alla guerra di
Spagna dalla parte delle milizie antifranchiste, il celebre narratore
pronuncerà uno dei giudizi più forti sul fascismo: «Una menzogna detta
da prepotenti». Nei primi Anni Venti, però, ebbe un breve periodo di
sbandamento per il demagogo e sollevatore di folle. Hemingway, in
viaggio in Italia con sua moglie Hadley, colse l’occasione per
concordare un’intervista con Mussolini. Lo incontrò a Milano e ne fu
irretito. Per lo scrittore che durante la Grande guerra si era
presentato volontario per combattere in Italia ed era stato ferito, il
futuro Duce era da considerarsi un vero patriota, l’unico politico in
grado di capire che «i frutti della vittoria italiana nella prima guerra
mondiale rischiavano di essere messi in pericolo dall’onda sovversiva».
«Man of the People»
Ma
come era nata questa simpatia del grande scrittore antifascista per il
capo delle squadracce in camicia nera? A riportare alla luce gli
articoli di Hemingway è Mauro Canali nel bellissimo e documentato libro
La scoperta dell’Italia. Il fascismo raccontato dai corrispondenti
americani (Marsilio, pp. 495, € 20). Lo storico passa in rassegna la
carta stampata statunitense dall’inizio del secolo alla Guerra fredda. E
dimostra con dovizia di dati che, fino all’ascesa dell’altra dittatura,
quella nazista, le pubblicazioni a stelle e strisce - dal Chicago Daily
News al Chicago Tribune, dal Public Ledger di Filadelfia al New York
Herald Tribune al New York Times - ospitarono assai di frequente
interventi di giornalisti sostenitori del regime italiano.
Il
tiranno veniva descritto come un condottiero abile e spregiudicato, che
meritava l’applauso per le origini modeste, per le notevoli promesse di
cambiamento fatte al popolo italiano e per la capacità di mettere a
tacere i vecchi politicanti. Era considerato da cronisti e inviati
americani un vero «Man of People». Furono dunque numerosi gli
editorialisti d’oltreoceano che accettarono di farsi megafono e
portavoce di questa raffigurazione del dittatore che prometteva «una
seria riforma del capitalismo», come scrive Canali, «con l’aggiunta di
elementi di umanitarismo sociale».
Il dinamismo e l’improntitudine
mussoliniana soggiogarono tra gli altri il notissimo Walter Lippmann
che nel 1927, con The World, cercava di avere presa sulla comunità
italo-americana. E ammaliarono Ida Tarbell, detta la «rossa radicale»
per la vicinanza alle posizioni del movimento socialista americano, che
nel 1926 si innamorò di Mussolini al punto di scrivere articoli senza
mai accertare la veridicità delle informazioni fornitele dai funzionari
del regime. La Tarbell rappresentò gli italiani in camicia nera come un
popolo laborioso, felice e sempre in festa.
I reportage di Anne
O’Hare McCormick fecero gran scalpore sul supplemento domenicale del New
York Times poiché definivano il fascismo come un movimento «spietato»,
ma giusta espressione della rivolta dei giovani «stanchi degli armeggi
dei parlamenti, delle prudenti formule della ragion di Stato». Persino
la marxista e femminista Louise Bryant, moglie di John Reed, fu
attratta: dopo essere stata in Russia nei giorni della Rivoluzione
d’Ottobre, scoprì nell’italiano di Predappio l’esponente di una nuova,
intrigante «razza» politica. E per tanti altri corrispondenti, da Edgar
Ansel Mowrer, prestigiosa firma del Chicago Daily News, ad Arnaldo
Cortesi del New York Times, poi premio Pulitzer, a Floyd Gibbons del
Chicago Tribune, la suggestione mussoliniana si mantenne intatta fino
alla metà degli Anni Trenta.
«Il più grande bluff»
Per
Hemingway, invece, in assoluta controtendenza, il fascino del despota si
esaurì rapidamente. Nel gennaio del 1923, resosi conto del grave errore
in cui era incorso, stigmatizzerà Mussolini come «il più grande bluff
d’Europa», denigrando pure le fattezze del «portatore di piccole idee
espresse con grandi parole» e rilevando che «c’è qualcosa di sbagliato,
anche istrionicamente, in un uomo che indossa ghette bianche assieme a
una camicia nera». Lo irrise sostenendo che stava conducendo un gioco
pericoloso «organizzando il patriottismo di una nazione senza essere
sincero». Racconterà infine che, entrato nella stanza dove si teneva la
conferenza, lo vide «seduto alla scrivania intento a leggere un libro
con il famoso cipiglio sul volto». Sbirciando dietro le sue spalle si
accorse che «si trattava di un dizionario francese-inglese tenuto a
rovescio».
Nonostante il carisma attribuito a Mussolini dai
quotidiani e dai magazine americani, vi fu comunque anche un consistente
numero di scrittori e giornalisti che si sottrasse alla fascinazione:
Francis Scott Fitzgerald, per esempio, non si fece condizionare. Il
romanziere, giunto a Roma nel 1924 con la consorte Zelda, fu colto da
repulsione e disgusto di fronte alla situazione della capitale e della
penisola. Definì l’Italia una terra morta e scrisse che «chiunque fosse
illuso dallo pseudodinamismo sotto Mussolini è illuso dall’ultima
spasmodica contrazione di un cadavere». Alla prova dei fatti «the Man of
People» si stava mostrando un ciarlatano e il suo tanto esaltato appeal
era inesistente.