La Stampa 30.10.17
Wole Soyinka
“Ma il comunismo s’è rivelato troppo piccolo per la mia Africa”
L’impatto delle idee bolsceviche nelle lotte di liberazione del continente: parla lo scrittore nigeriano premio Nobel
di Francesca Paci
Poi
c’è l’Africa. Che rapporto ha avuto l’assalto al Palazzo d’inverno con
il continente icona del colonialismo? «It’s complicated» scherza Wole
Soyinka dalla natia Abeokuta, dov’è tornato dopo l’esilio negli States.
Classe 1934, il grande drammaturgo nigeriano premio Nobel per la
letteratura ha attraversato con il XX secolo la contraddizione tra la
modernità dell’ideologia politica e una tradizione antica. L’ha fatto
sin dal primo romanzo Gli interpreti, tradotto come molti altri da Jaca
Book, e poi scrivendo, adattando per il teatro Brecht, Genet. In questi
giorni, racconta, ha recuperato dalla grande libreria il libro della sua
educazione sentimentale, L’atto della creazione di Arthur Koestler, «un
comunista devoto diventato poi anti-totalitario».
Si sente l’eco
del 1917 e della teoria leninista dell’imperialismo fase suprema del
capitalismo nei movimenti anti-coloniali africani?
«Inizialmente
la Rivoluzione d’Ottobre ebbe un’impronta nazionalista, ma poi la sua
influenza si diffuse a livello internazionale coinvolgendo anche la
diaspora africana che allora affrontava problemi come la schiavitù e
aveva bisogno di quella spinta ideologica. L’impatto sulla galassia
panafricana dell’epoca fu forte. C’era il sociologo Du Bois che
associava completamente l’esperienza sovietica alla causa
dell’emancipazione dei neri e che ebbe grande presa sull’intellighenzia
africana, gli studenti e i movimenti di liberazione. Sin dai primi anni
30 i congressi panafricani di Parigi e Roma moltiplicarono i rimandi al
leninismo con l’effetto di galvanizzare il tema dell’indipendenza a
livello culturale oltre che politico».
È stato sedotto dal comunismo?
«Ovviamente
sì. Faceva parte di un sentire mondiale, respiravamo l’aroma della
rivoluzione che dall’Urss si era diffuso alla Guerra civile spagnola.
Molti africani si arruolarono nelle Brigate Internazionali. Alcuni
intellettuali presero a chiedersi poi quale ideologia sarebbe stata più
adatta al nostro continente dopo la liberazione, già nei primi Anni 40
ci si poneva il problema di superare il colonialismo, consapevoli che
l’indipendenza non fosse abbastanza».
Che risposte si diede?
«A
un certo punto si credeva che il comunismo fosse la panacea, il mondo
viveva una trasformazione e l’Africa ne partecipava. Io sono stato
consapevole sin dall’adolescenza dei rischi del totalitarismo e della
minaccia dell’ideologia comunista applicata alla realtà, capivo che non
c’era giustizia sociale senza libertà. Sono cresciuto in un’atmosfera in
cui già negli anni 30 si affrontavano questi temi. La lotta di classe è
venuta dopo, e avevo già le idee chiare».
C’è un episodio in particolare che le aprì gli occhi?
«Crescevo
nel mio ambiente, la classe media nigeriana. Mia zia era una radicale,
anche mio padre lo era. Ascoltavo i dibattiti, molte cose erano confuse
ma ne ricordo una chiaramente: capivo che, chiunque fossero gli
oppressori, dove c’era una oppressione c’erano degli oppressi e la
liberazione era legittima. Quando nel 1954 andai all’università in Gran
Bretagna e trovai docenti e compagni comunisti o stalinisti, ero
vaccinato. I testi del marxismo non mi sedussero, non sarei mai potuto
diventare comunista. Ma sono sempre stato socialista».
Cosa rappresentano nella sua esperienza Auschwitz e i gulag, gli spettri del Secolo breve?
«Sono
due approcci diversi allo stesso obiettivo di controllare le menti:
ingegneria sociale. Anche l’Africa ha avuto i suoi problemi con l’eco di
quei totalitarismi. Durante la guerra di liberazione la prima
generazione dei nostri leader aveva bisogno di uno strumento ideologico
forte per contrastare il nemico, fisicamente e politicamente. Molti di
loro abbracciarono l’ideologia comunista ma poi se la appropriarono per
opprimere il popolo. Il dittatore etiope Menghistu si proclamava più
stalinista dello stalinismo e voleva solo perpetrare il suo potere. Per
quelli come me era dura, se criticavi questi dittatori passavi per
reazionario al soldo del capitalismo, in caso contrario eri di fatto
ideologicamente schiavo. Lottavamo su due fronti».
Come i musulmani oggi. L’islam fondamentalista sta sostituendo le ideologie del ’900?
«I
taleban cacciarono i sovietici dall’Afghanistan e imposero la loro
teologia, una lettura del Corano dogmatica come il manifesto comunista.
L’ideologia religiosa può essere totalitaria».
Cosa salva della rivoluzione del 1917?
«Il
pensiero di Marx resta valido in termini di prospettive. Il comunismo è
stato più di un sogno, ma si è suicidato perché ha tentato di ridurre
l’umanità alla statistica».
C’è un testimone da raccogliere sul piano culturale?
«I
dittatori africani filo-sovietici hanno scoraggiato la cultura
tradizionale, tutto quanto non preparava alla lotta di classe era
superfluo. Alcuni giovani li seguirono, abbiamo perso così un gran
numero di promettenti scrittori. Molti non sapevano neppure che ci fosse
stata una cultura africana precedente alla Rivoluzione d’Ottobre,
sembrava che tutto fosse iniziato nel 1917. Erano intellettuali africani
a cui la storia africana andava stretta, proni a un’altra forma di
potere coloniale. Oggi invece sta fiorendo una nuova cultura che non ha
nulla di marxista, nonostante il tentativo di imporcelo il comunismo è
troppo piccolo per l’Africa».
Nell’immagine grande un
manifesto del 1920 che mette a confronto il settembre 1917 (a sinistra),
quando il proletariato era solo nella sua lotta, con l’ottobre 1920,
quando è l’angelo sterminatore bolscevico a condurre la guerra contro
nemici che si chiamano Intesa, Francia ecc. e contro tutti gli
oppressori. La scritta in basso recita «Evviva l’Ottobre rosso globale»