La Stampa 28.10.17
Quando vince la nostalgia del passato
Gli Imperi vengono e vanno
di Marta Dassù
Gli
Imperi vengono e vanno. Nel 1884, l’Impero britannico era così
dominante da imporre che il meridiano di Greenwich diventasse l’orologio
del mondo. Questa decisione causò l’irritazione di Parigi, storica
rivale di Londra; ma fu resa più o meno inevitabile dal dominio
marittimo della Gran Bretagna di allora. Più di un secolo dopo,
Greenwich rimane lo standard su cui si allineano le lancette di tutti.
Ma la Gran Bretagna ha perduto la sua grandezza. Lo stesso è accaduto
all’Impero zarista o all’Impero ottomano. E pochi giorni fa, al 19°
Congresso del Partito comunista, il leader dell’ex Impero di Mezzo, la
Cina, ha dovuto promettere che il suo Paese tornerà all’antica gloria
nel giro di pochi decenni.
Gli storici contemporanei, da Paul
Kennedy a Niall Ferguson, hanno dimostrato che questo ciclo - l’ascesa e
il declino delle nazioni imperiali - si ripete a tutte le latitudini.
Ma hanno forse trascurato quello che colpisce oggi: un Impero può anche
dissolversi, anzi ciclicamente si dissolve. Ma la sua eredità resta
potente sul piano emotivo. Nei Paesi ex imperiali, la nostalgia - il
rimpianto di ciò che era e non è più - sta diventando un elemento
fondante della politica interna. E quindi delle relazioni
internazionali.
Prendiamo il caso della Gran Bretagna. Sarebbe
quasi impossibile capire il dibattito su Brexit senza tenere conto che
la perdita dell’Impero resta un trauma nazionale non dichiarato, Freud
direbbe rimosso. I britannici sembrano ancora immersi nel limbo
denunciato con chiarezza da Dean Acheson, segretario di Stato americano,
nel 1962: «La Gran Bretagna ha perso un Impero e non ha ancora trovato
un ruolo». Per chi ha perso un Impero proprio, è difficile pensarsi
parte di un Impero altro, come potrebbe essere definita, in forme sui
generis, l’Unione europea. E in effetti, il ruolo della Gran Bretagna
nell’Ue è sempre stato contrastato, sia da parte inglese sia europea: in
uno dei passaggi migliori del suo discorso a Firenze su Brexit, la
prima ministro Theresa May ha ammesso che questo senso di estraneità fra
l’isola e il continente non si è mai dissolto del tutto. Anche perché
l’ambizione britannica rimane quella di sempre: restare al comando del
proprio destino. Magari, come dichiarato con una certa superficialità
dai Brexiteers, costruendo relazioni commerciali da «Impero 2.0». Un
futuro immaginario, in nome della nostalgia del passato.
La
peculiarità dei nostri tempi, tuttavia, è che la Gran Bretagna non è
un’eccezione o il sintomo più estremo di questa sindrome della politica
contemporanea. Pochi Paesi appaiono immuni all’ascesa di leader che
fanno appello alla gloria nazionale passata; che coltivano e usano
volutamente la nostalgia, insomma, per guadagnare consenso. Si va dagli
slogan alla Donald Trump («Make America Great Again»), ai disegni di Xi
Jinping sulla riaffermazione della potenza cinese, alle rivendicazioni
di Vladimir Putin nell’ex sfera di influenza dell’Impero russo e
sovietico, alle ambizioni neo-ottomane di Recep Tayyip Erdogan. Sembra
l’epoca del nazionalismo nostalgico.
Meccanismi di questo genere
sono sempre esistiti, in realtà. La novità è che oggi possono fare leva
su una vera e propria epidemia di nostalgia, che tende ad idealizzare il
passato, a considerarlo per molti versi migliore del presente. Le
ragioni sono in parte socio-economiche: la percezione secondo cui si
«stava meglio prima» è diffusa nella classe media occidentale, come
risultato della crisi finanziaria del 2008. Si aggiungono ragioni
demografiche: la popolazione che invecchia - fenomeno che comincia a
coinvolgere dopo l’Occidente anche le nuove potenze economiche, Cina per
prima - è più vulnerabile al rimpianto del passato. E gioca un peso
indubbio il ritmo dell’innovazione tecnologica, alimento continuo di
ansia nostalgica per individui e nazioni, impegnati in una competizione
costante.
Certo, la nostalgia, risposta psicologica comprensibile
all’impatto «spiazzante» della globalizzazione, ha anche forme per così
dire «benigne»: la consapevolezza della propria storia ha il sapore
della rassicurazione. Ed una forte coscienza nazionale è un fondamento
decisivo per la solidità di una comunità. Vale ancora la frase di
Vladimir Nabokov: «One is always at home in one’s past» (si è sempre a
casa nel proprio passato). Tuttavia, la nostalgia - nonostante la sua
aurea romantica - diventa spesso una patologia; e andrebbe considerata
come tale. Quale forza potente delle relazioni internazionali di oggi,
andrebbe contenuta invece che accarezzata dalla politica.
Siamo in
una fase di transizione del potere globale, per sua natura rischiosa.
Gli Stati Uniti non sembrano più avere la volontà di garantire per tutti
la stabilità del sistema internazionale emerso dalle guerre del secolo
scorso. I vecchi Paesi sconfitti, grandi potenze economiche, si muovono
ormai liberamente: mentre la destra estrema fa il suo ingresso al
Bundestag, il premier giapponese Abe progetta di modificare la
Costituzione pacifista imposta dai vincitori. E’ la fine definitiva del
secondo dopoguerra, in Europa e in Asia. Che lascia spazi alle potenze
autoritarie. Mentre gli equilibri economici si spostano verso Est, le
migrazioni modificano i vecchi assetti Sud-Nord e gli attori non statali
competono per l’influenza globale come mai in precedenza.
La
combinazione fra queste scosse tettoniche all’ordine globale e la
diffusione orizzontale di sentimenti nostalgici non può che creare
tensioni nazionali. O nazionalistiche. Tensioni rischiose e spesso
irrazionali. Nostalgia del passato o coraggio di abbracciare il
presente? Su questa scelta psicologica, in parte generazionale,
democrazie occidentali e potenze autoritarie in ascesa si contenderanno
il futuro.