La Stampa 27.10.17
Gillo Dorfles
“La Rivoluzione oggi vive nello stato sociale europeo”
“L’arte? Da allora per fortuna si è affrancata dalla politica”
di Francesca Paci
Il
secolo breve è lunghissimo per Gillo Dorfles: il maggiore critico
d’arte italiano ha 7 anni quando Lenin assalta il Palazzo d’Inverno, ne
ha 12 alla marcia su Roma, 58 durante la Primavera di Praga. Annuisce
sfogliando il suo nuovo libro edito da Bompiani, Paesaggi e personaggi,
mentre prende il tè con l’allievo e filosofo Aldo Colonetti
nell’appartamento al sesto piano di un palazzo milanese Anni 30. Intorno
a lui volumi, sculture, quadri dell’epoca in cui frequentava Fontana
come aveva frequentato Toscanini, foto di una vita fatta anche di sport
(«Ho sciato fino alla scorsa stagione e non sarà l’ultima volta!»).
Racconta l’esperienza estetica della Rivoluzione d’ottobre lisciando a
tratti l’elegante abito marrone, impeccabile. Lo ha sempre vestito,
spiega, un sarto piccino che per prendergli le misure si serviva di uno
sgabello. È morto, come molti che ha conosciuto. Come il Novecento.
La Rivoluzione d’ottobre si porta i suoi anni come l’incredibile Dorfles?
«Non
è invecchiata affatto male, cento anni fa nessuno avrebbe detto che
stava iniziando una nuova era politica. Ed effettivamente la rivoluzione
russa ha aperto le porte a una nuova considerazione del rapporto tra
uomo e nazione».
Ricorda quei giorni che sconvolsero il mondo?
«Quasi
nulla se non che l’eco arrivava anche a un ragazzino come me, mi
colpiva che si facesse una rivoluzione per ragioni politiche».
Cosa resta del 1917?
«Moltissimo,
anche se la sua valenza simbolica non corrisponde più a ciò che allora
si pensava dovesse diventare. Tutto l’apparato sociale dell’Europa
odierna dipende da quelle giornate memorabili».
Con l’intellighenzia è stata purgata anche l’utopia?
«Difficile
da dire. Grandi intellettuali di prima della rivoluzione continuarono
ad agire con i loro scritti. Gente come Majakovskij o Malevich ebbe
un’importanza enorme perché la rivoluzione economica e sociale di quella
che sarebbe diventata l’Urss aveva bisogno di pilastri intellettuali e
loro lo furono. Certo, presto vennero messi da parte. Ma dopo un po’ il
clamore intellettuale della rivoluzione si estese fuori dalla Russia».
Come si passa dalla Gontcharova al realismo socialista di Kustodiev, il pittore del Bolscevico?
«I
Kustodiev sono un errore temporaneo. Dopo la rivoluzione della
Gontcharova la loro arte passa senza lasciare traccia. È successo anche
in Italia dopo la grande avventura futurista».
Nel 1923 nasceva
l’Urss e lei leggeva Proust. Nel ’38, tra Stalin e le leggi razziali in
Italia, dipingeva già da tempo. Niente politica?
«Sono stato un
anti-nazista precoce. Pur amando la cultura tedesca, Hitler mi suscitava
una repulsione antropologica, andai in Germania a 18 anni e lui c’era,
sentii solo vibrazioni negative».
È stato amico di Lelio Basso. Ha mai simpatizzato per il comunismo?
«Basso
era uno di famiglia. Ma non abbiamo avuto rapporti politici. Non mi ha
mai appassionato il comunismo militante, non sognavo che l’Europa
diventasse comunista».
Il design industriale è figlio dell’utopia
mutuata da Marx attraverso Gramsci di una sintesi tra sviluppo
socio-economico e culturale?
«L’interesse per il design
industriale si diffonde soprattutto per ragioni pratiche e tecnologiche,
fuori da ogni ideologia socialista. Ovviamente i Paesi socialisti tipo
la Cecoslovacchia accettarono il design, quelli che lo rifiutarono
restarono indietro. A Praga c’era una tradizione di arti applicate su
cui si poté far leva preservando una certa autonomia dalla politica. Il
contesto politico può pesare, ma il design non è liberatorio, è utile».
Trova efficace la definizione di secolo breve?
Ride.
«Ho cominciato il secolo senza sapere che fosse breve... Mi interessa
soprattutto il cambio di passo impresso dal ’900. La tecnologia diffusa
che diventa lingua parlata di una nazione è tipica del nostro tempo,
prima c’era l’ideologia tecnologica senza applicazioni. Poi, grazie alle
applicazioni pratiche, si è arrivati alla modernità del pensiero
tecnologico. E la tecnologia applicata alla vita viene in parte da quel
vento del ’17».
Una volta l’architetto americano Wright le disse
che il Bauhaus aveva contrastato il totalitarismo ma aveva finito per
crearne un altro. Cioè?
«Wright era il migliore. E aveva ragione:
il Bauhaus scappava dal totalitarismo ma creò un modello estetico
rigido, un approccio architettonico ortogonale e non curvilineo».
Abbiamo trovato un’identità estetica alternativa a quella della Guerra fredda?
«Oggi
è tutto diverso, la relazione tra politica e arte è molto meno
importante. L’arte ha raggiunto una propria autonomia, ed è un bene».