La Stampa 24.10.17
Xi e Abe, Il vento del nazionalismo soffia sull’Asia
di Stefano Stefanini
Tokyo
risponde a Pechino. Nel manto di riti arcani, il 19° Congresso del
partito comunista cinese incorona Xi Jinping nell’empireo finora
riservato a Mao Zedong e, a mezza pensione, a Deng Xiaoping. Con
un’elezione a sorpresa Shinzo Abe sbaraglia l’opposizione e si avvia
trionfalmente ad un terzo mandato, senza precedenti nel Giappone del
dopoguerra. Quanto poco penetrabili le procedure cinesi, tanto
trasparenti le urne giapponesi. In comune, il risultato: entrambi i
leader hanno stravinto.
Centralismo cinese e democrazia giapponese
sono sistemi inaccostabili. La consacrazione di Xi è frutto di
un’accurata preparazione e di una paziente accumulazione di potere; le
dimensioni del successo di Abe erano invece inaspettate. Egli torna alla
Dieta con una maggioranza di due terzi più per inettitudine
dell’opposizione che per travolgente popolarità. Potrà proseguire la
politica economica antirecessiva («Abenomics») che sta lentamente
facendo uscire il Giappone dalla stagnazione. Soprattutto ha i numeri in
Parlamento per la riforma della Costituzione pacifista. Le vie di
Pechino e di Tokyo s’incrociano nel risveglio di assertività nazionale.
Parliamo
delle due maggiori potenze dell’Asia-Pacifico, rivali storici, con un
contenzioso territoriale, le isole Senkaku (o Diaoyutai), e
profondamente diffidenti l’una dell’altra. Nelle sue tre ore e mezzo di
discorso Xi Jinping non ha fatto mistero dell’ambizione cinese di essere
(o tornare ad essere) «grande potenza» anche militare («di prima
classe»). Finiti i tempi in cui Pechino chiedeva solo di essere lasciata
in pace per crescere; adesso vuole riprendere il rango internazionale
che le spetta.
Questa «nuova era» cinese, la terza dopo quelle di
Mao e di Deng, solleva interrogativi alla Washington che pensa (qualcuno
c’è ancora). L’Europa sembra troppo immersa nelle piccole diatribe
catalane, britanniche, immigratorie, elettorali per riflettere. I vicini
asiatici non hanno però dubbi; Pechino punta alla supremazia regionale:
subordinarsi o resistere? In questo gioco di potere, non solo
strategico-militare ma anche economico, riaffiorano anche brezze
nazionaliste. Paesi come Cina, Corea, Vietnam, Giappone hanno una forte
identità nazionale, cementata da cultura, storia, consenso politico. Ci
vuole poco a mobilitarla.
L’Asia orientale è disseminata di micce,
grandi e piccole, che un nonnulla può accendere: Corea del Nord, con
missili e testate nucleari; Taiwan; il Mar cinese meridionale dove
Pechino sta trasformando scogli in isole artificiali; persino le latenti
tensioni con Hong Kong sono affiorate nel discorso di Xi. Non c’è un
sistema di sicurezza collettiva come la Nato. L’equilibrio è sempre
stato assicurato dalla presenza americana. Lo è tuttora, ma per quanto?
Donald Trump ha iniziato la presidenza cestinando il Tpp (Partenariato
Trans-Pacifico) e lasciando via libera alla Rcep (Regional Comprehensive
Economic Partnership) targata Pechino. Con un’amministrazione Usa che
ragiona nei termini utilitari di «America first» anziché di leadership,
mondiale o regionale, bisogna pensare da soli alla sicurezza e alla
stabilità.
Terza potenza economica mondiale, il Giappone è perno
essenziale della stabilità regionale. E’ l’unico nell’area che abbia il
potenziale industriale e militare per bilanciare crescita e
modernizzazione delle capacità militari cinesi, promesse da Xi Jinping.
Ma deve allentare i rigidi vincoli della Costituzione nipponica che
limitano severamente operatività e utilizzo delle forze armate. Questo è
quanto Abe vuole realizzare – e adesso ha la maggioranza per farlo.
Il
ritocco costituzionale del pacifismo giapponese non innervosirà
soltanto la Cina. L’intera regione ha la memoria lunga. La Corea non
dimentica l’occupazione. A settant’anni dalla fine della guerra non c’è
un trattato di pace con la Russia, causa la controversia sulle isole
Kurili.
Sarebbe ingiustificato tacciare il premier giapponese di
nazionalismo. Non è stato quello a rieleggerlo. A Tokyo, tuttavia, come a
Pechino o a Seul, si respira oggi un’atmosfera di consenso e
sensibilità nazionali che investono anche difesa e sicurezza. Sta al
buon senso dei leader, a cominciare da Abe e Xi, tenerla sotto
controllo; nel riformare la Costituzione, Tokyo deve rassicurare i
vicini sulla propria vocazione difensiva. Sta anche agli Usa restare
l’ago della bilancia nella regione. E magari non dare brutti esempi. Fra
troppi «first» i conflitti diventano inevitabili.