Corriere 24.10.17
1917-2017 Da oggi in edicola con il
quotidiano un libro di Silvia Morosi e Paolo Rastelli sulle cause e le
conseguenze della sconfitta subita dal nostro esercitosul fiume Isonzo.
Lo storico Gibelli: non vi fu alcuno «sciopero militare», i soldati
lottarono ma si affermò l’idea che i «sovversivi» avessero minato la
resistenza
Caporetto Fu un momento terribile Ma l’Italia riuscì a reggere
di Antonio Carioti
È
passato un secolo, ma la disfatta subita dall’esercito italiano il 24
ottobre 1917 è un evento che persiste nella memoria collettiva, come
sottolineano Silvia Morosi e Paolo Rastelli nel volume Caporetto , in
edicola da oggi con il «Corriere della Sera». Lo ribadisce il professor
Antonio Gibelli, autore di vari saggi sul Primo conflitto mondiale, il
più recente dei quali è La guerra grande (Laterza, 2014). «I termini
esatti di quanto avvenne restano nel vago, ma si ricorda tuttora
un’emozione d’intensità straordinaria», dichiara lo studioso al
«Corriere».
D’altronde i contorni della sconfitta rimasero oscuri
anche cento anni fa, almeno nell’immediato: «Nelle prime due settimane
dopo lo sfondamento austro-tedesco — ricorda Gibelli — si diffusero le
notizie più contraddittorie, spesso inventate, che filtravano attraverso
le maglie della censura e della propaganda. Come scrisse il grande
storico francese Marc Bloch proprio riguardo alla Prima guerra mondiale,
si pensava che tutto potesse essere vero, tranne le notizie ufficiali.
Così all’emozione si aggiunse il mistero. Era chiaro che le nostre forze
avevano subito una grave sconfitta, ma non se ne percepì la portata
esatta, almeno fino a quando, dopo la ritirata, la linea della
resistenza non si attestò sul Piave».
E il nemico venne fermato:
«Sì, ma questo — nota Gibelli — non bastò per cancellare l’angoscia
provata in quei giorni di panico, anche se poi la guerra terminò con la
vittoria dell’Italia. Oggi nella toponomastica Caporetto non esiste più:
si trova in Slovenia e si chiama Kobarid, un luogo dove la memoria
della battaglia è modesta. Ma nella lingua italiana il nome proprio di
quel centro abitato è diventato un sostantivo comune che si usa in modo
proverbiale per indicare una vicenda terribile. È stata una Caporetto,
si dice quando si verifica un clamoroso fallimento».
Quanto influì
il bollettino in cui il comandante supremo, Luigi Cadorna, scaricava la
responsabilità della disfatta su alcuni reparti «ritiratisi senza
combattere o ignominiosamente arresisi al nemico»? Gibelli non ha dubbi:
«Quelle parole ebbero un peso enorme, furono un momento chiave della
crisi nazionale, anche se il governo intervenne per censurare e
modificare il testo del bollettino. Passò comunque l’idea che i primi
responsabili della sconfitta erano i soldati pavidi e poco patriottici,
che avevano buttato le armi ed erano scappati, o addirittura avevano
tradito. Si confermava così il pregiudizio verso le “classi pericolose”,
quelle più umili, sospettate di un disfattismo sconfinante nella
sovversione».
C’era qualcosa di vero? «Ben poco. Non vi fu alcuno
“sciopero militare”. Le unità militari in prima linea fecero il loro
dovere, ma furono travolte da forze nemiche superiori e meglio
organizzate. Dopo la rottura del fronte ci furono episodi di
dissolvimento dei reparti e fuga disordinata, di sbandamento e anche di
saccheggio. Si racconta di cantine dove i soldati foravano le botti per
spillare il vino o di negozi svaligiati in un clima carnevalesco. Ma
tutto ciò fu una conseguenza, non certo la causa, della rotta di
Caporetto».
Tuttavia il bollettino venne creduto: «La voce
innescata da Cadorna — ricorda Gibelli — s’inseriva in clima generale di
stanchezza per la guerra, se non di ribellione dei soldati, che
impauriva molti. In Russia l’esercito era in disfacimento e i
bolscevichi si apprestavano a prendere il potere. Cresceva lo spettro
rivoluzionario, alimentato dall’esasperazione per un massacro senza
fine».
Però Cadorna venne sostituito, l’esercito resse e si avviò
un’inchiesta su Caporetto: «Con l’arrivo di Armando Diaz al comando
supremo, migliorò il trattamento dei soldati e si presero misure
importanti per sollevarne il morale. La commissione d’inchiesta su
Caporetto, operativa dal gennaio 1918 alla primavera del 1919, fece un
lavoro egregio, raccogliendo documenti e testimonianze in gran quantità.
Ne uscì smentita la tesi dello sciopero militare, mentre emersero le
responsabilità di alcuni alti ufficiali. Ma l’esito della guerra finì
per mettere la sordina all’inchiesta: ad esempio si evitò di criticare
Pietro Badoglio per la mancata azione delle sue artiglierie a Caporetto,
visto che in seguito era stato il vice di Diaz nei momenti decisivi
della resistenza sul Piave e della vittoria».
Poi, aggiunge
Gibelli, venne il fascismo: «Quando il generale Angelo Gatti, vicino a
Cadorna, gli disse che voleva ricostruire le vicende di Caporetto,
Benito Mussolini gli rispose che non era tempo di storia, ma di miti. Il
Duce fece cadere nel nulla l’inchiesta e anzi nominò Cadorna
maresciallo d’Italia. Il fascismo aveva tutto l’interesse a non fare
chiarezza per proiettare sui suoi avversari politici l’immagine del
nemico interno, del disfattismo che prima aveva causato la sconfitta di
Caporetto e che poi, secondo il mito ulteriore della “vittoria
mutilata”, denigrava i combattenti e impediva all’Italia di cogliere i
frutti dei suoi sacrifici».
Qui emerge anche l’ambiguità della
reazione italiana dopo la disfatta: «Il Paese si mobilitò intorno
all’esercito, visto che la guerra da offensiva era diventata difensiva:
si trattava di fermare l’invasore. Ma questo slancio patriottico
conteneva il germe dei conflitti futuri: le sue energie erano rivolte
anche contro coloro che si erano opposti all’intervento nel 1915 ed ora
erano accusati di tramare ai danni della nazione».
Giuseppe
Prezzolini scrisse che Caporetto aveva giovato all’Italia, rendendola
consapevole dei suoi limiti, mentre il troppo facile successo di
Vittorio Veneto aveva fomentato illusioni nocive. «È una lettura un po’
autodenigratoria — risponde Gibelli — che non mi sento di avallare.
Considero un errore vedere Caporetto come il paradigma e il riassunto
della nostra storia. L’Italia liberale dimostrò una notevole capacità di
reggere allo sforzo bellico, ben superiore a quella che ebbe il
fascismo nella Seconda guerra mondiale. E anche se l’ingresso nel
conflitto fu una forzatura e la vittoria fu enfatizzata, non
minimizzerei la capacità del Paese di affrontare una prova così ardua».