Corriere 24.10.17
Gli errori dei comandi Le truppe abbandonate
di Lorenzo Cremonesi
Pur sapendo che il nemico avrebbe attaccato
Cadorna sottovalutò gravemente il pericolo
Fu
una sconfitta. Anzi, una clamorosa disfatta. Un capovolgimento epocale,
tragico per l’Italia, avvenuto in poche ore. Lo sapevamo già. Ma è bene
ripeterlo. Caporetto fu davvero una Caporetto: l’esercito in rotta, i
comandi confusi, il capo supremo Luigi Cadorna che getta le
responsabilità sui soldati senza assumersi le proprie, una ritirata
disordinata, intere unità abbandonate a se stesse. In meno di due
settimane, a partire dalle prime ore del 24 ottobre 1917, si piangono
oltre 40 mila tra morti e feriti, 280 mila prigionieri, più di 350 mila
sbandati. Senza contare le migliaia di cannoni, le armi leggere di ogni
tipo, i veicoli, le munizioni, i depositi di cibo e vestiario, andati
perduti o presi dal nemico. Quasi la metà dell’intero apparato militare
italiano nel suo complesso svanito, fuori gioco. Il fronte arretra di
oltre 150 chilometri, sino quasi a Venezia.
Terrà il Piave?
Sognavamo Trento e Trieste, si mirava a Vienna, ma scopriamo che Cadorna
valuta di arretrare al Po. A Roma c’è chi pensa per un attimo a una
pace separata, in effetti alla resa. E non ci sono scusanti, neppure con
il senno delle ricerche storiche posteriori, dei vecchi diari scovati
nei cassetti e dei fondi d’archivio emersi cento anni dopo. Non serve
insistere su isolati episodi d’eroismo, non serve enfatizzare alcuni
limitati scontri a fuoco che crearono certo problemi al nemico, ma
ebbero l’unico effetto di ritardare di poco l’avanzata austro-tedesca.
Serve
invece sottolineare quanto sia stato deleterio il ruolo della stampa
allineata. I nostri giornalisti cantavano in coro la retorica della
«bella morte», inventavano vittorie e successi mai avvenuti, gonfiavano
il numero dei caduti nemici, edulcoravano quello dei nostri,
magnificavano i «corpi bruniti e tonici» irrobustiti dalla vita in prima
linea all’aria aperta, ma tacevano le difficoltà, sorvolavano
sull’olezzo dei cadaveri imputriditi nella terra di nessuno, sul cibo
scadente, il gelo d’inverno, l’arsura d’estate.
Le «barzinate»
(dal nome dell’inviato più noto, Luigi Barzini) illudevano il grande
pubblico a casa e facevano imbestialire gli ufficiali e i soldati
scolarizzati che dalle trincee al fronte leggevano e bestemmiavano
contro tante palesi falsità. Poi, però, quegli stessi reporter nelle
lettere ai direttori e alle loro famiglie raccontavano verità che la
censura non poteva tollerare e loro si erano imposti di non dire in
pubblico pur di restare famosi e venire stampati in prima pagina: il
morale dei soldati a pezzi, l’impreparazione dei comandi, la pochezza di
risultati nelle undici offensive sull’Isonzo a fronte degli immensi
sforzi, la follia delle cariche all’arma bianca contro i nidi di
mitragliatrice, utili solo per sacrificare senza senso migliaia di
giovani vite. Questo e tanto altro non scrissero gli «inviati di
guerra». Con il risultato che i comandi militari li disprezzavano, ma al
tempo stesso li utilizzavano volentieri per legittimarsi a «eroi»
nazionali. E quello ancora più grave che mancò una coscienza critica,
non ci fu alcun pungolo al cambiamento.
Eppure, i comandi italiani
sapevano quasi tutto. Come ben sottolineano Silvia Morosi e Paolo
Rastelli nel loro Caporetto , lo stesso Cadorna il 23 ottobre, poche ore
prima dell’attacco nemico, scrive al ministro della Guerra Gaetano
Giardino, e per conoscenza al re Vittorio Emanuele III, una
«stupefacente» lettera (l’aggettivo è loro), in cui «il generalissimo
prevede con estrema precisione quanto sta per succedere». In poche
parole: le truppe scelte tedesche, smobilitate dal fronte orientale dopo
lo scoppio della rivoluzione russa, si sono affiancate agli austriaci e
hanno l’ordine di agire in modo indipendente: penetrare nel profondo
delle retrovie italiane e avanzare senza sosta. Il loro attacco sarà
preceduto da vasti bombardamenti con le armi chimiche. Si concentrerà
nella zona di Caporetto, mirando alla dorsale del Kolovrat e alla linea
Matajur-Monte Mia. Sono settimane che i disertori nemici e
l’intelligence italiana rivelano l’imminenza dell’attacco.
Cadorna
conosce persino l’ora dell’inizio dei bombardamenti nemici. Ma non fa
nulla, non prende provvedimenti, non corregge le scelte del comandante
della 2ª armata, il generale Luigi Capello, che pure da settembre non
aveva obbedito al suo ordine di predisporre le truppe in assetto
difensivo. Anzi, ancora Cadorna ordina agli ufficiali di tranquillizzare
la truppa perché le maschere antigas in dotazione sono le «migliori
esistenti». E infatti muoiono a migliaia nelle loro posizioni nel
fondovalle della conca di Caporetto.
Il tenente Carlo Emilio Gadda
ben racconterà nel Giornale di guerra e di prigionia l’incubo della sua
compagnia d’artiglieria sul Monte Nero, che per tutta la giornata del
24 ottobre resta isolata, senza ordini, intuendo che fatti drammatici
stanno avvenendo nel fondovalle, ma senza sapere che fare. Quindi la
ritirata verso l’Isonzo tra gruppi di sbandati che gettano i fucili e
non sanno come sottrarsi alla cattura.
Al suo racconto cupo,
intristito dal senso di impotente passività, fa da contraltare quello
vitale e attivo che traspare dai Diari del tenente tedesco Erwin Rommel,
nato nel 1891, due anni prima di Gadda, che con la sua unità di
assaltatori ha l’ordine di sfondare verso Udine, passando di corsa dal
Kolovrat e dal Matajur. Sono due modi opposti di concepire la guerra e
il rapporto tra soldati e comandi. Quello italiano gerarchizzato,
immobile, burocraticamente lento. Il tedesco veloce, dinamico, volto a
valorizzare le scelte degli ufficiali inferiori sul campo.
Cadorna
sarà esonerato il 9 novembre. Ancora nel pieno della sconfitta. E mai
decisione fu tanto appropriata. Tanto che appare curioso qualsiasi
tentativi di riabilitarlo, anche se cento anni dopo.