La Stampa 23.10.17
L’altra marcia su Roma
Cesare passa il
Rubicone e il gioco d’azzardo gli riesce per l’implosione della classe
dirigente dell’Urbe Uno storico rilegge la vicenda
di Luciano Bossina
Cesare
si perde nella notte. Per non farsi riconoscere ha rinunciato al suo
cavallo, noleggiato un traino di muli, e si muove nel bosco con pochi
compagni. Ma sbaglia strada. All’alba trova finalmente un pastore che lo
guida alla riva di un fiumiciattolo, il Rubicone, destinato a una fama
postuma che resiste persino al suo diverso tracciato (il corso d’acqua,
di fatto, non è più nel suo letto originario). Lì ritrova una parte,
modesta, del suo esercito, che aveva mandato innanzi. Passare o non
passare? Tutti sanno, anche i suoi soldati, che se attraversano il fiume
in armi saranno dichiarati da Roma «nemici pubblici». Scoppierà la
guerra civile. E il nemico sarà Pompeo. L’imprevisto della notte ha
causato un ritardo di ore: incidenti di questo tipo, in uomini abituati a
leggere i segni, possono riuscire paralizzanti. Cesare pronuncia una
frase celeberrima. È un gioco d’azzardo: e c’è un dado che rotola.
È
l’11 gennaio dell’anno 49: uno degli episodi più noti della storia
antica. Eppure il libro di Luca Fezzi (Il dato è tratto. Cesare e la
resa di Roma, Laterza) riesce a offrirne uno sguardo nuovo, con rigoroso
vaglio delle fonti e diverso focus storico. Il punto prospettico
infatti non è l’avanzata inarrestabile di Cesare, la pervicacia di un
condottiero che si trovava, come diceva Droysen, «nel centro del
divenire delle cose», ma la decisione inaudita, sull’altro fronte, di
Pompeo, che pochi giorni dopo, il 17 gennaio, ordina a tutti i senatori
di abbandonare Roma. Il panico è generale: le fonti descrivono le
carovane dei boni viri che lasciano la città coi familiari, i servi, le
masserizie, mentre l’incorruttibile Catone, da quel giorno, veste il
lutto.
Un modello per Mussolini
Ma per misurare il rilievo
di questo sconvolgente trapasso era necessario ripercorrere la storia
romana su due assi portanti. In primo luogo, la lunghissima serie delle
precedenti «marce su Roma», a partire dai celebri casi di Tarquinio il
Superbo e di Porsenna, fino alle più spaventose minacce di Pirro o di
Annibale, passando attraverso l’indimenticabile shock del 390, quando i
Celti di Brenno riuscirono a penetrare in città («Guai ai vinti»).
«L’Urbe, di fronte ai pericoli seri, fu sempre difesa»: e invece di
fronte a Cesare fu abbandonata. Neanche questa, come tutti sanno, sarà
l’ultima marcia su Roma: nel futuro prossimo il modello servirà a
Ottaviano, nel futuro remoto a Mussolini. E sulla resistenza della città
si misurerà sempre la tenuta delle istituzioni. In secondo luogo, la
storia ravvicinata dei tre convulsi anni che avevano portato al trauma
del Rubicone, e che a partire dall’omicidio di Clodio e dall’uso della
corruzione come strumento ormai acquisito della lotta politica avevano
segnato un degrado non più reversibile delle istituzioni centrali.
Pompeo prova alcune riforme, cancella storture procedurali e politiche
di cui tutti a Roma si lamentano, ma che nessuno in realtà, né tra il
popolo né tra i nobili, ha convenienza a riformare. Il sistema è
imploso.
Di qui la scelta irreversibile, dettata dal sospetto che
il popolo non fosse più governabile, dal timore che qualcuno avrebbe
aperto a Cesare (come infatti a Brindisi sarebbe di lì a poco avvenuto).
Ma di qui anche il tormento dei senatori: partire e schierarsi con lui?
Restare e sfidare la sua ira? Il disorientamento degli ottimati si
condensa nelle ciniche ma immortali parole di Celio: «nelle guerre
civili», scrive a Cicerone, «fintanto che la lotta si mantiene in
termini politici, senza ricorrere alle armi, si dovrebbe seguire la
parte più rispettabile; ma quando si giunge allo scontro armato, allora
bisogna scegliere il più forte».
Una scelta disastrosa
Modelli
minacciosi agiscono alle spalle dei due nemici: Cesare deve stornare il
ricordo dei Celti, per non avallare l’idea, già serpeggiante, che il
trionfatore della Gallia marci su Roma aiutato dai barbari. Pompeo deve
far dimenticare il suo passato con Silla, e l’ombra truce delle
proscrizioni. Ma un altro paradigma analogico lo scuote. Come dovrà
agire: come Pericle, che aveva difeso Atene asserragliandosi
all’interno? O come Temistocle, che aveva evacuato la città,
trasferendola sulle navi? Lo strapotere della sua flotta, e l’appoggio
che aveva a Oriente, persuadono Pompeo a portare senatori e
«marescialli» verso Brindisi, a lasciare la terra d’Italia come altre
volte avverrà nella storia. Una decisione che anche Fezzi giudica forse
inevitabile, ma che darà esito per lui disastroso. E nondimeno occorrerà
ricordare che tutto in quel momento doveva ancor compiersi, e che se
Pompeo l’anno dopo avesse vinto a Farsalo - come pure sembrava
possibilissimo - oggi saluteremmo in lui il nuovo Temistocle.
In preda al panico
Un
ultimo pensiero: il libro potrebbe essere proficuamente letto, tra
continuità e discontinuità, nel confronto con il Cesare di Luciano
Canfora (Il dittatore democratico), uscito poco meno di una ventina
d’anni fa, sempre per i tipi di Laterza. Ma è bene precisarlo: il libro
di Fezzi è più pessimistico. Perché il cuore di queste pagine non pulsa
attorno allo spudorato ma geniale calcolatore politico, che ha saputo
guadagnarsi, da nobile, il favore del popolo. Qui il principio
ordinatore lascia spazio al panico. La capitale di un impero con
ambizioni universali (Polibio), popolata ormai da 500.000 abitanti, è
abbandonata a sé stessa; la «feccia di Romolo» non ha più fiducia nella
sua classe dirigente, prona e fuggitiva, e la città non sa più
resistere. A chi solo minacci, o a chi sappia promettere, Roma apre le
porte.
Vent’anni non passano invano: nemmeno nell’Italia di oggi.