La Stampa 18.10.17
Il risiko della leadership in Asia
di Giuseppe Cucchi
Nel
declino della Russia, che nonostante l’abilità strategica di Putin non
riesce a difendere la Siberia dalla strisciante e per il momento ancora
pacifica invasione cinese, e nel sonno della ragione di una America che,
grazie al suo nuovo Presidente appare ora avvinta alla Corea del Nord
in uno stallo senza apparente via di uscita, la partita per la
leadership in Asia - il vero «grande gioco» di questo inizio del terzo
millennio - appare ora ridotta a tre soli contendenti: il Giappone,
l’India e la Cina. Già da prima i tre non si amavano molto. Fra Giappone
ed India pesa ancora l’ombra della Seconda guerra mondiale mentre fra
Cina e Giappone e Cina ed India la lista delle recriminazioni reciproche
è senz’altro molto lunga. Benché figli della medesima cultura, i due
grandi Imperi dell’Estremo Oriente hanno infatti tentato più volte
invano di conquistarsi a vicenda. Chi è andato più vicino a riuscirci è
stato il Giappone, con una invasione del territorio cinese che è in
sostanza durata dal 1931 al 1945 ed è costata alla Cina circa 35 milioni
di morti. Ai vecchi rancori di fondo pronti a riemergere alla minima
provocazione, ed al contenzioso su alcune isole del Mar Cinese
Meridionale, si è poi sommato il fatto che il Giappone sia da sempre il
più solido dei pilastri su cui poggia la politica di contenimento della
Cina perseguita dagli Stati Uniti. Fra India e Cina infine i rapporti
sono stati per parecchio tempo altalenanti, guastandosi poi solo negli
Anni Sessanta a causa di contestazioni di confine e dell’ospitalità che
gli indiani offrirono al Dalai Lama fuggiasco. Da allora, nella vecchia
logica di farsi amico il nemico del tuo nemico, Cina e Pakistan
procedono in stretta reciproca intesa sotto lo sguardo allarmato di New
Delhi che teme l’accerchiamento. Uno scenario generale molto complesso
quindi, cui si aggiungono ora i due elementi di ulteriore complicazione
costituiti dalla crisi nucleare nordcoreana da un lato, nonché dal
passaggio alla fase operativa della colossale iniziativa di
rivitalizzazione delle vie della seta lanciata dai cinesi dall’altro.
Allo stato attuale entrambi suggeriscono più domande che risposte.
Domande a cui, almeno in parte, le risposte dovrà fornirle il 19o
Congresso del Pcc che si apre a Pechino il prossimo 18 ottobre. Secondo
le previsioni esso sarà la definitiva consacrazione dello presa sul
Paese di Xi Jin Ping, che dovrebbe approfittare della sua forza per
riempire la Commissione Centrale di persone a lui legate ponendo così le
basi per un eventuale prolungamento del suo mandato oltre i normali
termini. In tale quadro il Presidente ha bisogno di successi capaci di
motivare a suo favore i delegati e la intera opinione pubblica cinese.
Crisi coreana e rivitalizzazione della via della seta acquistano in tal
modo un valore contingente del tutto particolare. In primo luogo perché
incidono sulla dimensione asiatica della politica estera cinese, quella
localmente più sentita. Esse riportano poi la Cina al ruolo di
centralità che le è storicamente caro, per cui essa ritorna ad essere
«l’Impero di mezzo», «il Paese indispensabile», «il perno di ogni cosa».
Non c’è da stupirsi che le parole d’ordine che si prevede usciranno dal
Congresso siano «consciousness and assertivness», vale a dire piena
coscienza del ruolo cinese e capacita di imporlo al resto del mondo. La
Cina assapora così fino in fondo in questo momento il gusto di essere il
Paese che gode del privilegio della iniziativa, in attesa che il
Congresso si svolga e che più tardi, in novembre, il Presidente Trump
arrivi in visita a Pechino. Si perché, al di là del panorama asiatico e
delle sue rivalità , l’orizzonte strategico cinese appare ancora
dominato dalla sfida con gli Stati Uniti, tutt’altro che rassegnati a
perdere quella posizione di assoluta leadership di cui godono nel mondo
attuale.