martedì 17 ottobre 2017

La Stampa 17.10.17
Caporetto 1917 la madre di tutte le disfatte
Il 24 ottobre di 100 anni fa la sconfitta che mise in dubbio la sopravvivenza stessa dell’Italia unita evidenziandone tutti i vizi e le tare d’origine
di  Giovanni Sabbatucci

Nella memoria storica degli italiani la parola «Caporetto» (italianizzazione di Kobarid, un villaggio sloveno oggi così indicato nelle carte e nei cartelli stradali) rappresenta molto più del nome di una battaglia perduta in una guerra alla fine vinta, molto più di una sconfitta militare, per quanto severa. Se il toponimo si è trasformato in un nome comune con tanto di articolo («una Caporetto»), come è accaduto con altri termini evocativi di disastri bellici o catastrofi naturali («una Waterloo», «una Casamicciola»), questo significa che la dodicesima battaglia dell’Isonzo, cominciata il 24 ottobre 1917 e subito trasformatasi in una rotta disordinata, fu allora avvertita da molti - e soprattutto da chi aveva visto nella guerra una prova necessaria per il consolidamento dell’identità nazionale - come una disfatta irrimediabile, una minaccia alla stessa possibilità di sopravvivenza dell’ancor giovane Stato unitario, di cui venivano evidenziati vizi e tare d’origine.
Esercito alla sbando
Le dimensioni del disastro erano difficilmente contestabili. Lo schieramento italiano rotto sull’alto Isonzo, nei pressi appunto di Kobarid, e aggirato da un’audace e innovativa manovra degli austro-tedeschi. La sorpresa, il panico, le catene di comando saltate insieme al sistema di comunicazioni. Un’intera armata dissolta, la fuga e lo sbandamento di molte unità. Un terrificante bilancio di perdite: 10.000 kmq di territorio abbandonati, 40.000 fra morti e feriti, 300.000 prigionieri, un numero ancora maggiore di sbandati da recuperare e riequipaggiare, 600.000 profughi civili, quantità enormi di materiali perduti, compresa buona parte dell’artiglieria pesante. E su tutto il rischio che le forze armate non fossero più in grado di combattere, il timore che un collasso così grave potesse aprire la strada a un esito rivoluzionario alla maniera russa. Solo il 9 novembre il generale Cadorna riuscì a portare a compimento l’ultima e la più riuscita delle sue manovre: lo schieramento difensivo sulla linea del Piave di quanto restava dell’esercito italiano.
In una guerra ottocentesca una disfatta di tali proporzioni avrebbe con ogni probabilità costretto l’Italia a uscire dal conflitto: esito disastroso per un Paese che era entrato in guerra non per difendere i suoi confini ma per conquistarne di migliori. In questo caso, i timori si rivelarono eccessivi, anche perché poggiavano su una diagnosi fondamentalmente errata: quella che riconduceva il cedimento dei reparti investiti dall’offensiva a una sorta di collasso morale, ovvero alla scarsa combattività delle truppe, se non addirittura al tradimento di alcuni reparti «vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico» (così Cadorna nel famigerato bollettino del 27 ottobre).
Gli errori dei comandi
In realtà non ci fu alcun tradimento degli uomini in divisa, né una rottura subitanea nella fibra del Paese. Certo, la stanchezza si faceva sentire in quel terribile 1917 (quasi 150.000 perdite in agosto, nell’inutile conquista della Bainsizza). Ma a soffrirne non erano solo i soldati italiani, che avrebbero combattuto valorosamente le successive battaglie d’arresto sul Piave: quando furono schierati su un fronte più corto, trattati con maggiore umanità e mobilitati in vista di un obiettivo ben comprensibile come la difesa del territorio nazionale. Gli errori veri furono quelli dei comandi. E non parlo dei singoli errori tecnici (lo schieramento troppo offensivo voluto da Capello, la posizione avanzata delle artiglierie di Badoglio), su cui tanto si è scritto e discusso. Mi riferisco piuttosto a un atteggiamento di fondo, a una sorta di pigrizia mentale che portava le alte gerarchie militari a ripercorrere sempre le stesse strade, a cercar di adattare la realtà alle loro esperienze precedenti o alle teorie apprese nelle scuole di guerra.
I comandi italiani, ad esempio, ignorarono o sottovalutarono i molti segnali che indicavano l’offensiva di ottobre come imminente perché ritenevano impossibile un’azione importante in quella stagione e in quelle condizioni meteorologiche. La tattica dell’infiltrazione in profondità, poi, colse di sorpresa le truppe schierate sull’alto Isonzo perché contrastava con la teoria che imponeva agli attaccanti di conquistare le quote e proteggersi i fianchi prima di avanzare. Il contrario di quanto i tedeschi fecero sull’alto Isonzo nel 1917 e avrebbero ripetuto su più ampia scala, e con largo impiego di mezzi corazzati, nella battaglia di Francia del 1940. Nell’uno e nell’altro caso il risultato per gli avversari fu la disarticolazione dei comandi, la confusione delle iniziative, lo sbandamento delle truppe (effetto e non causa della rottura del fronte). Esattamente le condizioni per cui una «normale» sconfitta può trasformarsi in una Caporetto.