La Stampa 14.10.17
Un milione di lavoratrici vittime di ricatti sessuali
Il caso Weinstein non è solo un fenomeno americano In Italia non abbiamo nemmeno una legge ad hoc
di Linda Laura Sabbadini
Il
caso Weinstein a Hollywood, con tante donne dello spettacolo vittime di
questo odioso atto di potere sessista, ha richiamato l’attenzione su
una forma di violenza di cui si parla ancora pochissimo: il ricatto
sessuale sul lavoro. È una forma di violenza odiosa, umiliante per le
donne, ma assai diffusa. In sostanza, l’uomo sfrutta la sua posizione di
vantaggio o di potere, per ottenere prestazioni sessuali da donne in
difficoltà o da donne che vogliono mettersi in gioco, per progredire
nella carriera.
Non succede solo negli Stati Uniti. Non succede
solo nel mondo dello spettacolo. I ricatti sessuali sul lavoro sono
un’orribile realtà anche nel nostro Paese, misurata dall’Istat nel
2015-2016. Colpiscono tantissime donne, più di un milione li ha subiti
nel corso della vita, quando cercavano lavoro, quando volevano fare
carriera o semplicemente svolgevano il loro lavoro da libere
professioniste o imprenditrici.
L’identikit delle vittime
Le
indagini dell’Istat passate evidenziavano che subiscono ricatti
sessuali più le disoccupate che le occupate, perché più vulnerabili,
avendo bisogno di lavorare; più le indipendenti che le dipendenti,
probabilmente perché vendono prodotti e servizi a grandi acquirenti, più
frequentemente maschi che possono approfittarsene; più le impiegate e
dirigenti che le operaie, perché più coinvolte in percorsi di carriera,
per i quali devono sottoporsi al giudizio di superiori, di solito
uomini.
Relazioni asimmetriche
E ci sono uomini che
sfruttano le situazioni asimmetriche a sfavore delle donne, abusano del
potere che hanno, abusando del corpo e dell’anima delle donne. «Sono
abituato a fare così, non fare storie» ordinava Weinstein, come a dire,
tu sei la mia preda, obbedisci, dispongo io di te. È la stessa logica
del possesso che porta un marito a stuprare sua moglie, un imprenditore
ad abusare della segretaria e un direttore a ricattare una funzionaria,
aspirante dirigente. È terribile, anche perché le donne vivono questo
tipo di violenza ancora più in solitudine. Solo il 20% ne parla con
qualcuno, di solito colleghi di ufficio. Solo lo 0,7% denuncia. D’altra
parte chi mai sarebbe disponibile a testimoniare? Nessuno. Chi si
esporrebbe alle ritorsioni del capo? Anche i colleghi più vicini alla
donna si sentirebbero ricattati e vedrebbero in pericolo il loro stesso
posto di lavoro.
Italia inadempiente
C’è di più. Siamo
inadempienti con il dettato della convenzione di Istanbul. Non abbiamo
una norma specifica che riguarda i ricatti sessuali sul lavoro. Lo
afferma anche il presidente di Sezione del Tribunale di Milano Fabio
Roia: «Si può utilizzare l’art. 572 del codice penale, ma solo per le
piccole imprese a conduzione familiare. Altrimenti bisogna rifarsi alla
legge sulla violenza sessuale del 1996. Ma ciò impedisce di punire tutta
quella parte di violenza che ha a che fare con le allusioni pesanti
contro la donna, quotidiane, continue, che fanno intravedere che lei è
consenziente e che è di facili costumi e la isolano dagli altri
colleghi».
La rinuncia al lavoro
È la tecnica per mettere in
un angolo la donna per ricavarne di più in termini sessuali
costringendola a stare al gioco. La maggior parte delle donne fugge,
finisce per lasciare il lavoro, sfinita dal clima insopportabile. Ma chi
non può permetterselo e magari ha da sfamare anche i suoi bambini? E
così ci troviamo nel paradosso del nostro Paese, che ha una legge
importante come quella del 1996, che vieta che la donna da vittima si
trasformi in imputata, ma che spesso nella realtà dei processi viene
disattesa, provocando un’ulteriore violenza sulla donna. Ma nello stesso
tempo su reati come questo, così gravi, non ha una fattispecie
specifica. Perché non ci si accorda trasversalmente per farla?