La Stampa 14.10.17
La nave dei bambini
A Palermo sbarcano 606 profughi, 200 sono minori
Oltre 120 senza essere accompagnati da un adulto
di Laura Anello
Dal Corno d’Africa
La
maggior parte dei 120 bambini sbarcati ieri a Palermo senza essere
accompagnati da genitori o parenti sono partiti dalla Somalia e
dall’Eritrea
È tornata l’Africa profonda, nel porto di
Palermo, con i suoi figli che chiedono terra e vita, con il suo carico
di dolore, di teste ricce in braccio alle madri, di toraci scheletrici,
di racconti di stupri e di violenze, di bocche affamate ad addentare i
panini con la marmellata offerti dalla Caritas. Di speranza, nonostante
tutto. È tornata ieri - dopo i mesi di blocco seguiti all’intesa con la
Libia - più forte di qualsiasi accordo, su nuove rotte e nuove spiagge
di partenza dei trafficanti, come una bottiglia stappata. È tornata con i
suoi bambini, un fiume di bambini nell’Europa a crescita zero.
L’assistenza
Duecento
minorenni sui 606, tutti salvati dalla nave “Aquarius” di Sos
Méditerranée, tra le poche rimaste a presidiare il Canale di Sicilia.
Centoventi di loro sono arrivati da soli, “minori non accompagnati”,
come si dice in linguaggio tecnico. E questa volta sono bambini a
partire da dodici anni, lo sguardo di chi ha già visto il deserto e le
botte nei container libici. Per lo più somali ed eritrei. Assistiti dal
Comune di Palermo che li distribuisce nei centri di prima accoglienza,
tutti con il diritto di chiedere il permesso di soggiorno, di restare in
Italia. E poi altri ottanta minorenni arrivati con entrambi i genitori o
in braccio a madri sole o ancora nel grembo di undici donne incinte.
Treccine, tutine da notte, pannolini. La mascotte ha solo sei giorni, si
chiama Salimata, nata da una madre che ha partorito da sola poco prima
di prendere il mare. Nugoli di famiglie di più di quindici Paesi del
mondo, tra cui cinquanta siriani richiedenti asilo. Egitto, Mali, Costa
d’Avorio, Guinea Bissau, Sudan, Marocco, Somalia, Eritrea, Senegal,
Camerun, Nigeria, Liberia, Etiopia, Algeria, Ghana, Benin, Gambia,
Yemen. C’è pure un turco.
La nave dei bambini. Una famiglia
siriana ne ha portati otto. Tutti i 606 sono stati raccolti in sei
diverse operazioni condotte in tre giorni, in acque internazionali a
trenta miglia a nord della Libia.
Martedì l’“Aquarius” ha salvato
prima 29 e poi 144 profughi, durante la notte ne ha accolti 36,
trasferiti da un mercantile che li aveva soccorsi. Il giorno dopo è
stata chiamata a intervenire dal Centro nazionale di coordinamento di
Roma per andare in aiuto di un altro gommone dove si trovavano 130
persone. Poi ne ha tratti in salvo 220 che si trovavano su due
imbarcazioni. E infine ha effettuato il trasferimento a bordo degli
ultimi 47 dalla nave “Vos Hestia” di Save the Children. In totale,
appunto, 606. Tanta gente malnutrita, con il diabete, con sospetta
tubercolosi.
L’inferno
Tutti a raccontare la loro storia.
Torture, violenze sessuali, fame. A giudicare dalle testimonianze, gli
accordi con la Libia hanno provocato soltanto un più lungo calvario dei
migranti in attesa di partire. «C’è gente che ha pagato anche undicimila
euro - racconta una mediatrice culturale eritrea, che ieri ha assistito
settanta connazionali - ho parlato con un uomo di 51 anni che ne ha
passati tre in Libia. Quando all’ennesima richiesta di soldi ha detto:
non posso più pagare, uccidetemi, lo hanno picchiato fino a fargli
perdere la vista di un occhio e l’udito. È stato preso a caso tra un
mucchio di ottocento, quasi non crede di avercela fatta».