internazionale 21.10.2017
La settimana
Costante
di Giovanni De Mauro
“Presidente, giudici, credo che innanzitutto io debba spiegare una cosa: perché noi donne siamo presenti a questo processo. E intendo prima di tutto Fiorella, poi le compagne presenti in aula, e io, che sono qui prima di tutto come donna e poi come avvocato. Che significa questa nostra presenza? Ecco, noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c’interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa. (…) Questo è l’ennesimo processo che io faccio, ed è la solita difesa che io sento: gli imputati svolgeranno la difesa che a grandi linee già abbiamo capito. Io mi auguro di avere la forza di sentirli – e non sempre ce l’ho, lo confesso – e di non dovermi vergognare, come donna e come avvocato, per la toga che tutti insieme portiamo. Perché la difesa è sacra, ed inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi avvocati si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina come s’imposta un processo per violenza carnale. (…) Nessuno si sognerebbe di fare una difesa infangando la parte lesa soltanto. (…) E allora io mi chiedo perché, se invece che quattro oggetti d’oro l’oggetto del reato è una donna in carne e ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza. E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare una donna venire qui a dire ‘Non è una puttana’. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza”.
Dall’arringa di Tina Lagostena Bassi nel processo per lo stupro di una ragazza di 18 anni, Latina 1978.