Il Sole Domenica 22.10.17
Luigi Cadorna
Il «generalissimo» della sconfitta
di Raffaele Liucci
«Quale
disastro più grande del mio? In dieci giorni io, l’idolo dell’Italia e
dell’Europa, si può dire, sono giunto al fondo della miseria». La
parabola del piemontese Luigi Cadorna (1850-1928), il «generalissimo»
travolto da Caporetto, sembra una metafora dell’esistenza umana, spesso
soggetta a crolli fulminei. Lui, il capo di Stato maggiore detentore di
un potere pressoché assoluto su oltre due milioni di uomini, costretto a
subire l’onta d’una Commissione d’inchiesta! Figlio di un generale che
nel 1870 aveva liberato Roma, non riuscirà mai a raggiungere Trieste
(conquistata invece dal successore, il napoletano Armando Diaz). Nel
nuovo clima di concordia nazionale, il regime fascista lo seppellì con
tutti gli onori, dedicandogli strade, piazze e un famedio nella natia
Pallanza, ma sarà soltanto un modo per rimuoverlo un po’ più in fretta.
Ancora
oggi è difficile fare i conti con una personalità tanto ingombrante,
scrive lo storico Marco Mondini: autore non di una biografia in senso
stretto, quanto di un affascinante scavo nell’universo mentale e
antropologico del «cadornismo», basato sulla riscoperta del vastissimo
archivio della Commissione d’inchiesta su Caporetto, ma anche sullo
spoglio di molta inesplorata pubblicistica militare del tempo. Soltanto
adagiandolo su un più ampio contesto storico è infatti possibile
affrancare Cadorna dagli stereotipi apologetici o denigratori.
Mondini
non tace le innegabili pecche di un uomo reputato dai suoi critici un
«macellaio», reo di aver costretto centinaia di migliaia di fanti a una
morte inutile. Però scansa anche ogni lettura anacronistica, come quella
di Emilio Lussu, autore di Un anno sull’altipiano, uscito per la prima
volta a Parigi nel 1938. Celebrato in molte antologie scolastiche,
questo memoir «a forti tinte ideologiche» ha imposto definitivamente
nell’immaginario collettivo la vulgata della Grande Guerra sul fronte
italiano «come un sadico gioco al massacro da parte di una banda di
generali psicopatici».
È vero, scrive Mondini, Cadorna fu l’uomo
dei tribunali speciali, delle decimazioni, delle insensate e sanguinose
offensive lungo l’Isonzo. Ma Cadorna non sbucava dal nulla. Era «un
generale tra altri generali», figlio di una cultura militare
ultraconservatrice nella quale i coscritti non erano titolari di
«diritti», l’esercito restava un corpo separato e chi assaltava un
avamposto con la baionetta godeva di una superiorità morale e tecnica
rispetto a chi lo difendeva («vincere significa avanzare»). Gli Stati
Maggiori europei, figli dell’Ottocento, assimileranno con estrema
lentezza le novità introdotte dalla guerra industriale di massa
novecentesca: le fortificazioni rese pressoché inespugnabili dalla
precisione e rapidità delle nuove armi difensive; la necessità di
governare un esercito di cittadini-soldati guadagnandosi la fiducia
della truppa; l’inevitabile sinergia fra il ceto militare e quello
politico.
Cadorna commise l’errore tipico di tutti i personaggi
imperiosi: circondarsi di un cerchio magico di fedelissimi. Il che ne
rafforzò l’isolamento fisico e culturale. Il capitolo dedicato alla sua
«corte feudale», pullulante di vassalli e scudieri, è uno dei più
suggestivi del libro. Dispotico, impulsivo, solipsista, il misantropo
che si aggira nervosamente fra i corridoi e i saloni dell’aereo Castello
di Udine (sede del Comando Supremo italiano) silurando in modo
compulsivo centinaia di alti ufficiali «inetti», sembra uscito dalla
penna di un Gadda o un Thomas Bernhard.
Tra i consiglieri di
Cadorna ci fu anche un altro monarca assoluto, Luigi Albertini,
direttore del «Corriere della Sera», il quale nutrì per il Capo un
«feticismo» che imbarazzava persino i fedelissimi. Ma la presenza di
Albertini richiama anche il ruolo ricoperto da altri giornalisti e
letterati (Barzini sr, d’Annunzio, Ojetti) nella costruzione del mito di
Cadorna, accettato supinamente «da una nazione in cronica penuria di
eroi», pronta però incolparlo di ogni rovina, una volta caduto in
disgrazia.
Esponente emblematico – «per certi versi persino
mediocre» – della sua generazione, Cadorna era un cattolico praticante,
fatto inconsueto per un generale formatosi in età liberale e proveniente
dall’aristocrazia militare sabauda. Riteneva l’irreligiosità diffusa
nelle forze armate un ostacolo al mantenimento della disciplina, «fiamma
spirituale della vittoria». Giudicherà sempre Caporetto
un’autobiografia della nazione. Tracollo dovuto non agli alti comandi
militari, bensì al cedimento morale della truppa, complice la
«propaganda disfattista» e pacifista nutrita dai «partiti sovversivi che
hanno inquinato l’esercito». Una versione autoassolutoria, ormai
smentita dalla storiografia.
Marco Mondini, Il Capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna , il Mulino, Bologna, pagg. 388, € 26