Il Sole Domenica 22.10.17
A 100 anni da Caporetto / Il trauma nazionale
Esame di coscienza dell’Italia
di Emilio Gentile
Dopo
la disfatta, studiosi e combattenti costituirono un Comitato per
un’analisi scientifica e politica dei fatti Una riflessione forse da
ripetere per la storia recente italiana
Si suicidò il 4 novembre
1917 il senatore Leopoldo Franchetti. Aveva settanta anni, e ne aveva
dedicati oltre quaranta, come studioso e come politico,
all’emancipazione dei contadini e del Mezzogiorno, che da giovane aveva
percorso a cavallo per conoscere personalmente le condizioni economiche e
amministrative delle province meridionali. Di famiglia ebraica
livornese, ricco proprietario terriero, conservatore liberale, lasciò le
sue terre ai contadini, che le lavoravano, e il suo patrimonio a un
istituto di beneficenza. Fautore dell’intervento italiano nella Grande
Guerra, si uccise perché affranto dalla catastrofe di Caporetto.
Per
lo stesso motivo, fu sul punto di farsi «saltare le cervella» Leonida
Bissolati: «È finita per noi. Noi dobbiamo scomparire. Noi siamo stati
coloro che hanno fatto il sogno della più grande Italia. Abbiamo voluto
creare un’Italia militare. Abbiamo errato. Costruivamo sul vuoto. Gli
italiani non erano preparati. Noi ci facevamo illusioni: noi abbiamo con
questo trascinato l’Italia a questo punto. Perciò dobbiamo pagare, e
scomparire». Bissolati non era un nazionalista: era un socialista
riformista, interventista democratico, volontario e combattente a 58
anni, assertore del principio di nazionalità, tanto che dopo la guerra
si oppose all’annessione all’Italia di territori dove la popolazione non
era in maggioranza italiana.
Il proposito del suicidio non sfiorò
il generale Luigi Cadorna, capo di Stato maggiore dell’esercito, che
addossò la colpa della disfatta alla viltà dei soldati e alla propaganda
disfattista dei neutralisti. Altri considerarono la rotta di Caporetto
uno «sciopero militare», fomentato dai socialisti e suscitato
dall’esempio della rivoluzione in Russia, oppure una rivolta dei fanti
contadini che versavano maggior copia di sangue nella «guerra dei
signori», costretti a combattere e a morire sotto la sferza di una
ferrea e spietata disciplina.
Nessuna di queste spiegazioni era
prossima alla verità di un disastro che aveva origini e cause
esclusivamente militari, anche se la gravità delle sue conseguenze
indusse molti contemporanei a considerare la rotta di Caporetto la
rivelazione di una profonda crisi morale, che coinvolgeva,
nell’attribuzione delle responsabilità, oltre ai comandi militari,
l’intera classe dirigente.
«Catastrofi come la presente non si
esauriscono in una causa occasionale, ma sono il risultato di fattori
complessi, molteplici, remoti», scriveva Giuseppe Prezzolini,
interventista e volontario in guerra, all’indomani di Caporetto, in una
delle più acute analisi delle carenze militari, politiche e sociali, che
avevano reso possibile la trasformazione di una disfatta militare in
una catastrofe nazionale, che pareva travolgere l’esistenza stessa
dell’Italia unita, mostrando la fragilità delle sue precarie fondamenta
statali e morali.
Anche se, un decennio più tardi, un grande
storico come Gioacchino Volpe, militante nazionalista e fascista,
ironizzava su quanti, per spiegare Caporetto, «la pigliavano di lontano e
rivangavano tutta la storia d’Italia, presentandola quasi come
teologicamente orientata verso Caporetto», all’indomani della
catastrofe, con il nemico che occupava gran parte del Veneto,
intellettuali e politici non afflitti da retorica ritennero necessario
affiancare, alla resistenza armata dell’esercito, un «esame nazionale»
per suscitare una resistenza morale non occasionale ma tale da operare
nel profondo della coscienza collettiva. Nel novembre 1917, alcuni
studiosi e combattenti di vario orientamento costituirono un Comitato
per l’esame nazionale, col proposito di riscrivere la storia italiana
dal Rinascimento alla Grande Guerra alla luce della rotta di Caporetto.
La
premessa dell’iniziativa non era soltanto scientifica, ma
esplicitamente politica, perché i promotori facevano risalire le
«responsabilità mediate e profonde» di Caporetto, «a cinquant’anni di
mal governo, di corruzione politica, di dittature parlamentari, di
menzogne elettorali, di assenza della scuola popolare, di voluto e
sistematicamente procurato servilismo in tutti i rami di funzionari, di
assenza di dignità, di forza, di volontà nei rappresentanti dello
Stato». L’iniziativa ebbe molte adesioni. Benedetto Croce, che pure era
stato contrario all’intervento italiano, lodò «l’ottimo proposito di
promuovere un esame di coscienza della vita nazionale» perché, avendo da
«sempre frugato con animo ansioso e doloroso le pagine della storia
d’Italia», aveva potuto «osservare che la storia, la storia vera
d’Italia, è quasi ignota a tutti».
Non fu tuttavia con i libri di
storia che l’Italia resistette dopo Caporetto fino a Vittorio Veneto,
dove concluse vittoriosamente la guerra. Eppure, se vinse, fu perché fu
in grado di trarre una lezione efficace dall’esame nazionale al quale
Caporetto l’aveva costretta.
Può apparire oggi ingenua
l’iniziativa di un esame di coscienza nazionale per fronteggiare una
disfatta militare. Eppure, una simile ingenuità fu condivisa, due
decenni più tardi, da uno dei grandi storici del Novecento, Marc Bloch,
di fronte al crollo della Francia invasa dalle armate hitleriane nel
giugno 1940, che certamente fu catastrofe nazionale di più vaste e gravi
dimensioni di quella subita dall’Italia con Caporetto. Bloch aveva
combattuto nella Grande Guerra e di nuovo era stato mobilitato
all’inizio della Seconda guerra mondiale. Anch’egli volle rendersi conto
della «strana disfatta», come la definì, del suo Paese, domandandosi:
«Di chi la colpa?». E Bloch pensava, come i suoi predecessori italiani
dopo Caporetto, che la ricerca doveva svolgersi non solo nel campo
militare, ma si doveva scovarne le radici «più lontano e più in
profondità». E sotto l’occupazione tedesca, Bloch scrisse un esame di
coscienza in quanto francese, per comprendere «il più atroce crollo
della nostra storia», confessando che non affrontava «a cuor leggero
questa parte del mio compito. Francese, mi vedrà costretto, parlando
della mia patria, a non dirne soltanto bene; ed è penoso dover
denunciare le debolezze della madre dolente». L’esame di coscienza portò
Bloch a combattere nella resistenza francese e a morire fucilato dai
tedeschi il 16 giugno 1944, dopo essere stato per mesi torturato.
A
cento anni da Caporetto, a quasi ottant’anni dalla «strana disfatta»
francese, gli esami nazionali possono apparire ingenui o anacronistici.
Tale può apparire anche il suicidio di Franchetti. Altre catastrofi ha
subito l’Italia nel corso degli ultimi cento anni, sia pure di diversa
gravità: l’8 settembre 1943; la «Caporetto economica» del 1973; il
disfacimento della «repubblica dei partiti» dopo il 1993. Ma non risulta
che ci siano stati altri nuovi esami nazionali. O, se ci sono stati,
l’Italia non li ha superati. Forse per questo l’Italia vive da decenni
sotto il segno di una perenne disfatta. Tentare allora un nuovo esame
nazionale?