Il Sole Domenica 22.10.17
Estetica
Il bello, il brutto e il tragico
di Remo Bodei
Nel
Novecento il brutto e il tragico sembrano confluire in un’unica
corrente. Gli orrori delle guerre e degli stermini hanno acuito la
consapevolezza di una condizione umana di fondo che l’armonia del bello
classico ha fatto spesso dimenticare. In questa prospettiva, il tragico
(e non solo le considerazioni precedenti sulla tragedia) riflette su ciò
che mette potentemente in contatto gli uomini con nuclei di esperienza
traumatici che necessitano di infinita elaborazione. Si tratta, infatti,
di forme e contenuti eccedenti (che racchiudono i momenti decisivi o
più solenni dell’esistenza: la nascita, il dolore, la malattia, il
passare inesorabile del tempo, i conflitti, le passioni intense, il
distacco dalla patria e dalle persone care, la morte) che, come specie e
come individui, non siamo capaci di accettare, elaborare e decifrare
completamente.
L’emozione estetica prodotta dalle tragedie – e, in
una certa misura, dalle opere d’arte in genere – aiuta a scontare in
parte e, per così dire, a rate l’importo traumatico, mettendoci a
contatto, pur con un margine di sicurezza, con quelle sofferenze che
ogni vita e ogni cultura comporta. Questo perché l’arte tragica esibisce
una famiglia di metodi per consentire una re-immersione non rischiosa e
distruttiva nel perturbante […] Non si deve però intendere la funzione
della tragedia (e del tragico che la interpreta) semplicemente come una
mitridatizzazione, un vaccino per abituarsi e rendersi insensibili al
perturbante, bensì – anche e soprattutto – come un percorso per
elaborarlo senza sopprimerlo, uno strumento per mettersi in rapporto con
esso in tutta la sua serietà […]. Si è attratti da ciò che turba,
perché lo si vuole conoscere e far proprio, pur senza consumarlo per
intero a favore di convinzioni tranquillizanti o di frettolose
razionalizzazioni. L’emozione estetica appare allora intimamente
connessa all’esperienza del disincagliarsi dalla banalità del quotidiano
e alla contrastante spinta a ripercorrere e rielaborare determinati
traumi in forma attenuata o, comunque, intrecciata al tentativo di far
fronte a interrogativi che non possono essere immediatamente assorbiti
dalla coscienza e che, in quanto tali, premono sordamente su di essa
senza ottenere plausibili risposte.
Non si tratta, dunque, di
acclimatare e depotenziare il perturbante, bensì di restarne coinvolti,
senza, tuttavia, lasciarsene vincere. È questo, probabilmente, il motivo
per cui la tragedia e l’arte in genere mantengono il mirabile
equilibrio tra l’apparente serenità della loro espressione estetica e
l’eccesso sregolato di coinvolgimento psichico che caratterizza
l’esperienza extra-artistica, incapace di mantenere le distanze rispetto
alle tragedie dell’esistenza ed esposta pertanto al pericolo di
sprofondare in un abisso informe.
Diversamente da quanto accade
per lo più nel vissuto, dove si passa dall’insensibilità e dalla
prostrazione allo slancio sregolato o al tumulto delle passioni, le
grandi opere d’arte (come esemplarmente mostrano l’Edipo re di Sofocle,
il Cristo morto del Mantegna o la Pietà di Michelangelo) condensano
all’estremo in forme ’belle’ i loro dirompenti contenuti, li comprimono
sino a provocare idealmente, al loro contatto, l’esplosione dei vari
significati e lo scatenamento dell’emozione. Ed è, forse, proprio per
questo che l’opera d’arte mantiene la razionalità in tensione, evitando
il suo inaridimento in una logica piatta, non agitata da interni
squilibri o conflitti, e lasciando, invece, che i prepotenti agglomerati
di pensieri, passioni, fantasie e sensazioni in essa accolti si
facciano strada da soli, si scompongano e si diramino per molte vie. Da
tale punto di vista, si potrebbe leggere l’emozione estetica come il
contraccolpo di una ingovernabile eccedenza di senso capace di scuotere e
mettere in moto sia la fantasia, sia la ragione: essa non
costituirebbe, quindi, un fattore irrazionale, bensì un cantiere sempre
aperto al cui interno si ’lavorano’ blocchi emotivi che contengono
implicitamente nuclei di ’verità’ psicologicamente o culturalmente non
ancora completamente riconosciuti e accettati, ma carichi di tensione.
Si tratta, per un verso, di grumi d’angoscia, di dolore e, per un altro,
di speranze deluse.
Se così è, può allora ricevere qualche lume
anche la continuità e la fruibilità di lunga durata delle tragedie e
delle grandi opere d’arte in genere, vale a dire il perché sia possibile
goderne anche dopo millenni di sconvolgimenti culturali e di
rivoluzioni del gusto. L’estetica storicistica – con ragioni polemiche,
talvolta condivisibili, contro astratte generalizzazioni – insiste sul
carattere storicamente determinato delle opere d’arte, ma perde di vista
il costante, ossessivo ritorno, pur nelle loro infinite variazioni, di
nuclei tematici perturbanti ed eccedenti. La comune natura umana, cui si
fa in qualche caso riferimento per offrire una spiegazione di simile
persistenza, è segnata dalla rielaborazione continua di esperienze
incomplete, insature. L’opera d’arte non rispecchia, dunque, soltanto il
proprio mondo storico, di cui costituirebbe una semplice testimonianza:
è, piuttosto, essa stessa ad aprirne il senso profondo e a renderlo
intuitivamente riconoscibile.
In sostanza, l’arte non rappresenta
solo una terapia di lunga durata che ha la funzione di porre i singoli e
i gruppi sociali in relazione con il perturbante, ma una strategia,
cognitiva ed emotiva insieme, che comunica i propri contenuti senza
passare attraverso i normali filtri logici e senza subire passivamente
il predominio della prova di realtà, ma che, non per questo, rimane
priva di una sua specifica ’verità’, coinvolgente e stravolgente
rispetto alla comune esperienza ’normalizzata’. Il tragico e l’arte in
genere – ma, in particolare, la poesia e la letteratura –, non hanno, in
altri termini, né un puro valore logico o percettivo (teso verso il
principio di realtà), né un puro valore edonistico (teso verso il
principio del piacere). Non sono né realtà, né illusione.
Brano
tratto dalla nuova edizione, ampiamente accresciuta, del saggio di Remo
Bodei, Le forme del bello (il Mulino, pagg. 220, € 16) in libreria in
questi giorni