Il Sole Domenica 1.10.17
L’islam e noi
In teoria ma non in pratica
L’incontro
tra le civiltà è più facile solo sul piano dottrinale, come dimostra il
passo del Corano sulle donne incline alla parità di genere
di Maria Bettetini
Spesso
si dà la colpa al tempo: tra sei secoli anche l’Islam sarà «moderno»,
deve fare il suo cammino, così come è stato per la civiltà
«occidentale». Che ragli di gatto, direbbe un mio professore del liceo.
Questa idea delle tappe necessarie di un percorso, del ripetersi
dell’uguale se pur in differenti situazioni, sappiamo da dove viene e ha
fatto il suo tempo. Colui che a Hegel sembrò lo Spirito del mondo a
cavallo, Napoleone Bonaparte, a noi risulta essere un geniale megalomane
militare, morto triste solo e sconfitto. Quindi non chiediamo a una
civiltà di ripetere il percorso di un’altra.
E non parliamo di
«due» civiltà, tante volte si è già detto dell’impossibilità di separare
chirurgicamente un «noi» da un «loro», in qualunque gruppo ci si voglia
riconoscere. Il nucleo del problema è un altro, in vista di una
migliore comprensione, reciproca, e accettazione, reciproca, dell’Islam:
nulla cambierà, non fra sei e non fra seicento secoli, se la lettura
del Corano rimarrà letterale e basata sulle prime spiegazioni (non
interpretazioni) pratiche, avvenute nei primi secoli dall’ègira.
Se
le vite del Profeta e dei califfi «ben guidati», i primi quattro, sono
intese come esemplari in senso stretto e se in generale il riferimento è
sempre a un passato non interpretabile e non rivedibile, tutti i
tentativi di moderazione, import-export della democrazia, apertura,
dialogo sono destinati a scontrarsi con i muri della tradizione o altro,
come la quasi divinità dell’imam (per non far torto a Sunniti né a
Sciiti).
Questa e altre interessanti idee si leggono in un manuale
abbastanza unico, una storia del pensiero politico islamico da Muhammad
a oggi, curata da Massimo Campanini, con contributi di studiosi
italiani e stranieri. Uno strumento scolastico (universitario) ma anche
una piacevole lettura, scritta con chiarezza e che per la prima volta
segue la teoria politica dell’Islam in senso sia cronologico che
teoretico, senza esclusione di ambiti o periodi.
L’idea di cui
sopra è in uno degli ultimi capitoli, quello dedicato al tema della
donna (di Margherita Picchi), dove appare evidente che non può avere
forza una teorica uguaglianza di genere, che pure si legge nel Corano,
se poi sono di opposto avviso le pratiche indicate nello stesso libro e
proposte dagli esempi dei primi musulmani, nonché codificate dai primi
studiosi di diritto.
Ma prima della tematica femminile, il manuale
parte dall’inizio e spiega senza fretta cose che si potrebbero ritenere
scontate, e non lo sono: la scissione tra Sciiti e Sunniti, perché i
primi sono e rimarranno una minoranza, la nascita dei califfati, i sensi
del termine jihad, ossia sforzo interiore, ma anche guerra di difesa e
per estensione guerra di conquista, di sottomissione del mondo alla vera
religione. Si suggerisce che quest’ultima accezione, tristemente nota,
prenda piede come deterrente ai conflitti interni una volta che siano
sicuri i confini dello stato islamico. Forse (non so se tutti gli autori
concorderebbero).
Chiaramente le teorie di al-Farabi, tra nono e
decimo secolo della nostra era, chiudono ogni discussione: il governo
deve essere dell’imam, che è profondo metafisico e teologo (come i
re-filosofi di Platone), che è quasi divino, scelto da Dio, infallibile,
profeta (tutte caratteristiche non dei re-filosofi). Inoltre la virtù
deve essere esportata con le armi e la forza. Non solo per difesa
(questa sarebbe la «guerra giusta» di Sant’Agostino), ma per portare un
bene maggiore a chi non lo possiede o non lo vuole, senza però scomodare
la jihad: al-Farabi infatti non accenna all’esportazione dell’Islam e
parla di guerra come harb.
Ma prima di al-Farabi, prima che la sua
Baghdad diventasse centro di potere e sapere musulmano, i due secoli
immediatamente successivi alla morte del Profeta (632) hanno visto la
velocissima espansione dell’Islam sulle coste del Mediterraneo, favorita
dalla stanchezza dei Bizantini e dei regni romano-barbarici,
dall’oppressione delle tasse, dalla povertà, dalla poca organizzazione
degli assaliti, che in diverse occasioni hanno ufficiosamente aiutato
gli assalitori.
Che si porti la religione, oltre che il normale
saccheggio e nuove forme di governo, è scontato. Non perché lo stato
islamico sia teocratico (il clero in sé non esiste, esistono studiosi
con ranghi diversi a seconda dell’appartenenza). Piuttosto perché la
religione, in particolare i sacri testi, hanno la soluzione a tutti i
problemi, di ordine privato e pubblico, familiare e politico. Perché,
dunque, cercare altrove? O permettere a chi sbaglia di continuare a
sbagliare?
Dicono che sia stato questo il motivo per cui ciò che
restava della Biblioteca di Alessandria, già devastata ai tempi di
Giulio Cesare, sia stato definitivamente bruciato per scaldare i
soldati, quei papiri non avrebbero contenuto nulla di buono che non
fosse già nel Corano. Ma queste sono probabilmente leggende, ce ne sono
tante sulla Biblioteca. Piuttosto, si consideri come queste truppe di
beduini, abili cavallerizzi, si impossessano del Vicino Oriente fino a
Costantinopoli, dell’Africa del Nord e dell’Europa del Sud fino alla
Provenza e alla Sicilia.
Un altro libro recente, Il mare dei
califfi, consente un altro tipo di viaggio nella storia, domandandosi se
è vero che nel Mediterraneo i musulmani navigavano solo come pirati.
Anche, risponde lo storico Christophe Picard: dal tredicesimo secolo
erano praticamente solo pirati (i Saraceni!), ma nei secoli precedenti
avevano imparato a navigare per combattere e per commerciare, oltre che
per rapire e rapinare.
Già a trent’anni dalla morte del Profeta
l’esercito aveva una sua prima base navale, poi a poco a poco, anche in
questo caso favoriti dalla decadenza della marina che fu dei romani, la
conquista di porti come Alessandria e poi Tunisi, diede la possibilità
di assoldare costruttori di navi e marinai. La presa dell’Italia del Sud
e della Spagna non sarebbe stata possibile senza la flotta, con
equipaggi che a partire dal decimo secolo comprendevano anche gli
schiavi arruolati. Ma la conquista islamica era instabile, perché veniva
contesa tra i diversi piccoli califfati, le battaglie navali diventano
sempre più spesso di islamici contro islamici.
Di nuovo i latini,
fin da prima del Mille, hanno la possibilità di guadagnare il mare dei
R?m, «dei Romani», nascono le Repubbliche marinare che sono sempre più
forti e ricche. Ibn-Battuta, viaggiatore e scrittore spesso paragonato a
Marco Polo, pur essendo nato in Marocco nel 1304, per i suoi viaggi al
mare dei Romani preferì «il mare degli Arabi», l’Oceano Indiano, dove
non occorreva essere pirati per navigare da musulmani.
Massimo Campanini (a cura di), Storia del pensiero politico islamico.
Dal profeta Muhammad ad oggi , Le Monnier Università – Mondadori Education, Firenze, pagg. 264, € 21
Cristophe Picard, Il mare dei califfi. Storia del Mediterraneo musulmano (secoli VII-XII) , Carocci , Roma, pagg. 386, € 36