Il Sole Domenica 1.10.17
Politica
La parabola della democrazia dei partiti
di Nadia Urbinati
A
giudicare dalla valanga di pubblicazioni sulla sua “crisi” la
democrazia non sembra godere di buona salute, anche se non è facile
misurare con oggettiva certezza il senso del suo stato di crisi, esso
stesso una questione di opinione o “feeling”; e poi perché le forme di
aperta critica all’establishment sono esse stesse segno di una società
libera e ospitale al dissenso, e in questo solidamente democratica (in
fondo, perché l’opposizione aspiri a diventare maggioranza deve
sviluppare argomenti contro l’establishment). Dunque, perché “crisi”?
Quando si parla di “crisi” si parla in effetti di una crisi di
funzionalità della rappresentanza nella forma attuale che è partitica:
questo sembra essere l’oggetto vero di insoddisfazione. Di crisi della
democrazia dei partiti ha senso parlare dunque, nonostante il fatto che
il nuovo secolo si sia aperto con la certezza che questa forma di
governo e di pratica politica sia comunque la piú elastica ad assorbire
le trasformazioni sociali e tecnologiche; e nonostante il fatto che la
democrazia costituzionale abbia vinto la competizione con tutti i
sistemi politici che si sono succeduti a partire dal secolo delle
rivoluzioni settecentesche.
L’ormai classico, The End of History
di Francis Fukuyama (1992) e il più recentemente e pessimista The Future
of Freedom di Fareed Zakaria (2003) hanno addirittura tentato una
filosofia della storia basata sulla preminenza della democrazia
costituzionale che sembrerebbe durare fino a quando la sua relazione con
il liberalismo è solida (e come se democrazia e liberalismo fossero due
mondi comunque distinti, spesso in tensione, anche se capaci di
cooperare). Fatto è che i governi rappresentativi liberali ottocenteschi
hanno fallito miseramente chiudendosi alle prevedibili lotte per
l’inclusione che il principio del suffragio implicava; essi sono stati
poi sepolti dai totalitarismi dei partiti olistici che si sono fatti
Stato con effetti devastanti, non solo nel Vecchio continente. Su questa
stratificazione di tentativi e tragici fallimenti si è stabilizzata la
forma rappresentativa della democrazia costituzionale di cui oggi
sentiamo da più parti lamentare la crisi.
La versione di
democrazia che ha conquistato l’Occidente ha saputo mettere insieme due
forme di partecipazione che erano state fino ad allora rivali: la
formazione delle agende politiche da parte dei cittadini e la selezione
dei rappresentanti. Nel vecchio continente questa soluzione si è
innervata su un principio di legittimazione - la sovranità popolare -
che si è appoggiato su due radici: la nazione politica (giuridicamente
una) e la società. Tenere insieme la generalità della norma e il
pluralismo degli interessi è stato un compito difficile, e che i partiti
politici hanno svolto bene. Non partiti come macchine elettorali
semplicemente (come nell’età del governo rappresentativo di notabili) e
non partiti olistici o totali (come nell’età delle dittature di massa),
ma partiti che, mentre formavano candidature e gestivano il
funzionamento delle istituzioni, avevano un rapporto diretto e forte con
i cittadini, anche se non esclusivo o totalizzante; un rapporto capace
di alimentare sia la divisione partigiana (intorno a principi o
aspirazioni) sia la ricerca di soluzioni che obbedissero a una idea
minima condivisa di bene generale. Partigiani intelligenti e civici, non
partigiani dogmatici e faziosi: questa dialettica di unità e pluralismo
è il lascito dei partiti del secondo Dopoguerra, non solo in Italia.
Nel
nostro Paese siamo erroneamente portati a identificare la democrazia
dei partiti con la Prima Repubblica. Ma questa forma di democrazia
rappresentativa ha operato in tutti i Paesi, certamente quelli europei.
Non in tutti essa ha avuto la stessa traiettoria, nel senso che non
dovunque i partiti sono stati atterrati nei tribunali (anche se
corruzione c’è stata, e c’è). Tuttavia in quasi tutti, pur con modalità
diverse, la democrazia dei partiti è ora sotto fortissima pressione e
per alcuni studiosi moribonda se non addirittura morta. A causa di
diversi fattori concomitanti, in primis la trasformazione della sfera
dell’opinione a causa del dominio dei mezzi di comunicazione di massa,
che hanno contribuito ad esaltare la politica della personalizzazione
(leader televisivi, spesso definiti carismatici) e a deprimere la
politica dei programmi. Assegnando all’elezione una forte connotazione
plebiscitaria, quella che Giovanni Sartori ha chiamato videocrazia, ha
dato un enorme contributo al processo di erosione dei partiti – anche di
qui è cominciata la “crisi” della democrazia rappresentativa. Il passo
successivo è stato quel che alcuni studiosi hanno denotato come
democrazia dei “partiti cartello” – una soluzione decisamente
oligarchica che vede il personale partitico abbarbicato alle posizioni
di potere dentro le istituzioni (come una casta), disposto a limare le
differenze tra le loro varie appartenenze nell’intento di conquistare
l’elettorato mediano, quello meno partigiano (e sempre più numeroso con
la fine dei partiti ideologici di massa). La virata populista comincia
qui. Essa attraversa un poco tutti i partiti, anche quelli che
prosperano accusando gli altri di populismo, poiché il mainstreamism ha
avuto un effetto devastante sulla democrazia dei partiti, vero baluardo
contro il populismo: ha stimolato l’astensionismo elettorale e aperto
alle strategie popolariste una prateria di potenziali elettori di nuovo
conio (non più mediani e nemmeno ideologicamente tradizionali). Finite
le divisioni partigiane su idee e programmi (certo, non sempre
attraenti), le campagne plebiscitarie intorno a un leader e la polemica
populista che rifugge dal dialogo deliberativo sembrano essere le
componenti della lotta ideologica oggi, una lotta che rappresenta una
divisione manichea tra establishment (i pochi dentro il potere) e popolo
(i molti fuori dal potere).
La regressione dei vecchi e nuovi
partiti dalla società verso le istituzioni – la loro cartelizzazione -
non ha però soltanto accelerato la trasformazione populista dell’agone
democratico. Ha anche messo in campo soluzioni o per rivitalizzare i
partiti o per rivitalizzare i cittadini: da un lato, con una decisa
identificazione della partecipazione con l’elettoralismo (periodiche
campagne per le primarie, a volte anche per eleggere il segretario, non
solo candidati alle funzioni istituzionali); dall’altro, con risposte e
strategie che non sono necessariamente confinati nei partiti – per
esempio l’ideazione di esperimenti partecipativi (che Internet
facilita). Da alcuni Paesi è venuto il passo più audace della
web-democracy in reazione alla partitocrazia: la composizione diretta
alla scrittura della Costituzione (Islanda); la consultazione dei
cittadini sulla riforma di alcune parti della Costituzione (Irlanda); la
proposta di una nuova legge elettorale (British Columbia). La risposta
alla debilitazione della democrazia dei partiti è, come si vede, aperta a
trasformazioni che possono essere radicali e che, è importante
osservare, avvengono (ancora) nel campo della democrazia praticata e dei
partiti, lungo due direttrici che sono molto diverse tra loro: da un
lato si assiste ad un’esplosione di esperimenti di deliberazione (come
discussione e articolazione di proposte); dall’altro si verifica un
restringimento della democrazia a pratica elettoralistica.
Si
potrebbe dire che le due componenti che la democrazia dei partiti o
rappresentativa teneva insieme - decisione/voto e deliberazione/
discussione - sembrano in questa fase divorziare, per cui la democrazia
post-partitica cambia fisionomia stiracchiandosi verso i due poli
opposti che la componevano: direttismo da un lato e delegatismo
dall’altro. Scusandomi con i lettori per questi barbarismi, che però
possono aiutare a descrivere e a far capire, la risposta alla democrazia
dei partiti in questa fase di ricerca di soluzioni sostitutive o
integrative, sembra esaltare da un lato un ricorso persistente
all’elezione senza molta attenzione ai programmi e alla discussione, e
dall’altro un’attenzione quasi esclusiva alla discussione via rete o in
piccole assemblee senza troppa attenzione a (e in alcuni casi con
diffidenza per) l’elezione. Da questa biforcazione dei due processi che
la democrazia dei partiti teneva insieme si dovrà forse partire per
comprendere la trasformazione in atto nelle democrazie rappresentative,
evitando l’uso impreciso e generico del sostantivo “crisi” e soprattutto
non correndo alla conclusione spiccia che il populismo sia la sola
soluzione in atto.