Il Sole Domenica 1.10.17
Elzeviro
All’armi siam razzisti
Con
l’accentuarsi delle diseguaglianze, gli atteggiamenti discriminatori
sono meno espliciti, più diffusi e politicamente trasversali
di Guido Barbujani
È
possibile, è giusto, giudicare in blocco i comportamenti di un intero
popolo? La risposta di Primo Levi, come sappiamo, era sì. Ci sono
tendenze generali, a cui i singoli possono sottrarsi (e così facendo non
condividerne la responsabilità) ma a cui la maggioranza obbedisce: e
questa obbedienza di massa legittima un giudizio collettivo. Levi
pensava alla Germania ai tempi della Shoah; nel loro Non sono razzista,
ma (Feltrinelli), Luigi Manconi e Federica Resta si interrogano invece
sull’Italia dei nostri giorni. La loro risposta è netta: dire che gli
italiani sono razzisti è una sciocchezza, ma è vero che in Italia
comportamenti apertamente razzisti sono sempre più tollerati e
giustificati. Come hanno notato i linguisti (in particolare Federico
Faloppa in Contro il razzismo, a cura di Marco Aime, Einaudi), la frase
«non sono razzista, ma» è carica di significato. Dimostra come il
razzismo non stia bene sbandierarlo, ed è già un progresso: nel 1938, su
La Difesa della razza si proclamava invece che «è tempo che gli
italiani si dichiarino apertamente razzisti»; però il “ma” introduce una
conclusione che, c’è da scommetterci, negherà la premessa. Oggi gli
atteggiamenti discriminatori, scrivono Manconi e Resta, sono appunto
così: meno espliciti di un tempo e più diffusi. Si mettono le mani
avanti, ma si finisce per manifestare opinioni e pregiudizi fino a pochi
anni fa giudicati volgari o inaccettabili. Sembrerebbe insomma che la
fenomenale capacità italica di assuefarsi a qualsiasi cosa si stia
estendendo al discorso razzista, meglio se soggetto a preventivo
maquillage: per esempio, in nome della tutela dei diritti degli
autoctoni, o di preziose tradizioni messe a repentaglio nella società
multietnica. Quanto poco fondamento abbiano queste posizioni, quanto
poco corrispondano ai fatti, Manconi e Resta lo documentano fin dalle
prime pagine. Non è vero né che il nostro Paese sia sottoposto a un
tasso di immigrazione insopportabile, né che gli immigrati godano di
privilegi rispetto agli altri cittadini, né che l’immigrazione produca
costi per il bilancio dello Stato. È vero il contrario, come tutti sanno
ma molti dimenticano: secondo Confindustria, nel prossimo decennio
l’Italia avrà bisogno di 150mila immigrati l’anno, e qui Italia vuol
dire, per esempio, il sistema pensionistico, l’Inps. E allora? È sotto
gli occhi di tutti: Libertà ha stravinto, di Uguaglianza e Fraternità
non si sente più parlare, o se ne parla malissimo. Con l’accentuarsi
delle disuguaglianze, la fraternità – oggi la chiamiamo solidarietà – ha
cambiato connotati. Era la risorsa dei più deboli, adesso i deboli la
vedono come un lusso che solo i ricchi possono permettersi. E allora «se
gli immigrati vi piacciono tanto, prendeteli a casa vostra», punto. Ma
se si attenuano o saltano i legami di solidarietà, se non ci si sente
più in qualche modo sulla stessa barca, cambiano tante cose. Pratiche di
esclusione e discriminazione diventano prima concepibili, poi
praticabili, infine vengono reclamate come ultima risorsa davanti a
conflitti che sembrano senza uscita. Così, in uno dei passi più intensi e
sorprendenti del libro, Manconi e Resta provano a interpretare le
parole “non siamo razzisti, ma” in chiave diversa. Possono anche, ci
dicono, essere lette come una richiesta d’aiuto: fate funzionare lo
stato sociale, aiutateci a non diventare razzisti. Nell’età che qualcuno
ha chiamato della post-verità, non stupisce trovare in questo libro la
dimostrazione, una volta di più, che cose non vere, se ripetute a
sufficienza e a voce sufficientemente alta, possono penetrare un po’
alla volta nel senso comune. Come ci siamo arrivati? Per un intero
capitolo, con accuratezza da antropologi e (il che non è semplice) con
grande equilibrio, Manconi e Resta si concentrano su una figura
esemplare, quella di Roberto Calderoli. Un razzismo bonario, il suo,
anche quando chiama orango una ministra della Repubblica, Cécile Kyenge;
una «xenofobia strapaesana», fatta di dichiarazioni virulente, ma
presto banalizzate e minimizzate; un sistema «di stereotipi, di
pregiudizi e di cliché» di cui si coglie subito la fragilità, camuffata
da buon senso. Il tutto, però, accompagnato da una strategia
comunicativa elementare ma efficace, e da quella che gli autori
battezzano giustamente «la tendenza a una puerile e spensierata
irresponsabilità». Si lancia il sasso e si ritira la mano; si mostra in
televisione una maglietta con una vignetta islamofoba, e se poi
(attraverso una catena di eventi che Calderoli non poteva prevedere, ma a
cui non è estraneo) si finisce con undici morti, pazienza, tanto sono
morti a Bengasi.
Un solo, piccolo appunto. A questo libro, bello,
intenso e (il che non è semplice) mai sopra le righe, manca secondo me
un capitolo. «Doctor Ho is in the house», dicevano gli americani in
Vietnam, quando avvertivano la vicinanza del nemico: abbiamo in casa il
dottor Ho, i vietcong. Nel maggio di quest’anno, il presidente Pd della
regione Friuli-Venezia Giulia, Debora Serracchiani, che pure ha
frequentato le aule dei tribunali e ci avrà senz’altro letto che la
legge è uguale per tutti, ha dichiarato che una violenza sessuale è «più
inaccettabile» se perpetrata da un richiedente asilo; a luglio,
Patrizia Prestipino, del Pd, ha invocato misure in difesa della razza
italiana; a settembre, Alice Zanardi, sindaco Pd di Codigoro, ha pensato
di tassare chi offrisse ospitalità a immigrati nel suo Comune. La
scelta degli immigrati come capro espiatorio su cui far sfogare la
frustrazione dei cittadini, in una ricerca degradante di consenso a buon
mercato, non è più il triste monopolio della destra estrema; ormai
trova spazio anche nel partito di Luigi Manconi. Abbiamo in casa il
dottor Ho, senatore Manconi: facciamo qualcosa per neutralizzare, prima
di tutto, il razzismo di chi ci sta vicino o finiremo per perdere, senza
quasi combatterla, la battaglia di civiltà più importante dei nostri
tempi.
Luigi Manconi, Federica Resta, Non sono razzista, ma , Feltrinelli, Milano, pagg. 160 , € 15