domenica 8 ottobre 2017

il manifesto 8.10.17
L’immenso rudere da Tertulliano a Franceschini
Colosseo: la mostra, il libro. Un volume Electa a più voci ricostruisce la bimillenaria vicenda dell’Anfiteatro Flavio, «rifondato» molte volte. Conoscerne la storia è indispensabile per immaginare un futuro per Roma
di Maurizio Giufrè

E’ una circostanza ben calcolata quella della mostra Colosseo Un’icona (fino al 7 gennaio) allestita a Roma nell’ambulacro del secondo ordine dell’antico anfiteatro e della pubblicazione collettanea Colosseo (Electa, 300 illustrazioni, pp. 408, € 39,00), a cura di Rossella Rea, Serena Romano e Riccardo Santangeli Valenzani. Si collocano entrambi a conclusione della contestata riforma ministeriale di Franceschini che, con l’istituzione del Parco archeologico del Colosseo, ha fatto piccoli pezzi della gestione del patrimonio archeologico romano, sottraendo alle competenze della Soprintendenza, oltre al monumento in questione, il Foro Romano, il Palatino e la Domus Aurea. Dividere e disarticolare organismi delle istituzioni per rendere tutto più efficiente è un singolare modo di procedere. Oltretutto appare elusa la questione centrale: qual è il futuro urbanistico della capitale in relazione al suo patrimonio archeologico? Più in generale, come i Beni culturali saranno meglio salvaguardati per essere goduti dalle prossime generazioni?
Una storia indicativa
La storia dell’Amphitheatrum Flavium, illustrata dalla mostra e dal libro, è in questo senso indicativa: conoscerla produce inevitabilmente una seria riflessione. I pregevoli contributi raccolti invitano a immaginare il «domani» anche se non fanno cenno di come s’inserirà il Colosseo, con la sua area archeologica dentro le mura, nel quadro dei problemi dall’urbanistica scomposta e complessa di Roma. Non si va, quindi, oltre il programma dei restauri finanziati dalla Tod’s e la «ricomposizione della forma architettonica» (Rea) che vuole dire la ricostruzione del piano dell’arena dell’anfiteatro. In sostanza, come scrive Francesco Cellini a conclusione del suo scritto centrato sulla percezione del Colosseo negli anni della formazione della città capitale, nulla si dice su cosa sarà la città storica una volta trasformata «in un immenso recinto museale». Eppure è evidente che il secolare percorso di conoscenza che ha interessato il più imponente «oggetto» dell’antichità è sempre stato in stretta comunione con la vita degli uomini che hanno provveduto nel trascorrere nel tempo a denotarlo di valori e significati simbolici, sociali e materiali, in altre parole a relazionarsi a esso secondo l’uso di volta in volta utile e necessario.
Benevolo-Aymonino
Non per indurre a un percorso diacronico inverso – di visita e di lettura –, ma occorre prendere atto che almeno dalla fine del regime fascista, il «che fare dell’area dei Fori» è stato un brancolare nel buio; a eccezione del progetto rimasto sulla carta di Benevolo-Aymonino, che per ragioni storiografiche si sarebbe dovuto almeno menzionare. Resta così del tutto disatteso l’imperativo che ogni istituzione pubblica ha l’obbligo di perseguire: la ricerca «dei riferimenti guida, dei modelli di giudizio e di comportamento» per governare il nostro patrimonio culturale. Quei minimi accorgimenti che ci permettano, come scrisse Manieri Elia, «di stare in un luogo nel quale riconoscersi»: finalità assoluta, per parlare dell’identità dell’Urbe. Al contrario tutto oggi sembra ridursi alla perimetrazione delle aree di competenza tra ciò che sarà mio – dell’Amministrazione Capitolina – e ciò che sarà tuo – del Ministero –, per fini dove l’economicamente proficuo si fonde al vanto di esercitare il potere su un patrimonio unico al mondo.
Allora occorrerà rimarcare che le vicende del Colosseo devono rendere conto della centralità che questo ha da sempre avuto nella storia della città: eredità dell’impero dei Cesari, testimonianza del supplizio cristiano, simbolo laico della Terza Roma. Dall’apologeta cristiano Tertulliano a Mussolini, l’Anfiteatro Flavio (iniziato da Vespasiano nel 72 d.C., inaugurato da Tito nell’80, completato dal fratello Domiziano nell’82) ebbe un’«identità contesa» come pochi altri monumenti dell’antichità: «espressione di aspirazioni e ideali differenti – come racconta Domenico Palombi –, specchio e testimoni delle diverse stagioni del rapporto con l’antico, con la sua memoria, con i suoi simboli».
Come attestano dall’XI secolo i materiali d’archivio, un uso «apparentemente schizofrenico» contraddistingue l’utilizzo del Coliseum una volta abbandonati gli spettacoli circensi ancora presenti fino al VI secolo. Nel Medioevo, conseguenza del frantumarsi delle proprietà ecclesiastiche, l’antico anfiteatro, abitato negli spazi al piano terra (cryptae) da una «media élite» e in quelli degli ordini superiori (domus) da proprietari più facoltosi (Francipane, Annibaldi), impiegherà secoli prima di ritornare nelle disponibilità pubbliche (Curia). Con la nascita dell’umanesimo si mette finalmente un argine alle spoliazioni di pietre e marmi. Trascorso il tempo dei racconti immaginifici, tra il mistico e il demoniaco, dei Mirabilia, le magnificenze di Roma antica assumono a metà del Quattrocento – da Martino V a Sisto IV– nuove funzioni ideologiche. Il programma universalistico della Renovatio Urbis papale, tra restauri filologici dell’antichità e nuovi edifici monumentali, si compie affinché la fede, come disse Nicolò V, possa «essere colpita da spettacoli grandiosi». Il Colosseo, alla pari di altri resti antiquari, diventa allora, dopo i «secoli bui» del medioevo, un patrimonio da organizzare per la sua migliore resa produttiva. Il disegno papale si volge alla costruzione della «Gerusalemme terrena»: ritratto di quella celeste tanto agognata. Lo dimostra il piano urbanistico di Giulio II e ancora di più quello di Leone X, intenzionato con i suoi artisti (Giuliano da Sangallo, Raffaello) a emulare i modelli dei Grandi Antichi. Accanto ad un uso operativo del linguaggio classico si consolida in parallelo lo studio archeologico, con attente campagne di rilievi che da Bramante proseguiranno fino a Serlio e Palladio e oltre, fino alle ricostruzioni colorate dei pensionati-pittori francesi di metà Ottocento. Nonostante però i programmi (imperiali), l’«immenso rudere» restò sempre «in una condizione di isolamento», anche se come per nessun altro monumento antico si possono enumerare così molteplici tentativi per rifunzionalizzarlo: da quelli «industriali» di Sisto V per costruirvi una filanda (1590) o di Clemente XI (1700) che l’impiegò come deposito di letame per le fabbriche lì vicino di salnitro, agli usi di carattere devozionale: il piccolo tempio «in onore de’ Santi Martiri» di Bernini; il grande santuario di Carlo Fontana.
Redimere dal paganesimo
La volontà di redimere in modo definitivo l’arena da ogni trascorso pagano è un lungo processo che dalla fine del XV secolo si articola tra l’edificazione di cappelle (La Via Crucis, 1750) e chiesette (Santa Maria della Pietà), rappresentazioni sacre e opere di confraternite (Gonfalone). Prima, però, che con l’arte e i nuovi media i «segni della modernità» conducessero il Colosseo nel nostro «sempre-presente» e nell’attesa che si possa precisare un suo «inimmaginabile dopovita» (Chiodi), occorre ricordare gli impegnativi restauri e le ricostruzioni dell’Ottocento senza i quali né il Fascismo avrebbe avuto il fondale della sua Via dell’Impero, né i milioni di turisti di oggi quello dei propri selfie. Si deve a figure quali Raffaele Stern, Giuseppe Valadier, Giuseppe Camporese la «rinascita». Gli editti di Pio VII arrestarono il grave degrado dell’intero monumento che «minacciava di privare i posteri – come scrive Rossella Rea – anche della visione dello stato ruderale». Con importanti interventi ricostruttivi in circa cinquant’anni dall’inizio del secolo si diede la risposta più convincente ai sostenitori «del sentimento del pittoresco e della rovina» (Nazzaro), non solo diffuso in quel periodo ma, aggiungiamo noi, sopravvissuto ancora oggi attraverso la teoria brandiana.
In fondo nella storia del Colosseo leggiamo riflessa questa considerazione di Michel Serres: se Roma «ha saputo costruire, era necessario che sapesse fondare». Al centro di un quadro di Antoine Caron (1521-’99) che il filosofo francese cita, sotto l’immagine del Colosseo si rappresentano trucidi assassini. La «fondazione» della città avvenne dunque nel «pandemonio» che occupò lo spazio e lo mantenne. È forse dalle «molteplici fondazioni» del famoso anfiteatro che occorre ripartire per immaginarne di altre e più coerenti.