il manifesto 8.10.17
Le pillole che non salvano
Medicina.
Uno studio inglese pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica
«British Medical Journal» rivela che la metà dei nuovi farmaci
anti-cancro, autorizzati dall'Ema, non serve a niente
di Andrea Capocci
Secondo
una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista British Medical
Journal, il 57% dei 68 farmaci oncologici autorizzati dall’Agenzia
Europea del Farmaco (Ema) tra il 2009 e il 2013 non aveva dimostrato i
propri benefici in termini di qualità e di aspettativa di vita. Lo
studio è stato realizzato dai ricercatori del King’s College e della
School of Economics di Londra e dell’Università di Riga (Lettonia)
guidati dalla sociologa della medicina Courtney Davis.
Oltre ai
dati forniti dalle società farmaceutiche all’Agenzia al momento
dell’autorizzazione, il team di Davis ha consultato le ricerche
precedenti e successive disponibili in letteratura scientifica e svolte
anche da ricercatori indipendenti. Si tratta di medicine che le case
farmaceutiche vendono a un prezzo medio di 85 mila euro per un anno di
trattamento. In Europa, il costo ricade in genere sui sistemi sanitari
nazionali, ovunque in difficoltà economiche.
L’APPROVAZIONE da
parte delle agenzie pubbliche (l’Ema in Europa, a Londra, e la Food and
Drug Administration negli Usa) è uno dei momenti decisivi nella storia
di un farmaco. Per sviluppare una nuova medicina generalmente si inizia
con un brevetto su una molecola, necessario per mettere fuori gioco la
concorrenza. Dopo aver messo a punto la terapia, iniziano i test (detti
trial) per dimostrare l’assenza di effetti collaterali gravi e
l’efficacia del farmaco rispetto a un placebo o a un concorrente.
All’esame
dei trial sopravvive meno del 10% dei potenziali farmaci. Nei casi
fortunati, la società farmaceutica che detiene il brevetto può chiedere
l’autorizzazione alla commercializzazione. Nel frattempo, il costo dello
sviluppo del farmaco (trial compresi) ha raggiunto il miliardo di euro,
in media. E dal primo test alla richiesta sono passati tra i dodici e i
diciotto anni (il brevetto scade dopo vent’anni). L’approvazione
permette di introdurre il nuovo farmaco in commercio, a un prezzo
fissato in regime di monopolio grazie al brevetto. Se invece
l’autorizzazione finale fosse negata, il tempo, le risorse e i profitti
sperati si volatilizzerebbero.
Per dare il via libera a un
farmaco, da regolamento l’Ema ne dovrebbe valutare l’efficacia in
termini di aumento dell’aspettativa di vita. A differenza di quanto
avviene negli Usa, a eventuali miglioramenti della qualità della vita
(alleviamento dei sintomi, assenza di effetti collaterali) è una
rilevanza minore. Eppure, tra le medicine oncologiche, molte sono
dedicate a tumori in stato molto avanzato, con scarsa speranza di
guarigione. L’aspetto «palliativo» dei trattamenti meriterebbe dunque
maggiore attenzione. Ma le società farmaceutiche non sono incentivate a
curarsene: solo due dei farmaci approvati nel periodo 2009-2013
dimostravano qualche miglioramento nella qualità della vita dei
pazienti.
La percentuale dei farmaci approvati che dimostrano di
aver aumentato l’aspettativa di vita dei malati scende così al 35%. In
media, questi farmaci giudicati «efficaci» allungano la vita dei malati
di circa tre mesi. Il dato piuttosto sconfortante conferma una
rilevazione analoga compiuta sulla Food and Drug Administration (Fda,
l’agenzia statunitense che svolge lo stesso ruolo dell’Ema) dal gruppo
dello statunitense Vinay Prasad nel 2015, secondo la quale i farmaci
oncologici approvati senza benefici reali tra il 2008 e il 2012 erano
addirittura il 67%.
Courtney Davis e i suoi colleghi puntano il
dito contro le procedure di approvazione ritenute troppo favorevoli alle
società farmaceutiche. Sono proprio le compagnie a presentare all’Ema i
dati che motivano l’efficacia di un farmaco. In quella fase, la
trasparenza può venire meno. Molto spesso, infatti, i dossier non
contengono informazioni dirette sull’aumento dell’aspettativa di vita
dei malati, ma dati «surrogati»: si tratta, cioè, di altre
caratteristiche del farmaco più facili da misurare in tempi ridotti, che
secondo le società farmaceutiche dimostrerebbero indirettamente i
benefici dichiarati dei farmaci.
Nella maggioranza dei casi si
riportano benefici in termini di rallentamento della malattia o nei dati
fisiologici dei pazienti. Una notevole mole di studi statistici, però,
dimostra che questo tipo di informazioni non garantisce affatto che i
pazienti sopravvivano più a lungo alla malattia. Accelerano però le
procedure di approvazione. In molti casi, inoltre, i test clinici non
rispettano gli standard di qualità internazionali. Per misurare
l’efficacia, occorre studiare l’effetto di un farmaco in un gruppo di
pazienti e confrontarlo con un altro gruppo «di controllo» a cui viene
somministrato un farmaco concorrente o un placebo (una finta medicina),
il tutto all’insaputa sia dei medici che dei pazienti per evitare di
influenzarne il giudizio. In molti casi studiati dai ricercatori,
invece, il confronto è stato fatto con altri farmaci sperimentali e
talvolta (il 12% dei casi) il gruppo di controllo non c’era proprio. Le
società farmaceutiche si giustificano con la rarità di alcune forme di
cancro, che non consentono di arruolare un numero statisticamente
sufficiente di pazienti.
ALL’EMA, INVECE, la disinvoltura con cui
si approvano i nuovi farmaci viene giustificata con il dovere di fornire
ai pazienti terapie in tempi più rapidi possibile. Se le informazioni
sui benefici di un farmaco non sono esaurienti, l’Ema può rilasciare
autorizzazioni «condizionali» che prevedono verifiche dell’efficacia
anche dopo l’autorizzazione. I dati analizzati da Davis, però,
dimostrano che solo l’8% dei farmaci approvati ha dimostrato una
(marginale) efficacia in test clinici successivi. La percentuale dei
farmaci effettivamente benefici sale al 51%. Eppure, solo nel caso
dell’Avastin, un farmaco contro il cancro al seno che ha fallito gli
esami post-autorizzazione, la licenza è stata ritirata. Circa la metà
dei farmaci oncologici approvati in Europa, dunque, non ha dimostrato la
sua efficacia né prima né dopo la sua introduzione in commercio.
DEBORAH
COHEN, in un articolo di commento alla ricerca sulla stessa rivista,
punta il dito più direttamente sul rapporto troppo stretto tra
controllato e controllore. Il bilancio dell’Ema si basa per l’89% sulle
tasse pagate dalle case farmaceutiche per richiedere l’approvazione dei
farmaci. Se un loro esame si rivelasse più severo, il numero di
richieste diminuirebbe e le casse dell’Agenzia si svuoterebbero. Al
contrario, esami più blandi garantiscono che anche le richieste siano
presentate con maggiore disinvoltura, con maggiori entrate fiscali per
l’Agenzia.
È un fenomeno ben noto: lo stesso circolo vizioso negli
uffici brevetti statunitensi ed europei ha aumentato enormemente il
numero di brevetti approvati negli ultimi vent’anni, non solo in campo
farmaceutico.
Inoltre, Cohen denuncia l’eccessiva «assistenza»
posta dai consulenti dell’Ema alle società farmaceutiche, che spesso
pescano il proprio personale nelle autorità regolatorie. L’ultimo caso
eccellente riguarda proprio l’Italia, e in particolare Luca Pani,
direttore fino al 2016 dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) in un
periodo piuttosto «caldo». Fu lui a bloccare la diffusione delle finte
terapie di Davide Vannoni a base di presunte cellule staminali e a
condurre le prime trattative con le società farmaceutiche per
l’introduzione dei farmaci anti-epatite C in Italia, spuntando prezzi
elevati ma inferiori a quelli praticati in altri paesi. Sempre Pani
rimosse l’allora presidente dell’Aifa con l’accusa di conflitto di
interessi. Pani, però, aveva anche un ruolo all’Ema, proprio nel
comitato scientifico che si occupa dell’approvazione dei farmaci. Dal 18
settembre, ha annunciato lui stesso, Pani è passato dall’altra parte
della barricata, diventando direttore esecutivo presso la società
statunitense Neurocog Trials, che si occupa proprio dell’iter di
approvazione di farmaci neurologici per conto delle case farmaceutiche.
IL
NUOVO CASO di «porte girevoli» non è piaciuto alla ministra Lorenzin
che sta guidando la cordata per portare in Italia l’Agenzia Europea,
attualmente basata a Londra ma costretta allo sfratto dalla Brexit.
Milano, con Vienna e Copenhagen, è una delle candidate più quotate. Tra i
criteri della scelta, peserà sia la credibilità scientifica del paese
ospitante che la capacità di accogliere un ente europeo da quasi mille
dipendenti, con un notevole indotto di consulenti e lobbysti.