il manifesto 3.10.17
Spagna, il fallimento di due tigri di carta
di Norma Rangeri
Sorprendentemente,
i risultati diffusi dai promotori del referendum dicono che è andato a
votare circa il 40 per cento dei cittadini catalani. Significa che il 60
per cento è rimasto a casa, non ha accettato la forzatura secessionista
del governo di Puigdemont, non ha aderito a una battaglia elettorale
che puzzava di propaganda. Oltretutto qualcuno sarà andato al seggio
anche per reazione alla mano dura di Madrid e magari avrà anche votato
no.
Il dato politico del risultato è evidente: chi non è riuscito a
convincere nemmeno la maggioranza dei catalani dovrebbe innanzitutto
prenderne atto e prepararsi a dichiarare fallimento, anziché
l’indipendenza.
Naturalmente la repressione non ha favorito la
partecipazione, le cariche della polizia ai seggi di un paese europeo,
la violenza contro persone inermi sicuramente non depongono a favore di
Rajoy.
Di cui sarebbero sacrosante le dimissioni per aver portato
il paese, lui ne è principalmente responsabile, a questo punto di
rottura.
Dopo aver acceso la miccia e soffiato sul fuoco, adesso spegnere l’incendio è complicato.
L’Europa
ci prova e interviene a posteriori, auspicando il dialogo. Ma gli
interlocutori sono Puigdemont e Rajoy, due tigri di carta che la lunga
crisi ha incattivito, con i tagli al welfare toccati anche alla ricca
Catalogna, alla base della volontà di separarsi non solo da Madrid ma
anche dagli spagnoli – i lavoratori e le classi subalterne – più colpiti
dalla crisi.
Da questo punto di vista i referendum del
Lombardo-Veneto sono molto somiglianti a quello apparecchiato da
Puigdemont. Simili perché la richiesta di maggiore autonomia è un cuore
che batte in sintonia con il Pil, del nordest come della Catalogna.
«Il
Pil della Catalogna cresce il triplo rispetto al deficit. Non ci sono
molte altre economie che possano mostrare risultati simili». Sono parole
di Oriol Junqueras, leader di un partito di sinistra che rivendica con
orgoglio la secessione. Viceversa, è proprio quella sinistra che si
batte per l’uguaglianza a doversi interrogare sulla contraddizione di
ritrovarsi dentro lo schieramento indipendentista. E a doversi chiedere
perché i due maggiori sindacati non hanno aderito al proclamato sciopero
generale.
L’impressione è che sulla scena politica spagnola si
siano affrontati, in una battaglia di potere, due leadership di destra
ben mimetizzate dietro la maschera del conflitto tra unità del paese e
secessione, bandiere usate per coprire con la retorica nazionalista,
maggioranze traballanti, a Madrid come a Barcellona.
Se la
costituzione spagnola non funziona, se quel patto va cambiato, la
democrazia costituzionale insegna come farlo. Pur nella diversità dei
contesti, di natura storica e istituzionale, l’esperienza italiana
insegna.
Anche in Italia c’era chi la costituzione la voleva
cambiare e chi invece la difendeva. Siamo arrivati, faticosamente, dopo
molto tempo, a un referendum che ha coinvolto l’intero paese. L’abbiamo
fatto e l’abbiamo anche stravinto.
In fondo non è una lezione banale.