il manifesto 31.10.17
Trump in picchiata e rabbioso sull’orlo del fallimento
Stati
uniti. Anche la Fondazione Clinton legata alla Russia. E i repubblicani
calcolano l’impeachment perché la Casa Bianca vada a Mike Pence, il
cocco della destra religiosa oltranzista
di Guido Moltedo
Paul
Manafort ammette di aver mentito e si costituisce, e Donald Trump
tratta la notizia come un caso che non lo riguarda, cercando anzi di
farlo figurare come un imbroglione, un ex-lobbista che avrebbe voluto
approfittare di lui e del quale si è liberato per tempo.
Non sarà
stato Trump a gettare Manafort sotto il treno per allentare l’assedio?
Contemporaneamente, con una mitragliata di tweet diretti ai suoi
quaranta milioni di follower, sposta i riflettori nuovamente sulla sua
ex-rivale Hillary Clinton.
Lei sì, lei e i suoi collaboratori sì hanno qualcosa da nascondere in quanto a relazioni sporche con il Cremlino.
Se
nel suo primo anno di presidenza, trascorso inutilmente a cercare di
disfare le cose buone del suo predecessore, avesse conseguito qualche
risultato apprezzabile almeno per i suoi elettori, Trump disporrebbe di
una leva adeguata per fronteggiare politicamente lo scandalo montante.
In una serie di tweet il politologo Matt Glassman osserva che «se Trump
fosse al 56 per cento nei sondaggi, fosse amato dalla sua élite, avesse
cancellato l’Obamacare, fatto approvare i tagli fiscali, sarebbe nelle
condizioni buone per poter licenziare Mueller». E invece «è un
presidente debole in serio pericolo di un fallimento completo della sua
presidenza».
COSÌ, IL PROCURATORE speciale Mueller può procedere
con puntigliosa intelligenza, componendo giorno dopo giorno, pezzo dopo
pezzo, il puzzle accusatorio che dovrebbe portare a dimostrare una
connessione tra il presidente statunitense e il presidente russo Putin.
Nessuno può più fermare l’indagine.
Privo del peso politico per
farlo, Trump deve sacrificare via via un bel po’ di coloro che hanno
reso possibile la sua elezione. Ieri con Manafort, sono finiti sotto
giudizio altri due membri della campagna di Trump, George Papadopoulos e
Rick Gates.
Il rischio è che Manafort – se non ha concordato con
Trump la sua autoincriminazione o se sente finito il suo ex-capo che
l’ha mollato – possa patteggiare con Mueller un trattamento indulgente
in cambio di informazioni sul presidente e sulla sua corte, cioè
soprattutto la cerchia familiare, a cominciare dal genero Jared Kushner e
Donald Trump jr., che tra l’altro già sono al centro dell’attenzione
per un incontro, il 9 luglio 2016, con un avvocato russo che avrebbe
promesso loro un dossier per infangare Hillary.
SEMPRE PIÙ FRAGILE
politicamente, la sopravvivenza di Trump si lega al sostegno del
Partito repubblicano. Ma non è il «suo» partito, è un partito che ha
«scalato» da outsider, e questa relazione conserva l’anomalia
originaria. Trump non s’impasta proprio con i politici di professione. E
viceversa.
Così una parte dei vecchi notabili l’avversa
pubblicamente, prende le distanze, quando non esprime vero e proprio
disprezzo. Gli altri calcolano la convenienza di un avvio de facto di un
processo di impeachment sapendo però che a beneficiarne sarebbero i
democratici più che il Grand Old Party.
Al tempo stesso questa
presidenza in picchiata trascina con sé i repubblicani. Manca solo un
anno alle elezioni di medio termine e in molti stati dove la
competizione è dura la connessione con un presidente come Trump potrebbe
costare cara a un bel po’ di candidati repubblicani.
L’UNICA
OTTIMA ragione per farlo fuori sarebbe quella di potersi riprendere la
Casa Bianca, con Mike Pence, il cocco della destra religiosa oltranzista
e il pupazzo dei fratelli Koch, i supermiliardari che hanno speso una
fortuna in campagne per ostracizzare Barack Obama. Una presidenza Pence
farebbe rimpiangere quella attuale.
NELLO SCENARIO va tenuto
presente il Cremlino, che, di fronte allo sviluppo del Russiagate, ha
sempre mantenuto un atteggiamento prudente, limitandosi di volta in
volta a respingere accuse e insinuazioni di un coinvolgimento nelle
elezioni del 2016. Indubbiamente, fosse vero che gli agenti di Putin
hanno lavorato alacremente negli Usa, negli ultimi anni, per influenzare
le dinamiche all’interno dell’eterno rivale, sarebbe anche vero che
dispongono di carte con le quale possono ancora intervenire nel match in
corso. Anche favorendo lo spostamento dell’attenzione verso Hillary,
come cerca di fare Trump.
È uno snodo delicato, nel quale il
Partito repubblicano può avere un ruolo, aprendo al Congresso una serie
d’inchieste nei confronti di Clinton come chiede il presidente, in
particolare sull’email-gate e su donazioni ricevute dalla Fondazione
Clinton in cambio del sostegno di Hillary, allora segretario di stato,
per un affare riguardante lo sfruttamento da parte russa di siti di
uranio negli Usa.
Come nella campagna elettorale, la partita ora
si gioca dunque nuovamente tra Trump e Clinton. Ma è la partita perché
questo presidente non soccomba.
I russi, se davvero dispongono di carte, potrebbero cercare di salvarlo, colpendo Hillary. Ma i repubblicani?