martedì 31 ottobre 2017

il manifesto 31.10.17
Le finte aperture di Renzi cadono nel vuoto, ma a sinistra si litiga su Grasso
Elezioni&alleanze. Dai civici la gelata sull’ex magistrato che piace a Mdp e Sinistra italiana: ottima persona, ma non è una scelta dal basso
di d.p.

Per fortuna le elezioni siciliane impongono la moviola alle discussioni della sinistra in vista di una possibile – ma difficile – lista unitaria per le politiche. Così, al ralenti, i potenziali scontri restano allo stadio gassoso di divergenze, in attesa che il risultato di Claudio Fava – i sondaggi su di lui sono lusinghieri – dia il via ufficiale alle trattative per l’avvicinamento politico-elettorale di Mdp, Sinistra italiana, Possibile e autoconvocati del Brancaccio.
IN QUESTO FRONTE le finte disponibilità di Renzi da Napoli («Non metto veti nei confronti di nessuno») cadono nel vuoto. «Non vedo le condizioni per un’alleanza col Pd », liquida il presidente della Toscana Rossi, «ormai è un partito di centro che guarda a destra». È la posizione di Mdp di sempre, nonostante qualche recente mossa tattica di Speranza e Bersani.
RENZI IERI È PARTITO per Chicago per intervenire all’Obama Foundation summit. A lavorare al dossier alleanze è il vicesegretario dem Maurizio Martina. Che annuncia: «Nei prossimi giorni invieremo a tutte le forze che vogliono confrontarsi con noi, al centro e a sinistra, il documento programmatico uscito da Napoli. Pronti al confronto per una nuova coalizione». Il Pd, non solo la parte renziana, vagheggia una spaccatura di Mdp fra dialoganti e non. «Dopo la Sicilia tanti elettori inizieranno a dire ai dirigenti di Mdp che è necessaria l’alleanza e bisognerà vedere se riusciranno a reggere questa linea dura. O a reggerla senza spaccarsi», spiega un dirigente vicino al segretario. Ma anche la minoranza orlandiana la pensa in maniera non dissimile: «Anche se sono ossessionati da Renzi l’accordo lo devono fare con il Pd, che è una cosa complessa, come è complessa Mdp», ragiona il ministro della Giustizia. Intanto però ieri si è rotto anche il tavolo delle regionali lombarde: Art.1 era possibilista sull’alleanza, ma il Pd ha voluto decidersi in solitaria la candidatura di Giorgio Gori, sindaco di Bergamo. Senza primarie.
ALLE POLITICHE IN OGNI caso il Pd si è assicurato la sua lista ’amica’ e alleata alla sua sinistra: farà riferimento all’area del sindaco di Cagliari Zedda, conta un pugno di senatori ex Sel e qualche sindaco, e proverà a fare incetta dal Campo progressista di Pisapia (magari utilizzando un nome simile).
L’AREA DI PISAPIA a sua volta intanto prende le misure con i Radicali italiani di Emma Bonino, che per il momento hanno respinto le offerte di alleanza del Pd. Ieri Marco Furfaro (Cp) è intervenuto al loro congresso, su cui aleggia il fantasma di un listone europeista e per i diritti: «Servono battaglie e proposte concrete, come quelle in cui ci siamo ritrovati in questi mesi: ius soli, riconversione ecologica dell’economia, abolizione della Bossi-Fini, legalizzazione delle droghe leggere, reddito minimo per chi sta sotto la soglia di povertà, partiamo da lì».
INFINE C’È LA SINISTRA-SINISTRA, quella che dopo essersi liberata dalle ’ambiguità’ di Pisapia era – assicurava – pronta alla lista unitaria. E invece no. Da questa parte dopo i giorni dell’entusiasmo per l’addio al Pd del presidente del senato Grasso, arriva la gelata del professore Montanari. Che ieri su Huffington Post, rispondendo all’entusiasmo di Nichi Vendola (ha definito Grasso «per noi un programma politico vivente») butta sul tavolo la sua perplessità. Non sulla persona, ma sul metodo con cui si discute di leader veri o presunti: «Smentendo ogni logica di scelta dal basso». Conclusione: «È proprio imboccando queste scorciatoie che la politica dei politici si trasforma in gioco di prestigio indifferente alla realtà del mondo. Ed è allora che il mondo, giustamente, le volta le spalle».


Corriere 31.10.17
L’incognita siciliana pesa sui rapporti governo-pd
di Massimo Franco

L’ insistenza sul fatto che il voto siciliano di domenica non avrà riflessi nazionali è sempre più martellante e sempre meno convincente. Non perché rimetta in bilico la segreteria del Pd, blindata dal congresso; o perché può creare sconquassi nel centrodestra o tra i Cinque Stelle. Ma quel test così insulare verrà letto inevitabilmente come anticipo di una tendenza generale. E dunque sarà usato non tanto per destabilizzare un partito o l’altro, ma per correggere in corsa strategie e alleanze tuttora indefinite: in primo luogo nell’arcipelago rissoso della sinistra. Il timore è che eventuali tensioni si scarichino sul governo .
Alla vigilia della legge di stabilità, la preoccupazione è che un’ennesima battuta d’arresto possa accentuare lo smarcamento del Pd. Colpisce l’invito del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, a «portare il Paese a elezioni ordinate nella primavera del prossimo anno». Parole scontate, ma significative dopo le tensioni delle ultime settimane su Bankitalia col vertice del suo stesso partito. Vanno affiancate a quelle di Francesco Rutelli, che nega il gelo tra Gentiloni e Renzi, « due personalità che si completano. Spero che collaborino in modo altrettanto completo».
Sono indizi di una fase che si aprirà tra una settimana; e che potrebbe far registrare o un’intesa più stretta, o un’accentuazione delle distanze. Condizionati dalla tenuta nei sondaggi del M5S, che sembra immune dai riflessi controversi delle sue giunte di Roma e Torino, i dem stanno cambiando toni. La disponibilità a cedere qualcosa alla sinistra interna e a Mdp, il gruppo nato dalla scissione, è tattica. E forse arriva troppo tardi. Ma risponde all’esigenza di arginare una diaspora riproposta dall’uscita dal Pd del presidente del Senato, Pietro Grasso.
La prospettiva di una frantumazione ulteriore dell’area di governo renderebbe più difficile la «fine ordinata della legislatura» chiesta da Gentiloni; e una ricomposizione dopo il voto politico: il mancato accordo in Lombardia su un candidato comune con Mdp alle Regionali lo conferma. Dando per probabile un insuccesso in Sicilia, il partito insiste nel declassarlo. E blinda il vertice. Ma il «dopo» segnerà una pressione crescente per piegarlo a una linea più inclusiva. Eppure, non è verosimile che Renzi accetti un cambio di strategia: anche perché gli avversari finora hanno dato l’impressione di puntare solo al suo indebolimento.
All’ombra di questo scontro, si accentua la sensazione di una partita siciliana giocata tra centrodestra e M5S. Il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, si dice ancora convinto della vittoria del centrosinistra, col quale è alleato. E punta il dito contro la Lega di Matteo Salvini, accusato di «volere i voti della Sicilia per difendere gli interessi del Nord». È un attacco che risente di una ruggine antica. Ma tocca un tasto sensibile della competizione tra Carroccio e Forza Italia: a livello nazionale, però .

Il Fatto 31.10.17
Fava
Comizi e parole dure contro la mafia Il senatore rosso all’assalto del Pd
di Luca De Carolis

Comizi in serie, parlando anche e soprattutto di mafia. Facendo i nomi, “quelli che gli altri candidati, grillini compresi, hanno paura di fare”. E sperando in silenzio nel sorpasso sul Pd che si è legato ad Alfano. Negli ultimi giorni prima delle urne Claudio Fava, il candidato di Mdp e Sinistra italiana, punterà anche sulla sua storia, sulla sua conoscenza della malavita organizzata. E così il vicepresidente della commissione Antimafia oggi sarà per comizi e incontri pubblici a Trapani e provincia, “la terra del boss Matteo Messina Denaro”, come rimarcano dal suo staff. E insisterà sul tema della legalità e dei partiti incistati da sodali o infiltrati delle cosche.
Poi domani sarà nel Catanese, motore produttivo dell’isola. Mentre la chiusura è prevista venerdì a Palermo, in piazza, dove ci sarà uno spettacolo musicale. E tra una canzone e l’altra dal palco parleranno il coordinatore nazionale di Si, Nicola Fratoianni, e Pier Luigi Bersani, volto e leader di fatto di Mdp. Perché a Roma sperano ancora nel sorpasso sul dem Fabrizio Micari, che sarebbe uno smacco rumorosissimo per Matteo Renzi, così timoroso da ripetere di continuo che il “voto siciliano non ha una valenza nazionale”. Per riuscirci Fava proverà a prendersi una parte dell’elettorato dem, ovvio, ma la speranza è anche quella di grattare un po’ di voti al centrodestra, “perché la vicenda degli impresentabili sta disgustando molti”. E ovviamente Fava conta di prendere qualcosa anche tra i 5Stelle più tiepidi, quelli che magari guardano senza pregiudizi il candidato della sinistra. Poi però dopo il 5 novembre si guarderanno i numeri. E Fava e i suoi valuteranno se e come convergere su alcuni proposte programmatiche proprio con loro, i 5Stelle. Ammesso che vinca il M5S, e che il Pd non respinga l’assalto dalla sua sinistra.

Corriere 31.10.17
Inchiesta sulle stragi del ’93 Il leader di FI e Dell’Utri di nuovo indagati a Firenze
Dopo le intercettazioni del boss Graviano in carcere
Raccontava: mi ha detto che ci vorrebbe una bella cosa
di Giovanni Bianconi

ROMA Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono di nuovo indagati come possibili mandanti delle stragi di mafia del 1993. La Procura di Firenze ha chiesto e ottenuto dal giudice delle indagini preliminari la riapertura del fascicolo a loro carico dopo aver ricevuto da Palermo le intercettazioni del colloqui in carcere del boss di Cosa nostra Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Sono i colloqui in cui il capomafia di Brancaccio diceva al suo compagno di detenzione, nell’aprile 2016, spezzoni di frasi come queste: «Novantadue già voleva scendere… e voleva tutto»; e ancora: «Berlusca... mi ha chiesto questa cortesia... (...) Ero convinto che Berlusconi vinceva le elezioni ... in Sicilia ... In mezzo la strada era Berlusca... lui voleva scendere... però in quel periodo c’erano i vecchi... lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa...».
Frammenti di conversazione, nei quali i riferimenti al fondatore di Forza Italia seppure in un contesto di non facile interpretazione, sono abbastanza chiari. «Nel ‘94 lui si è ubriacato perché lui dice ma io non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato... Pigliò le distanze e fatto il traditore», dice ancora il boss condannato all’ergastolo per le stragi del ‘92 e del ‘93, arrestato a Milano nel gennaio 1994 , che in un altro passaggio afferma: «Venticinque anni fa mi sono seduto con te…Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, tu cominci a pugnalarmi… Ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste…».
Su questi e altri brani di intercettazioni ricevute dai colleghi palermitani, il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo ha delegato alla polizia giudiziaria lo svolgimento di alcune verifiche, e per farlo ha dovuto chiedere al gip di riaprire il fascicolo su Berlusconi e le stragi nella città dove sono concentrate le indagini sulle bombe del 1993 scoppiate a Firenze, Roma e Milano. I nomi dell’ex premier e dell’ex senatore Marcello Dell’Utri (che pure compare nei colloqui intercettati di Graviano, ed è attualmente in carcere per scontare una condanna a sette anni per concorso esterna in associazione mafiosa) sono stati iscritti con intestazioni che dovrebbero coprirne l’identità, come nelle altre occasioni.
È la terza volta, infatti, che si apre questo filone di accertamenti. Nella prima occasione «autore 1» e «autore 2», gli alias dei due esponenti politici, furono inseriti dopo le dichiarazioni di alcuni pentiti come Salvatore Cancemi e altri, che parlarono del loro coinvolgimento nella metà degli anni Novanta, ma tutto finì con un’archiviazione. La seconda fu nel 2008, dopo le confessioni del nuovo collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, giudicato attendibile in molte corti d’assise e da ultimo dalla Corte di cassazione che ha confermato alcune ulteriori condanne per la strage di Capaci; Spatuzza raccontò le confidenze fattegli proprio da Giuseppe Graviano, il quale gli disse che grazie all’accordo con Berlusconi e Dell’Utri «ci siamo messi il Paese nelle mani». Anche questa seconda indagine è stata archiviata.
Ora non c’è un pentito che parla, ma sono state le parole dello stesso Graviano a far riaprire l’inchiesta, sebbene sia molto difficile che a distanza di tanto tempo possa portare a qualcosa di concreto. Al processo di Palermo, chiamato a spiegare le sue parole registrate in carcere, Graviano ha preferito tacere e s’è avvalso della facoltà di non rispondere. E ieri, a Reggio Calabria, è cominciato il processo a suo carico per l’uccisione di due carabinieri nel gennaio ’94: un altro pezzo della presunta trattativa che avrebbe coinvolto anche la ‘ndrangheta.

Il Fatto 31.10.17
Ostia, dal M5S a CasaPound: il clan Spada cambia cavallo
Roberto, fratello di “Romoletto” (condannato a 10 anni), sceglie l’estrema destra. Che non prende le distanze. Polemiche su Franceschini
di Marco Franchi

CasaPound continua a marciare su Ostia. A pochi giorni dal voto nel X Municipio di Roma – dopo due anni di commissariamento per mafia –, il partito di estrema destra continua la propria campagna elettorale sul litorale romano. “Siamo già al 10 per cento”, ha affermato il candidato Luca Masella. E anche oggi saranno in piazza: “Saremo a Nuova Ostia per una manifestazione che abbiamo organizzato insieme ai residenti contro gli sfratti e l’abbandono al degrado del quartiere popolare”.
In una piazza elettorale dove mancano anche i sindacati per la casa, CasaPound vuole “restituire” gli alloggi agli sfrattati. Che lo faccia con la forza poco importa.
Ma ora hanno appoggi importanti, come quello di Roberto Spada che secondo il senatore Stefano Esposito è l’appoggio di un’intera famiglia: “Non poteva mancare l’appello al voto della famiglia Spada”, ha twittato Esposito. Roberto Spada (che non risulta indagato in alcuna inchiesta) è fratello del più noto Carmine, detto “Romoletto”, condannato in primo grado a dieci anni per estorsione con l’aggravante mafiosa. Qualche giorno faRoberto su Facebook ha espresso le proprie preferenze politiche, come ha anticipato Repubblica.it: “Il 5 novembre si avvicina… – scrive Roberto Spada – E sento dai cittadini quasi tutti la stessa cantilena ‘qua sto periodo se vedono tutti sti politici a raccontarci barzellette, mai visti prima, e dopo le votazioni risparirranno (con due erre, ndr) a guardarsi i cazzi propri… gli unici sempre presenti sempre esclusivamente CasaPound’… e questa la realtà ho molti errano? Cosa hanno fatto le altre forze politiche in questi due anni?”.
Roberto Spada, anche se il voto è segreto, preferisce comunicarlo su Facebook ai più. Lo ha fatto anche in passato quando, prima pensava di candidarsi come presidente del X Municipio, poi dichiarò di votare per il M5s, “l’unico – diceva – che ha dimostrato finora di essere un partito pulito”.
E infatti Virginia Raggi – che sarà eletta di lì a poco sindaco – interpellata sulla candidatura prese le distanze: “Non mi risulta. – diceva a Radio Cusano Campus –. (…) E poi i requisiti per essere candidati sono ben precisi. Non credo lui possa ambire a candidarsi con il M5s”. Meno distanti gli esponenti di Casapound che hanno parlato di “attacchi ad orologeria”. In una nota il candidato a Ostia, Marsella, ha detto: “Non saranno certo le menzogne del senatore Esposito sostenute anche dai grillini a farci perdere voti”. Chi conosce alcune vicende passate di Roberto Spada è l’ex assessore alla legalità di Roma con delega sul litorale, Alfonso Sabella. Fu lui, racconta al Fatto, a mettere i sigilli a una palestra “intestata alla moglie di Roberto Spada, ma gestita anche da lui, e che si trovava in un immobile del comune. Era occupato abusivamente”.
Per Sabella “sequestrare quella palestra è tra le prime cose che ho fatto ad Ostia. Poi è successa una cosa sconcertante: dopo aver messo i sigilli, le attrezzature degli Spada sono rimaste dentro. I funzionari del patrimonio del Comune di Roma quindi hanno consegnato le chiavi ai gestori della palestra, i quali una volta dentro hanno ripreso l’attività. Invece avrebbero dovuto svuotare l’immobile entro 30 giorni. Sono stato costretto a far disporre un nuovo ordine di sequestro, notizia immediatamente finita su Twitter: quando sono arrivato ho trovato la palestra piena di bambini. Ci sono voluti due giorni per convincerli ad uscire”.
Proprio su una futura visita ad Ostia Antica, il senatore di FI Francesco Giro attacca il ministro Dario Franceschi: “Pare voglia venire frettolosamente a Ostia Antica preoccupato delle prossime elezioni. Sarebbe grave se dopo il suo disinteresse, il ministro trasformasse il sito archeologico nella sua passerella elettorale”.

Il Fatto 31.10.17
Provocazione Rai: “Gabanelli torni. Ma con Report”
Scaduta l’aspettativa della giornalista, Orfeo le ripropone pure il Web. Lei: “Come avere una 500 senza gomme”
di Gianluca Roselli

Milena Gabanelli e Mario Orfeo sembrano due mondi destinati a non capirsi. Questa sera a mezzanotte scade il periodo di aspettativa che la giornalista si è presa dopo il congelamento del progetto di portale web (Rai24.com) che avrebbe dovuto guidare da direttore. Ma, se nel braccio di ferro con Viale Mazzini Gabanelli aveva avanzato la contro-proposta di un suo ritorno in tv con una striscia quotidiana di 4 minuti dopo il Tg1 delle 20 (un programma di data journalism dove un fatto viene raccontato per numeri), il vertice Rai ora rilancia offrendole sì un ritorno in video, ma a Report, il programma che lei stessa ha ideato e portato al successo, ma che aveva deciso di abbandonare a novembre 2016. E in più mette sul tavolo sempre la stessa pietanza già rifiutata: occuparsi del rilancio di Rainews.it in condirezione con Antonio Di Bella.
La proposta di Viale Mazzini sembra fatta apposta per prendere tempo: intanto viene confermata senza passi in avanti la condirezione di Rainews24 per mettere le basi alla futura creazione del nuovo portale (quello per cui la giornalista era stata chiamata in Rai da Antonio Campo Dall’Orto), in più il ritorno a Report, al fianco di quello che un tempo era il suo più stretto collaboratore, Sigfrido Ranucci, che dallo scorso dicembre ha preso in mano la trasmissione. Il tutto, fanno sapere da Viale Mazzini, in attesa del nuovo piano informazione che vedrà la luce nei prossimi mesi e i cui tempi sono fissati dal contratto di servizio appena approvato dal Cda e ora all’esame della Vigilanza.
Peccato, però, che la proposta web sia sempre quella già rifiutata da Gabanelli ed è proprio il motivo per cui si è messa in aspettativa (“non metto la faccia su un prodotto che non firmo”, aveva detto a settembre annunciando lo strappo), mentre il ritorno a Report sembra il modo per svicolare all’offerta del nuovo programma quotidiano dopo il Tg1. Tornare a Report, per lei che l’ha creato e condotto per 19 anni, sembra quasi una provocazione.
Difficile che Gabanelli possa accettare, ma a questo punto nulla si può escludere. C’è da chiedersi, invece, come mai non sia stata presa in considerazione l’idea del suo nuovo programma. Quattro minuti dopo il Tg1 spaventano così tanto i vertici Rai? Nell’anno in cui si andrà a votare, è probabile. “I palinsesti sono già stati approvati, difficile inserire un programma in corsa, anche se così di breve durata. Rischia di sballare tutta la programmazione…”, la spiegazione data nei giorni scorsi riguardo ai dubbi in tal senso di Orfeo. Eppure ieri pomeriggio le trattative tra l’ex conduttrice di Report e Viale Mazzini sembravano vicine a una svolta. “Ci stiamo parlando, vedremo nei prossimi giorni come evolverà la situazione”, faceva sapere Gabanelli. Che poi alle agenzie ripeteva il suo no al piano B offertole dalla Rai sul web. “Se la posizione dell’azienda resta immutata, ribadisco che non m’interessa. È come avere una 500 senza le gomme e per giunta con al volante un’altra persona…”, spiegava Gabanelli.
Poi, in serata, Viale Mazzini ha fatto trapelare la nuova doppia offerta. La palla ora torna alla giornalista, ma a un accordo si dovrà arrivare in fretta: questa sera a mezzanotte scade il termine dell’aspettativa. E dati i chiari di luna degli ascolti (Domenica in è scesa al 9,3%, mentre Fazio ha saltato ancora una puntata), per Orfeo perdere una campionessa dello share come Gabanelli non sarebbe un grande affare. Nel frattempo si muove anche Carlo Freccero, che ha in serbo un’altra proposta per un ritorno della giornalista in video, ma ne parlerà solo giovedì, dopo un incontro con il direttore generale.

il manifesto 31.10.17
Trump in picchiata e rabbioso sull’orlo del fallimento
Stati uniti. Anche la Fondazione Clinton legata alla Russia. E i repubblicani calcolano l’impeachment perché la Casa Bianca vada a Mike Pence, il cocco della destra religiosa oltranzista
di Guido Moltedo

Paul Manafort ammette di aver mentito e si costituisce, e Donald Trump tratta la notizia come un caso che non lo riguarda, cercando anzi di farlo figurare come un imbroglione, un ex-lobbista che avrebbe voluto approfittare di lui e del quale si è liberato per tempo.
Non sarà stato Trump a gettare Manafort sotto il treno per allentare l’assedio? Contemporaneamente, con una mitragliata di tweet diretti ai suoi quaranta milioni di follower, sposta i riflettori nuovamente sulla sua ex-rivale Hillary Clinton.
Lei sì, lei e i suoi collaboratori sì hanno qualcosa da nascondere in quanto a relazioni sporche con il Cremlino.
Se nel suo primo anno di presidenza, trascorso inutilmente a cercare di disfare le cose buone del suo predecessore, avesse conseguito qualche risultato apprezzabile almeno per i suoi elettori, Trump disporrebbe di una leva adeguata per fronteggiare politicamente lo scandalo montante. In una serie di tweet il politologo Matt Glassman osserva che «se Trump fosse al 56 per cento nei sondaggi, fosse amato dalla sua élite, avesse cancellato l’Obamacare, fatto approvare i tagli fiscali, sarebbe nelle condizioni buone per poter licenziare Mueller». E invece «è un presidente debole in serio pericolo di un fallimento completo della sua presidenza».
COSÌ, IL PROCURATORE speciale Mueller può procedere con puntigliosa intelligenza, componendo giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, il puzzle accusatorio che dovrebbe portare a dimostrare una connessione tra il presidente statunitense e il presidente russo Putin. Nessuno può più fermare l’indagine.
Privo del peso politico per farlo, Trump deve sacrificare via via un bel po’ di coloro che hanno reso possibile la sua elezione. Ieri con Manafort, sono finiti sotto giudizio altri due membri della campagna di Trump, George Papadopoulos e Rick Gates.
Il rischio è che Manafort – se non ha concordato con Trump la sua autoincriminazione o se sente finito il suo ex-capo che l’ha mollato – possa patteggiare con Mueller un trattamento indulgente in cambio di informazioni sul presidente e sulla sua corte, cioè soprattutto la cerchia familiare, a cominciare dal genero Jared Kushner e Donald Trump jr., che tra l’altro già sono al centro dell’attenzione per un incontro, il 9 luglio 2016, con un avvocato russo che avrebbe promesso loro un dossier per infangare Hillary.
SEMPRE PIÙ FRAGILE politicamente, la sopravvivenza di Trump si lega al sostegno del Partito repubblicano. Ma non è il «suo» partito, è un partito che ha «scalato» da outsider, e questa relazione conserva l’anomalia originaria. Trump non s’impasta proprio con i politici di professione. E viceversa.
Così una parte dei vecchi notabili l’avversa pubblicamente, prende le distanze, quando non esprime vero e proprio disprezzo. Gli altri calcolano la convenienza di un avvio de facto di un processo di impeachment sapendo però che a beneficiarne sarebbero i democratici più che il Grand Old Party.
Al tempo stesso questa presidenza in picchiata trascina con sé i repubblicani. Manca solo un anno alle elezioni di medio termine e in molti stati dove la competizione è dura la connessione con un presidente come Trump potrebbe costare cara a un bel po’ di candidati repubblicani.
L’UNICA OTTIMA ragione per farlo fuori sarebbe quella di potersi riprendere la Casa Bianca, con Mike Pence, il cocco della destra religiosa oltranzista e il pupazzo dei fratelli Koch, i supermiliardari che hanno speso una fortuna in campagne per ostracizzare Barack Obama. Una presidenza Pence farebbe rimpiangere quella attuale.
NELLO SCENARIO va tenuto presente il Cremlino, che, di fronte allo sviluppo del Russiagate, ha sempre mantenuto un atteggiamento prudente, limitandosi di volta in volta a respingere accuse e insinuazioni di un coinvolgimento nelle elezioni del 2016. Indubbiamente, fosse vero che gli agenti di Putin hanno lavorato alacremente negli Usa, negli ultimi anni, per influenzare le dinamiche all’interno dell’eterno rivale, sarebbe anche vero che dispongono di carte con le quale possono ancora intervenire nel match in corso. Anche favorendo lo spostamento dell’attenzione verso Hillary, come cerca di fare Trump.
È uno snodo delicato, nel quale il Partito repubblicano può avere un ruolo, aprendo al Congresso una serie d’inchieste nei confronti di Clinton come chiede il presidente, in particolare sull’email-gate e su donazioni ricevute dalla Fondazione Clinton in cambio del sostegno di Hillary, allora segretario di stato, per un affare riguardante lo sfruttamento da parte russa di siti di uranio negli Usa.
Come nella campagna elettorale, la partita ora si gioca dunque nuovamente tra Trump e Clinton. Ma è la partita perché questo presidente non soccomba.
I russi, se davvero dispongono di carte, potrebbero cercare di salvarlo, colpendo Hillary. Ma i repubblicani?

il manifesto 31.10.17
Cospiratori e bugiardi: gli uomini di Trump si consegnano all’Fbi
Stati uniti. Ma l’ex direttore della campagna elettorale Manafort e il consigliere Gates si dichiarano innocenti. Riciclaggio, evasione e cospirazione tra i dodici capi di imputazione: il super procuratore Mueller procede tramite vicende collaterali al Russiagate. Papadopolous smascherato: aveva mentito ai federali sui tempi delle comunicazioni con Mosca
di Marina Catucci

NEW YORK Paul Manafort, ex direttore della campagna elettorale di Trump, e il suo partner d’affari ed ex consigliere di Trump, Rick Gates, alle 8 di ieri mattina si sono presentati alla sede dell’Fbi di Washington per consegnarsi ed evitare le manette.
A carico di Manafort ci sono 12 capi di imputazione, nessuno dei quali connesso con l’attività politica: riciclaggio, evasione fiscale, violazione delle regole che disciplinano la professione di lobbista.
Usando questi capi di imputazione, il procuratore Robert Mueller ha confermato le previsioni riguardo la tattica che avrebbe usato: non andare direttamente al cuore del Russiagate (le collusioni tra Mosca e i collaboratori di Trump), ma approcciare vicende collaterali. Secondo analisti e esperti di diritto americani anche l’accusa di «cospirazione contro gli Usa fino al 2017» va inserita in un contesto di violazioni tributarie.
Ciò non alleggerisce la posizione di Manafort, da anni nel mirino dei servizi segreti americani a causa dei suoi rapporti con Putin e il presidente ucraino filo-russo Viktor Yanukovych, defenestrato nel 2014 durante la rivolta di Maidan.
Ciò che l’Fbi contesta a Manafort e Gates sono violazioni commesse dal 2005 al 2010-2011, con strascichi fino al 2017. L’epicentro dovrebbe essere la dichiarazione fiscale di Manafort del 2010-2011 e i rapporti tra Manafort e Gates con Yanukovych e gli imprenditori russi che gestivano l’economia del Paese.
Nei documenti che motivano l’incriminazione di Manafort e Gates si legge che «Manafort ha usato una fortuna nascosta oltreoceano per mantenere uno stile di vita di lusso negli Stati uniti, senza pagare tasse su quel reddito. A questo scopo sia Manafort che Gates hanno mentito ripetutamente al fisco».
I due, ieri, davanti alla corte federale di Washington che ha formalizzato l’incriminazione, si sono dichiarati non colpevoli. Da ieri sono agli arresti domiciliari, dopo cauzioni da 10 e 5 miliardi di dollari.
Manafort, tra tutti i collaboratori di Trump coinvolti nel Russiagate, era considerato il più vulnerabile dal punto di vista legale: era stato licenziato dopo la convention repubblicana di Cleveland, quando erano emersi i primi indizi sui suoi rapporti con i russi, inclusa una consulenza da 12 milioni di dollari per Yanukovych. A fine luglio la sua abitazione in Virginia era stata perquisita dall’Fbi, con un blitz all’alba.
Manafort non si è mai sottratto e ha sempre collaborato con le autorità, ma nonostante ciò sia lui che Gates hanno collaborato informalmente con Trump fino a poco tempo fa.
Una delle ragioni per cui la sua posizione è molto rilevante deriva dalle intercettazioni in mano ai servizi segreti che, dopo una sospensione di qualche anno, avevano ripreso a controllare le sue comunicazioni quando aveva cominciato a collaborare con Trump, il quale non è mai stato messo sotto controllo direttamente, ma potrebbe essere stato indirettamente intercettato.
Ma i problemi non più teorici e di immagine, per Trump, non terminano con Manafort e Gates. Robert Mueller ha reso noto che l’ex collaboratore volontario della campagna di Trump, George Papadopolous, poche ore dopo la consegna volontaria di Manafort, si è dichiarato colpevole di aver reso false dichiarazioni all’Fbi nell’ambito delle indagini sul Russiagate.
Secondo l’ufficio di Mueller, Papadopolous ha mentito riguardo «i tempi, l’estensione e la natura dei suoi rapporti e della sua interazione con certi stranieri che aveva capito avere strette connessioni con alti dirigenti del governo russo».
Dopo Donald Trump Jr, Papadopolous è quindi la seconda persona vicina a Trump che, con certezza, durante la campagna elettorale ha avuto incontri con rappresentanti del governo russo per discutere di materiali potenzialmente dannosi per Hillary Clinton.
Papadopolous era stato arrestato a fine luglio, ma si è dichiarato colpevole solo lunedì: «Attraverso le sue false dichiarazioni e omissioni – ha dichiarato lo staff di Mueller – l’imputato ha ostacolato l’indagine dell’Fbi in corso riguardante l’esistenza di qualsiasi legame o coordinamento tra individui associati alla campagna e gli sforzi del governo russo per interferire con le elezioni presidenziali del 2016».
Papadopoulos, nel primo colloquio con l’Fbi, aveva affermato di aver avuto dei contatti con Mosca prima che Trump lo prendesse come collaboratore della campagna elettorale, nel marzo 2016. In realtà aveva iniziato a comunicare con i russi dopo aver aderito alla campagna in qualità di esperto di fonti energetiche.
Il terremoto annunciato non è il punto finale, ma quello di inizio: ora si aprirà un processo dall’esito imprevedibile e che potrebbe durare mesi.

Corriere 31.10.17
lo scenario
Perché può essere anche peggio del Watergate
di Massimo Gaggi

Uno scandalo che potrebbe rivelarsi più grave del Watergate che portò alle dimissioni del presidente Nixon: questa la previsione di James Clapper, che è stato per anni ai vertici dell’intelligence Usa.
A desso che è stato arrestato, tutti si chiedono se Manafort, rischiando anni di galera per riciclaggio ed evasione fiscale, metterà sotto accusa il presidente da lui aiutato ad arrivare alla Casa Bianca. Trump disinnescherà la mina concedendogli il perdono presidenziale? E, se lo farà, questo significherà solo il trasferimento del detenuto Manafort da un carcere federale a uno dello Stato di New York? La Casa Bianca, infatti, può perdonare solo i reati federali, non quelli statali. Mentre l’ex capo della campagna elettorale di Trump è stato incriminato anche a New York.
Ma per capire la gravità del Russiagate, la scossa che ha dato alle principali istituzioni americane facendole vibrare fin nelle fondamenta, più ancora che osservare il volto di Manafort che va a consegnarsi o quello di George Papadopoulous, il consigliere di politica estera della campagna di Trump che ha ammesso di aver mentito all’Fbi sui suoi contatti con emissari russi con legami al Cremlino, bisogna osservare i lineamenti glaciali di un oracolo cupo: James Clapper, l’ex capo della National Intelligence, la sala comando dei servizi segreti federali .
L’accusatore
Per decenni anima oscura e silenziosa dello spionaggio, incarnazione del deep state, il cuore del sistema americano, da alcuni mesi Clapper fa una cosa per lui innaturale: parla coi giornalisti. Ed è anche divenuto una presenza abituale negli studi della Cnn. Non solo: questo personaggio di estrazione militare (30 anni nella US Air Force prima di passare ai servizi segreti civili) che di certo non era un progressista e venne messo sotto accusa dai democratici quando Edward Snowden rivelò l’estensione dello spionaggio telefonico e di Internet condotto dalla Nsa, ora è divenuto un implacabile accusatore di Trump.
Nelle stesse ore in cui sono stati eseguiti i primi arresti nell’ambito dell’inchiesta di Robert Mueller sul Russiagate, Clapper, intervistato dal sito Politico.com, ha detto che la vicenda delle infiltrazioni russe nelle presidenziali del novembre scorso «ha implicazioni più gravi di quelle del Watergate perché stavolta a muoversi è un avversario straniero che interferisce in modo diretto, aggressivo, nel nostro processo politico mirando chiaramente a minare il sistema democratico Usa». Mentre lo scandalo che nel 1974 costrinse alle dimissioni il presidente Nixon «fu un imbroglio politico tutto interno al Paese» .
L’attacco alle reti social
C olpisce soprattutto l’ammissione che i servizi segreti più potenti del mondo non avevano capito, fino a qualche mese fa, la profondità, la ramificazione e la raffinata logica dell’infiltrazione russa nelle reti sociali americane: «Sapevamo che usavano i social media ma ci sfuggiva quanto sofisticata fosse la loro azione, basata su pubblicità indirizzata a gruppi mirati di utenti e sull’azione di falsi gruppi di attivisti americani a sostegno di cause di segno opposto, da Black Lives Matter alle campagne contro gli immigrati». Manovre che, secondo Clapper, non solo hanno influenzato il voto di un anno fa ma hanno «avuto pieno successo nell’accelerare la polarizzazione e le divisioni nella politica americana» .
«Ha vinto Putin»
Da quando ha lasciato i servizi segreti, Clapper è finito nel mirino di Trump che gli ha dato anche del nazista e l’ha accusato di averlo spiato fin dentro la Trump Tower (accusa rivelatasi infondata). Per nulla intimorito e rompendo con le abitudini di una vita vissuta nel riserbo, Clapper ha spiegato che ha deciso di uscire allo scoperto davanti a una situazione che giudica pericolosissima per la democrazia e la sicurezza dell’America, aggravata dall’assenza di reazioni della Casa Bianca: «Li abbiamo informati subito dopo l’elezione di Trump, ma il presidente ha minimizzato, ha detto che il Russiagate è una presa in giro, una caccia alle streghe. Putin fin qui ha vinto. E ora si sente incoraggiato a continuare. Tanto più che il presidente, mentre attacca l’accordo atomico con l’Iran, nonostante Teheran lo abbia rispettato, ignora le più gravi violazione russe del Trattato sulle armi nucleari di medio raggio».
Clapper termometro della volontà del «deep state» di andare fino in fondo contro Trump? Probabilmente sì, anche se lui non considera un toccasana un eventuale impeachment: «Farebbe esplodere ancora di più polarizzazioni e divisioni, alimenterebbe la teoria delle cospirazioni. Non sono sicuro che la rimozione del presidente sarebbe una buona cosa» .

Repubblica 31.10.17
Che cosa rischia il presidente
Perché quelle dello Special counsel sono solo le mosse iniziali: fanno pensare a un “effetto domino” di nuove rivelazioni compromettenti per Trump
La vulnerabilità del tycoon si vede nelle reazioni evocate, come l’“auto-perdono” L’impeachment è una via difficile. Ma lo scandalo potrebbe favorire una rivincita democratica
Paul Manafort tra Donald e Ivanka Trump durante la convention repubblicana nel luglio del 2016
di Federico Rampini

NEW YORK COME per incastrare il boss mafioso Al Capone: si comincia dall’evasione fiscale. Paul Manafort, ex capo della campagna elettorale di Donald Trump, viene inchiodato su reati economici: frode fiscale, riciclaggio. Roba che qui in America può valere 20 anni di carcere, però. E intanto costa 10 milioni di cauzione più gli arresti domiciliari. Ma dietro Manafort e gli altri due incriminati, il grande interrogativo riguarda lo stesso presidente. Che cosa rischia esattamente Trump? E quali saranno le sue contromosse?
È vero quel che sostiene la Casa Bianca, le accuse ai tre incriminati non dimostrano una collusione Trump-Putin per dirottare l’elezione di un anno fa, il vero tema del Russiagate. Però lo Special Counsel Robert Mueller ha preso la guida di questa inchiesta solo a maggio, quelle di ieri sono le sue mosse iniziali. E la durezza da lui sfoderata contro i tre incriminati può avere un effetto- domino: sia inducendo questi tre a “cantare”, a fare rivelazioni che compromettono il presidente; sia sciogliendo la lingua di altri personaggi nell’entourage di Trump. La giustizia americana ha una tradizione di patteggiamenti e uso dei pentiti: le pene vengono ridotte a seconda di quanto l’imputato vuoti il sacco su altri.
Perciò conviene cominciare dalla seconda domanda, quella sulle possibili contromosse di Trump. Le difese di cui si discute ore alla Casa Bianca sono così “estreme”, che danno l’idea della posta in gioco. Si parla di due “opzioni nucleari”: il licenziamento del grande inquisitore Mueller, o l’auto-amnistia preventiva. Non a caso ieri i leader dell’opposizione democratica hanno iniziato un fuoco di sbarramento su questi due temi: difendendo Mueller e condannando l’opzione del perdono presidenziale. L’una e l’altra sono però legalmente possibili. Il grande inquisitore che è lo Special Counsel gode di ampia autonomia; però lo ha nominato questo governo (tramite il Dipartimento di Giustizia) e questo governo può cacciarlo. Trump ha esternato più volte la sua insofferenza verso la «caccia alle streghe » di Mueller, un ex capo dell’Fbi che nella sua carriera si è costruito una reputazione formidabile. Ancora nel weekend Trump lo attaccato – senza nominarlo – via Twitter: «Ma perché al centro dell’indagine non ci sono la corrotta Hillary e i democratici????? » (cinque punti interrogativi nell’originale).
Per adesso Mueller sta facendo quel che ci si attende: è la prova che le istituzioni americane funzionano, hanno al loro interno gli anticorpi e i contropoteri per bilanciare una presidenza inquietante. A destra però avanza una lettura diversa: è in atto la rivincita dell’establishment, Mueller è il tipico esponente di quel
Deep State (“Stato profondo”) che è una sorta di cupola dei poteri forti decisa a sabotare un presidente troppo innovativo.
Questa teoria del complotto potrebbe giustificare l’auto-perdono: più volte Trump ha ricordato che la Costituzione gli attribuisce una facoltà quasi illimitata di elargire il perdono presidenziale. Autorevoli giuristi avallano la tesi secondo cui lui può dare il perdono preventivo, cioè una sorta di immunità a parenti, collaboratori, perfino a se stesso. Tuttavia queste opzioni “nucleari”, il licenziamento di Mueller o la raffica di perdoni che svuoterebbero l’inchiesta, causerebbero un allarme nazionale. Si tratterebbe di uno scenario alla Richard Nixon: che prima di crollare per lo scandalo del Watergate nel 1974 aveva tentato di salvarsi cacciando gli inquirenti. Un dettaglio interessante, a riprova dell’abilità di Mueller: alcuni reati contestati a Manafort sono perseguibili localmente nello Stato di New York, mentre il presidente può perdonare solo reati federali. Manafort rischierebbe il carcere anche da “perdonato”.
Le contromosse di cui si discute riportano al nocciolo della questione. I tre arresti-incriminazioni di ieri quanto stringono il cerchio attorno a Trump? È vera la difesa della Casa Bianca secondo cui Mueller rinfaccia a Manafort reati commessi nel suo mestiere di affarista, non come capo della campagna elettorale. Però quei reati di evasione e riciclaggio conducono ai legami fra Manafort e affaristi ucraini, russi, vicini a Putin. L’incriminato più interessante è George Papadopoulos: figura meno importante nello staff elettorale, ha ammesso però di aver mentito su un episodio chiave. Fu lui l’anello di congiunzione con gli ambienti vicini a Vladimir Putin, che offrirono rivelazioni devastanti contro Hillary Clinton. E l’organizzazione elettorale di Trump, lungi dal prendere le distanze, lo incoraggiò a esplorare le offerte dei russi. Qui ci si avvicina al tema della “collusione”.
Non ci siamo ancora, però Mueller sembra deciso a esplorare gli angolini più reconditi di questa vicenda.
Poi tutto questo va riportato alla realtà politica. L’America non è una Repubblica parlamentare dove i governi possono cadere sotto il peso degli scandali. Il presidente- eletto può essere rimosso solo tramite impeachment o con una procedura d’interdizione prevista nel 25esimo emendamento alla Costituzione. L’uno e l’altra richiedono iter complessi e delle super-maggioranze al Congresso. Finora il partito repubblicano non dà segnali di volersi sbarazzare del proprio presidente. I dissensi sono autorevoli ma rari, e i senatori repubblicani più ostili a Trump hanno annunciato di non volersi ricandidare. In qualche modo lui è riuscito a fare un’Opa ostile sul partito.
Il Russiagate può favorire una rivincita democratica alle elezioni legislative che si terranno fra un anno. Con una maggioranza diversa al Congresso, tutto diventerebbe possibile. Un anno è tanto. E da qui al novembre 2018, i pessimisti temono che il Commander- in- Chief potrebbe inventarsi di tutto. Anche una guerra?

il manifesto 31.10.17
Corte Usa ferma Trump: transessuali nell’esercito
Stati uniti. A fine luglio il presidente aveva annunciato l'intenzione di cancellare la politica di apertura ai transessuali del predecessore Obama. La giudice Kollar-Kotelly lo ha però temporaneamente bloccato
di Marina Catucci

NEW YORK La corte federale di Washington ha sospeso il progetto di Trump di vietare ai transgender di arruolarsi nelle forze armate mentre il caso nel suo complesso è ancora sotto esame dei giudici.
A fine luglio il ‘commander in chief’ aveva annunciato la propria intenzione di cancellare l’attuale politica di apertura ai transessuali, decisa dall’ex presidente Barack Obama nel 2016. La decisione della giudice distrettuale Colleen Kollar-Kotelly ha però bloccato temporaneamente le intenzioni presidenziali.
Il giudice ha spiegato che i militari che hanno presentato ricorso contro il progetto di riforma di Donald Trump hanno alte possibilità di vincere il ricorso nell’esame di merito, anche se al momento il magistrato non ha accolta la richiesta dei ricorrenti di sbloccare i fondi del Pentagono sul cambio di sesso, la priorità di Trump.
Secondo il National center for transgender equality, ci sarebbero circa 134mila veterani transgender e oltre 15mila transgender sarebbero al momento in servizio nelle forze armate statunitensi.

Il Fatto 31.10.17
“La violenza dei giovani? Colpa della politica”
Il 18enne che pesta il bengalese e i baby stupratori a Rimini: parla la psicologa
“La violenza dei giovani? Colpa della politica”
di Sandra Amurri

Due ventenni condannati ieri a Torino per gli atti di bullismo contro un ragazzo più giovane, un diciottenne arrestato domenica a Roma per tentato omicidio di un bengalese, minori stranieri in carcere per il feroce stupro di una giovane polacca e di una trans ad agosto a Rimini. “La violenza nelle sue varie forme, subita, esercitata, è sempre esistita, ora la conosciamo ed è di maggiore intensità in quanto è amplificata dal mondo virtuale”, spiega Maria Rita Parsi, psicoterapeuta, presidente della “Fabbrica della Pace Movimento Bambino onlus” e membro del comitato Onu per i diritti dei bambini. “Ho ragazzi in terapia che mi mostrano video con scene di una violenza neppure lontanamente immaginabile. C’è solo da rabbrividire. Sono collezionisti dell’horror”.
E contemporaneamente vivono una quotidianità apparentemente normale?
Molti sì, altri no e mi riferisco a quelli affetti da Hikikomori, sindrome da isolamento che colpisce adolescenti e anche giovani adulti, che, con altri colleghi, abbiamo raccontato nel libro “Generazione H” che uscirà il 14 novembre (Piemme). In Italia sono accertati 30 mila casi, minorenni e non. Per lunghi periodi dormono di giorno, chattano di notte, fanno giochi di guerra, collezionano scene ferocissime, non escono mai dalla loro stanza, non vanno a scuola e se i genitori li privano del computer o del cellulare diventano violenti.
Quanto conta il web?
Sapete che esiste un web killer, Balena blu, che li accompagna attraverso cinque prove di coraggio come fotografarsi in situazioni di pericolo estremo o attraversare i binari mentre passa il treno e molto altro? Al termine c’è chi si suicida o chi esercita violenza sugli altri, così senza alcuna motivazione, ammesso che possa esisterne una. Vivono solo nel virtuale, poi quando escono la realtà è solo un prolungamento, una estensione in cui non esistono passioni, sentimenti, esiste solo la violenza. La diversità che vuoi distruggere, pensiamo al bullismo, ce l’hai dentro, ecco perché ti accanisci contro chi è, anche solo apparentemente, più debole. Lo stesso vale per il razzismo. Vogliamo parlare del lavaggio del cervello di certa politica? I ragazzi crescono da un lato iperprotetti e dall’altro bombardati dal virtuale che è assolutamente fuori dal controllo dei genitori. Dobbiamo rifondare la società sui sentimenti, su un linguaggio umano, delicato. È possibile solo lavorando sulle famiglie e sulla scuola. Se hai rabbia dentro, se ti senti triste, inutile, se non hai prospettive per il futuro, nulla è più forte della violenza e la violenza vincerà.
Non c’è via d’uscita?
La soluzione sta nell’educare le famiglie e gli insegnanti al virtuale affinché possano a loro volta educare figli e studenti. Il gap generazionale fra genitori e figli è enorme rispetto al passato. Prima il nucleo educativo primario era la famiglia, poi veniva la scuola, ora è il virtuale. In Italia esistono ottomila Comuni debbono organizzare ore di formazione per le famiglie. Non ti prendi in carico le famiglie solo con gli 80 euro in più, occorre dargli sostegno, formazione. O si crea un’educazione al virtuale o sarà un fallimento generazionale. Dobbiamo rifondare le basi di questa società o quello a cui assistiamo sarà nulla.
Nel virtuale trovano esempi negativi, nella realtà mancano quelli positivi.
Sicuramente. Basta gettare l’occhio alla politica. Mandiamo al potere, molto spesso, la parte peggiore di noi. E gli esempi per i ragazzi sono consequenziali. Tutto ciò che è negativo diventa normale.

La Stampa 31.10.17
Quando Hemingway
si infatuò di Mussolini
Nel giugno del ’22 lo scrittore divenuto icona dell’antifascismo intervistò il futuro Duce e ne fece l’elogio (salvo ricredersi già sei mesi dopo) In un libro di Canali l’Italia in camicia nera raccontata dai giornalisti Usa
di Mirella Serri

«È un uomo grande, dalla faccia scura, con una fronte alta, una bocca lenta nel sorriso e mani grandi». E ancora: «Non è il mostro che è stato dipinto». Già, proprio così: gran parte della stampa italiana lo ritrae come «un rinnegato socialista» ma, invece, guai a addossargli colpe non commesse: Benito Mussolini, è di lui che si parla, ha «avuto molte buone ragioni per lasciare il partito». È il giugno del 1922, quattro mesi prima della marcia su Roma, e sulle colonne di una testata d’oltroceano, il Toronto Daily Star, appare in due puntate un lusinghiero ritratto del leader del fascismo: a vergarlo è il giovane Ernest Hemingway.
Una quindicina di anni più tardi, dopo aver partecipato alla guerra di Spagna dalla parte delle milizie antifranchiste, il celebre narratore pronuncerà uno dei giudizi più forti sul fascismo: «Una menzogna detta da prepotenti». Nei primi Anni Venti, però, ebbe un breve periodo di sbandamento per il demagogo e sollevatore di folle. Hemingway, in viaggio in Italia con sua moglie Hadley, colse l’occasione per concordare un’intervista con Mussolini. Lo incontrò a Milano e ne fu irretito. Per lo scrittore che durante la Grande guerra si era presentato volontario per combattere in Italia ed era stato ferito, il futuro Duce era da considerarsi un vero patriota, l’unico politico in grado di capire che «i frutti della vittoria italiana nella prima guerra mondiale rischiavano di essere messi in pericolo dall’onda sovversiva».
«Man of the People»
Ma come era nata questa simpatia del grande scrittore antifascista per il capo delle squadracce in camicia nera? A riportare alla luce gli articoli di Hemingway è Mauro Canali nel bellissimo e documentato libro La scoperta dell’Italia. Il fascismo raccontato dai corrispondenti americani (Marsilio, pp. 495, € 20). Lo storico passa in rassegna la carta stampata statunitense dall’inizio del secolo alla Guerra fredda. E dimostra con dovizia di dati che, fino all’ascesa dell’altra dittatura, quella nazista, le pubblicazioni a stelle e strisce - dal Chicago Daily News al Chicago Tribune, dal Public Ledger di Filadelfia al New York Herald Tribune al New York Times - ospitarono assai di frequente interventi di giornalisti sostenitori del regime italiano.
Il tiranno veniva descritto come un condottiero abile e spregiudicato, che meritava l’applauso per le origini modeste, per le notevoli promesse di cambiamento fatte al popolo italiano e per la capacità di mettere a tacere i vecchi politicanti. Era considerato da cronisti e inviati americani un vero «Man of People». Furono dunque numerosi gli editorialisti d’oltreoceano che accettarono di farsi megafono e portavoce di questa raffigurazione del dittatore che prometteva «una seria riforma del capitalismo», come scrive Canali, «con l’aggiunta di elementi di umanitarismo sociale».
Il dinamismo e l’improntitudine mussoliniana soggiogarono tra gli altri il notissimo Walter Lippmann che nel 1927, con The World, cercava di avere presa sulla comunità italo-americana. E ammaliarono Ida Tarbell, detta la «rossa radicale» per la vicinanza alle posizioni del movimento socialista americano, che nel 1926 si innamorò di Mussolini al punto di scrivere articoli senza mai accertare la veridicità delle informazioni fornitele dai funzionari del regime. La Tarbell rappresentò gli italiani in camicia nera come un popolo laborioso, felice e sempre in festa.
I reportage di Anne O’Hare McCormick fecero gran scalpore sul supplemento domenicale del New York Times poiché definivano il fascismo come un movimento «spietato», ma giusta espressione della rivolta dei giovani «stanchi degli armeggi dei parlamenti, delle prudenti formule della ragion di Stato». Persino la marxista e femminista Louise Bryant, moglie di John Reed, fu attratta: dopo essere stata in Russia nei giorni della Rivoluzione d’Ottobre, scoprì nell’italiano di Predappio l’esponente di una nuova, intrigante «razza» politica. E per tanti altri corrispondenti, da Edgar Ansel Mowrer, prestigiosa firma del Chicago Daily News, ad Arnaldo Cortesi del New York Times, poi premio Pulitzer, a Floyd Gibbons del Chicago Tribune, la suggestione mussoliniana si mantenne intatta fino alla metà degli Anni Trenta.
«Il più grande bluff»
Per Hemingway, invece, in assoluta controtendenza, il fascino del despota si esaurì rapidamente. Nel gennaio del 1923, resosi conto del grave errore in cui era incorso, stigmatizzerà Mussolini come «il più grande bluff d’Europa», denigrando pure le fattezze del «portatore di piccole idee espresse con grandi parole» e rilevando che «c’è qualcosa di sbagliato, anche istrionicamente, in un uomo che indossa ghette bianche assieme a una camicia nera». Lo irrise sostenendo che stava conducendo un gioco pericoloso «organizzando il patriottismo di una nazione senza essere sincero». Racconterà infine che, entrato nella stanza dove si teneva la conferenza, lo vide «seduto alla scrivania intento a leggere un libro con il famoso cipiglio sul volto». Sbirciando dietro le sue spalle si accorse che «si trattava di un dizionario francese-inglese tenuto a rovescio».
Nonostante il carisma attribuito a Mussolini dai quotidiani e dai magazine americani, vi fu comunque anche un consistente numero di scrittori e giornalisti che si sottrasse alla fascinazione: Francis Scott Fitzgerald, per esempio, non si fece condizionare. Il romanziere, giunto a Roma nel 1924 con la consorte Zelda, fu colto da repulsione e disgusto di fronte alla situazione della capitale e della penisola. Definì l’Italia una terra morta e scrisse che «chiunque fosse illuso dallo pseudodinamismo sotto Mussolini è illuso dall’ultima spasmodica contrazione di un cadavere». Alla prova dei fatti «the Man of People» si stava mostrando un ciarlatano e il suo tanto esaltato appeal era inesistente.

La Stampa 31.10.17
Liliana Cavani
“In principio fu l’eguaglianza ma poi venne il terrore”
La regista: “Un antico sogno, erede del cristianesimo e della Rivoluzione francese. Con Stalin, il totalitarismo”
intervista di Francesca Paci

Lo studio di Liliana Cavani è il suo salotto affacciato sull’isola Tiberina dove nonostante le grandi finestre sembra regnare una penombra mistica.
Cosa le evoca la Rivoluzione d’ottobre?
«È stata un importante atto politico che ha provato a realizzare il sogno antico e moderno dell’eguaglianza, un sogno erede della rivoluzione francese e prima ancora di San Francesco che, senza predicarlo, lo viveva. Il Vangelo è un patrimonio della cultura occidentale».
Come ha potuto il 1917 spianare la strada al terrore raccontato nel 1962 dal suo documentario, «L’età di Stalin»?
«Gli elementi più liberi vagheggiavano l’utopia. Non dimentichiamo che il XX secolo si tira dietro la miseria dell’800, l’analfabetismo, l’emigrazione. Lenin portava istanze comprensibili: il 1917 riscattò tutti. Purtroppo gli intellettuali finirono come le rivoluzionarie francesi, che lottarono per essere escluse. A quel punto, superato Lenin, Stalin andò al passo col nazismo-fascismo. Continuo però a credere valida l’idea che l’uomo meriti un’emancipazione politica».
Il cinema è l’anima della Russia bolscevica. Nel montaggio di Ejzenstejn c’è già l’antinomia del media-messaggio, macchina dei sogni o della propaganda. Cosa ha imparato di quella stagione?
«L’arte del cinema era nuovissima, in quegli anni nasce il cinema sociale. Nasce anche il montaggio, il fraseggio che narra la storia rendendola un romanzo filmato. Non è sorprendente che i totalitarismi ne approfittassero, arrivarono le pellicole di propaganda nazista e quelle sovietiche. Il cinema parlava il linguaggio della modernità».
È la modernità la cifra del secolo breve?
«Piuttosto l’intolleranza. Il Novecento è un secolo moderno ma anche feroce, con la violenza come pratica teorizzata. Mio nonno era un socialista progressista. Da quando è morto, nel 1947, mi chiedo cosa avrebbe pensato del progresso di fronte al Terzo Reich. Non so immaginare nulla come il nazismo nell’antica Roma. Eppure quando nel 1965 andai in Germania per la Rai c’erano studenti che ignoravano chi fosse Hitler. È la stessa memoria corta che si avverte oggi nei Paesi dell’ex blocco comunista. L’Europa ha visto la luce per esorcizzare tutto questo».
Nel 1945 lei è una scolaretta: si parlava di politica in famiglia?
«Sono cresciuta antifascista ma della guerra ricordo poco. Ho invece l’immagine di una visita di Starace a Carpi, siccome in piazza non vedevo nulla, un vicino mi sollevò e mi apparvero tutti quei fazzoletti neri. Pochi anni dopo la stessa piazza si sarebbe riempita di fazzoletti rossi in festa per la liberazione. Purtroppo avvenne tutto senza consapevolezza. I fazzoletti rossi erano giusti ma mancava la Storia. Si ambiva al cambiamento, la fine della guerra ma anche la pace sociale, la parità dei sessi. Era stato il 1917 a tenere a battesimo questi concetti, anche se poi la messa in discussione della proprietà avrebbe portato al fascismo. C’era tanta ingenuità».
Che rapporto ha avuto con il comunismo?
«Non sono mai stata nel partito. A casa si respirava il socialismo. Più avanti ho incontrato dei cattolici bravissimi, come il padre di una mia amica di Carpi che salvò i 110 ebrei della città. Ho conosciuto il cristianesimo sociale, ho visto i cattolici operare con più giustizia e umanità. Erano i tempi di una chiesa nuova, c’era De Gasperi, l’unico non ammesso al cospetto di Pio XII perché nel ’48 aveva preferito i comunisti ai monarchici. Da piccola non capivo, non andavamo a messa ma vivevamo di valori. Esiste una morale laica non opposta a quella cristiana».
C’è chi dice che fu proprio l’Unione Sovietica a seppellire la falce e il martello.
«Stalingrado fu grande, il popolo ci difese: è lì che passa il messaggio del comunismo come unità ideale. Ma lo stalinismo fu una dittatura, è inutile sfuggire. Ricordo una polemica nel ’68 a Venezia, dove portavo Galileo. Alla Casa della Cultura del Pci si protestava contro la presidenza di Chiarini perché era un socialista, ma a me sembrava che fosse un modo per non parlare dei tank entrati in quelle ore a Praga. Così quando alcuni miei colleghi ritirarono i loro film dalla Mostra io non lo feci. Non capivo il silenzio su Praga. Due anni prima, sempre a Venezia, avevo conosciuto dei giovani cineasti cecoslovacchi che mi avevano poi invitato a Praga a presentare Francesco. Uno di loro era il direttore della tv e, mentre noi contestavamo Chiarini, veniva arrestato da quelli che pretendevamo di rappresentare».
Il suo Galileo è il contrario dello scienziato disegnato dal comunista Brecht?
«Non amavo il Galileo di Brecht, il mio lo feci diverso. Non è vero che tradì. Era moderno. Capì che era più importante vivere e aveva ragione: avrebbe poi inventato il microscopio».

La Stampa 31.10.17
“Ora e sempre bolscevichi”
I Cccp tornano sul palco
di Franco Giubilei

A inizio Anni 80 il mondo si precipitava lungo la strada del liberismo trionfante e l’intera Cortina di ferro scricchiolava annunciando crolli colossali, ma loro puntavano lo sguardo in direzione opposta, a Est, ispirandosi all’estetica del socialismo reale e inventandosi il punk filosovietico. Due reggiani in trasferta a Berlino, Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti, fondavano i CCCP Fedeli alla Linea e pubblicavano il loro manifesto nel primo disco, Ortodossia: «All’effimero occidentale preferiamo il duraturo, alla plastica l’acciaio, alla freddezza il calore, ma al calore la freddezza. Ognuno ha l’immaginario che si merita».
Quella scelta non è mai stata rinnegata e oggi, a cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, rivive nello spettacolo di Zamboni «I Soviet + L’Elettricità», al debutto il 7 novembre al Teatro Augusteo di Napoli: «Sono di Reggio Emilia e mi merito questo immaginario, perché ho un mio passato di militante legato alla tradizione politica di questa terra». Quando tutto il mondo occidentale sguazzava felice nell’edonismo reaganiano, i CCCP, di cui questo «comizio musicale» riporta in concerto il repertorio, affermavano la forza grafica della falce e martello e delle divise dell’Armata Rossa indossate dal vivo. Pura scelta estetica? In parte sì, anche se l’esperienza politica di entrambi aveva risentito pesantemente dell’essere cresciuti nella zona più comunista d’Italia.
Col tempo però le cose sono mutate: «La fascinazione estetica per il comunismo va calando con gli anni - spiega Zamboni -, mentre si assesta la dimensione etica, perché la sostanza è sempre stata etica. Le istanze di quella rivoluzione sono vive tuttora: riscatto, emancipazione, il potere di una minoranza di oppressori su un’infinità di oppressi».
Ma oggi? La dialettica serrata fra estetica ed etica continua, racconta Zamboni: «In questo spettacolo la dimensione estetica non è solo celebrazione e retorica, che pure c’è. Nel frattempo c’è stato un secolo con le guerre in Afghanistan e nell’ex Jugoslavia, ci sono stati due conflitti mondiali, e il nostro progetto ne tiene conto: cominceremo con una marcia funebre al buio, che veniva usata per le vittime della rivoluzione, ma non ci saranno belle bandiere, ci sarà un palco allestito come un comitato centrale del Pcus, e noi saremo in divisa da bolscevichi del terzo millennio».

Corriere 31.10.17
Possiamo davvero governare i sogni?
Gli esperimenti per intervenire sulla propria trama onirica
I dubbi dello psicoterapeuta: un errore cancellare gli incubi
di Silvia Morosi

«La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?». Nell’attesa di trovare una risposta al quesito che ha reso famoso Gigi Marzullo, uno studio australiano ha individuato un metodo per diventare — letteralmente — registi della trama e dell’esito della propria avventura (o disavventura) notturna. E muoversi in quello che è conosciuto come «sogno lucido» (un sogno nel quale si è consapevoli di sognare), tema al centro tra gli altri del film Inception di Cristopher Nolan (2010).
Il metodo, tutt’altro che semplice, è stato analizzato da un team di ricercatori dell’Università di Adelaide, guidato da Denholm Aspy. In particolare, sono state individuate tre tecniche, testate su 169 persone. La prima consiste nell’introdurre in fase di veglia piccoli test di controllo della realtà, nella speranza di innescare un’abitudine da riprendere durante il sonno, come chiudere le labbra e inspirare. La seconda prevede di svegliarsi per alcuni minuti dopo cinque ore di sonno e poi tornare a dormire, per entrare in un periodo Rem. La terza, infine, sfrutta il metodo Mild ( mnemonic induction of lucid dreams ): prevede anch’essa di svegliarsi dopo cinque ore e sviluppare l’intenzione di ricordare che stavamo sognando prima di tornare a dormire. I volontari sono stati divisi in tre gruppi e hanno sperimentato solo la prima tecnica, la prima abbinata alla seconda e poi tutte e tre. Quest’ultimo test ha dato i migliori risultati, riferendo un sogno lucido nel 17 per cento dei casi.
Secondo gli studiosi australiani, raffinare queste tecniche potrebbe aiutare nel trattamento del disturbo post traumatico da stress o dei sonni funestati da incubi, ma anche nello sviluppo della creatività, nel rafforzamento dell’autostima e, più in generale, nel raggiungimento dell’armonia. Nel frattempo, l’idea è quella di aumentare la quantità di queste esperienze «a comando», da studiare a fini di ricerca. «L’attività onirica ha da sempre una notevole importanza per l’uomo, per l’impatto emotivo che riveste e la possibile traduzione in significati utili all’esistenza», spiega Davide Liccione, psicologo-psicoterapeuta, direttore della Scuola lombarda di psicoterapia. Dal sistema religioso-filosofico del buddismo tibetano, che ne ha fatto un caposaldo, passando per Aristotele, fino a Stephen LaBerge, direttore in California del «laboratorio del sonno» più famoso del mondo ( Lucidity Institute ), i sogni lucidi sono studiati da decenni, perché accadono «spontaneamente» in molti di noi, ma il più delle volte ci dimentichiamo di averli fatti: «Il sogno non può essere imbrigliato nell’applicazione di qualche tecnica», chiarisce Liccione. Non possiamo, quindi, sognare a comando, ma «possiamo imparare, in alcuni casi, a prendere determinate direzioni piuttosto che altre». Non bisogna, però, escludere che «al pari di altre tecniche terapeutiche, quella del sogno lucido possa rivelarsi utile in alcune fobie specifiche».
Quali implicazioni reali può avere l’ingresso in questo eterno mistero? «Sin dall’antichità i sogni hanno affascinato e angosciato l’uomo», aggiunge Luca Mazzotta, psicologo specialista in psicoterapia psicoanalitica a Milano. In psicoterapia l’analisi dei sogni «è ancora importante perché aiuta a rappresentare aree dello psichico che altrimenti resterebbero senza forma». Certo, bisogna essere estremamente cauti sul tema sollevato dalla ricerca: «Sappiamo ancora troppo poco. Anche un incubo ha una sua funzione nell’economia psichica: siamo sicuri che sarebbe meglio evitarlo? — continua Mazzotta —. Si tratta, infatti, di rappresentare qualcosa che altrimenti non avrebbe accesso a una elaborazione psichica, il che potrebbe avere conseguenze peggiori dell’averlo sognato».
Il problema non è l’incubo, ma ciò che lo genera. Resta un ultimo interrogativo: ci sono problemi «etici» nell’entrare nei sogni altrui? «Se ciò fosse davvero possibile, credo di sì. Il sogno è qualcosa di privato, fa parte del vissuto più intimo di ognuno. Tutti ricordiamo qualche sogno che ci ha particolarmente colpito, e questo si inserisce nella nostra storia, nel nostro senso di identità, fa parte di quello che siamo», conclude Mazzotta.

Repubblica 31.10.17
A ciascuno il suo Lutero
Secondo la tradizione 500 anni fa il padre della Riforma affisse le 95 tesi a Wittenberg
Un episodio mai avvenuto ma che dimostra quanta leggenda ancora circonda la sua figura
I mille volti del ribelle che cambiò il mondo in nome della fede
di Alberto Melloni

Aveva quarantacinque anni Lucas Cranach in quella fine ottobre del 1517. S’era guadagnato una prima fama dipingendo a Vienna crocifissioni originalissime, come quella del 1503 (ora a Monaco), con i condannati posti attorno a Maria e Giovanni. Dal 1505 era entrato a servizio dei principi elettori di Sassonia a Wittenberg: la “città” (duemila anime) in cui Federico il Saggio voleva far nascere un suo ateneo e dove era stato chiamato, poco dopo di lui, Martin Luder, monaco agostiniano, prima professore di etica e poi di sacra scrittura, autore di commentari biblici importanti. Figura inquieta e travolgente a cui viene attribuito
un gesto che è entrato nell’immaginario collettivo: l’affissione, esattamente 500 anni fa, delle 95 tesi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg.
Un gesto mai avvenuto: Lutero non prese il martello né i chiodi, non numerò le tesi, e non affisse proprio nulla; semplicemente sollevò in una serie di punti, in una disputa accademica, il tema della disgustosa compravendita delle indulgenze che svenava la Germania e minacciava la fede. Un appello ai dotti e agli ecclesiastici, che però, dopo pochi anni, assunse nella leggenda la forma eroica dell’affissione e della sfida. Una scena immaginaria che altri artisti hanno ritratto, e che è diventata cinema con Joseph Fiennes (quello di Shakespeare in love, per intenderci) protagonista di Luther (2003). Un’iconografia fasulla opposta alla quale c’è la ritrattistica di Cranach (e dopo di lui dei suoi figli), diventati i gestori dell’“immagine” di Lutero nei dipinti: da quello dal fondo immobile in cui spiccano lo sguardo e le occhiaie del riformatore a quello funebre che lo ritrae morto, con la faccia gonfia e la testa sprofondata nel cuscino su cui si spense trentuno anni dopo l’inizio di quella che tutti, a buon diritto, chiamano “la” Riforma.
Ecco perché adesso — ancora una volta, come a ogni celebrazione — il ricorrere dell’anniversario di quella svolta condita di leggenda interroga la coscienza delle chiese, la storiografia e la cultura: ponendo una di fronte all’altra le letture di quell’uomo, crinale e cerniera di mondi ed epoche. E ancora oggi, nel cinquecentesimo anniversario di quell’inizio la “cosa” Lutero domanda una interpretazione alla quale non sfugge nessuno: sia chi sa tutto di Lutero, sia chi ne sa niente, sia chi è a mezza via. Forte, fortissima è la tendenza a leggere Lutero come l’inventore della modernità e delle sue libertà. Era la tesi dei suoi nemici e lo è stata per tanto tempo dentro il confessionalismo cattolico: dove appunto si dava del protestante come un insulto a tutto ciò che sembrava dotato di una dose di libertà e di coscienza di sé superiore a quella accettabile dal bigottismo ideologizzato. Ma è stata anche la linea di un apprezzamento sincero per il monaco che, cercando di spogliare dagli orpelli la vita di fede, è stato posto all’inizio di una età della soggettività. Sono i sostenitori di questa tesi che nella frase detta da Lutero davanti all’imperatore ragazzino Carlo V a Worms, col rischio di diventare l’ennesimo arrosto di riformatore — «qui io sto e non posso far diverso, amen» — notano che l’unica parola ripetuta era appunto io: un “io” nuovo, distante da quello del Quattrocento. È questo Lutero che a differenza di Colombo, partito per il nuovo mondo in cerca dell’oro necessario a fare la crociata su Gerusalemme e incappato in un continente sconosciuto, avrebbe invece scoperto, come scrive l’ultimo bel lavoro di Adriano Prosperi, il continente della libertà.
Falso? Assolutamente no: perché Lutero è personaggio così grande da portare e sopportare anche il rischio dell’eccesso di interpretazione. Così come è in grado di reggere e sorreggere la discussione sul suo essere l’ultimo dei medievali e il primo dei moderni, che vede dibattere in Germania i tre “tenori” della storiografia luterana, il grande storico berlinese Heinz Schilling (intervistato lo scorso giugno su queste pagine), Thomas Kaufmann e Volker Leppin. Ed è anche in grado si resistere alla insopportabile semplificazione che vede incarnata nella figlia del pastore Kasner (la cancelliera Angela Merkel) una cultura politica ispirata al rigore “luterano”, e in noi, terroni europei, una “cattolica” inclinazione all’autoindulgenza.
In realtà proprio le dimensioni teologiche, politiche, culturali di Lutero, domandano e impongono una lettura più profonda: che cerchi di capire non solo a cosa Lutero è “servito”, o a cosa si vorrebbe fosse “servito”. Ma cosa Lutero è stato e ha voluto essere: cioè un cristiano che in un mondo pronto ad accontentarsi di Erasmo e delle sue svenevoli finezze, ha travolto tutto ponendo davanti la fede, la scrittura, la grazia nella loro nudità. Con la durezza insopportabile di una persona insopportabile: insopportabilmente violento, insopportabilmente antiebreo, insopportabilmente ardente. Ma che dentro tutto questo ha portato una attesa di salvezza che ha cambiato il mondo e ha trascinato nella riforma anche il grande antagonista papista: perché, pur nella condanna e nel rifiuto, il papato dopo Lutero non è più stato quello di prima e ha dovuto iniziare una ricerca di autenticità evangelica di cui noi forse oggi vediamo non un approdo ma un frutto.
Oltre le tante maschere resta il nocciolo duro del personaggio: un cristiano deciso a porre la scrittura e la grazia davanti a tutto

Repubblica 31.10.17
Quando Hitler esaltava il grande eroe protestante
di Tonia Mastrobuoni

BERLINO Nel 1922 Adolf Hitler scrive che Gesù «è il nostro più grande Führer ariano». È forse la più gigantesca fake news della storia. Ma tradisce già un’ambizione che i nazisti trasformeranno un decennio dopo in religione di Stato. Cancellare ogni traccia di ebraismo dalla Bibbia, dichiarare “dannoso” il Vecchio Testamento, negare persino che Gesù fosse ebreo. Una mistificazione mostruosa che portò i nazisti a fondare nel 1939 ad Eisenach un istituto per de-giudeizzare la tradizione cristiana. E che motivarono anche attraverso il violento antisemitismo del tardo Martin Lutero.
Lo racconta una bella mostra su Lutero e il nazismo, allestita nel Museo della “Topographie des Terrors”, nel vecchio quartier generale della Gestapo a Berlino.
Il padre della Riforma protestante divenne sin dagli esordi una figura fondamentale della propaganda nazista. E non solo per il suo antisemitismo. Sin dall’unità tedesca e dalla fondazione del Reich nel 1871, l’uomo che si era ribellato al Papa e che, secondo Thomas Mann, aveva liberato lo spirito dei tedeschi traducendo la Bibbia nella loro lingua, era considerato un padre della patria.
Nella perenne tendenza al pervertimento di tutto, i nazisti lo trasformano in un secondo Führer. Il teologo Hans Preuss, nel suo libro Luther, Hitler, scrive che «entrambi sono chiamati a salvare il loro popolo. Da entrambi si leva il grido per l’Uomo Nuovo della salvezza». E lo storico Heinrich Bornkamm distorce il pensiero del riformatore sino a rintracciare nei suoi scritti un antisemitismo non diretto «contro l’ebreo in sé» ma motivato dal concetto di razza. Hans Delbrück muore nel 1929 e non assiste alla deriva della sua Storia universale, la cui ultima parte viene affidata a un fervente nazista come Konrad Molinski. Sulla copertina, due figure- simbolo dell’epoca moderna e di quella contemporanea, secondo la Germania di allora: Lutero e Hitler.
In quegli anni si consuma un divorzio drammatico tra i teologi e gli storici protestanti tedeschi e quelli del resto del mondo e già nel 1933, in occasione dei festeggiamenti per il quattrocentocinquantesimo anniversario della nascita del padre della Riforma, il governatore della Turingia può dire, euforico, che «Lutero è nostro». Certo, nella follia collettiva, nascono anche sacche di resistenza, come la Bekennende Kirche, quella di Karl Barth o Dietrich Bonhoeffer. Il quale commenterà amaro: «Vedo la parola di Lutero ovunque, trasformata da verità in inganno».
Nel 1939 un rapporto della Gestapo rileva una differenza sostanziale tra protestanti e cattolici. Tra i primi registra «preghiere sincere per il Fuehrer e il popolo tedesco, che scaturiscono da una profonda comprensione degli avvenimenti odierni», cioè quelli che stanno precipitando la Germania e il mondo intero nel baratro della guerra. Tra i cattolici, la Gestapo nota invece con fastidio che si parla di «tempi difficili» con i quali Dio sta mettendo alla prova i tedeschi perché ritrovino la «retta via alla vera Chiesa e al vero Dio». Che non è il Führer nazista, evidentemente.

Repubblica 31.10.17
Vita, passioni e opere del comunardo Gustave Courbet
di Valeria Parrella

“La chiara fontana” di David Bosc, un romanzo sugli ultimi anni del pittore francese che amava la natura selvaggia, l’acqua e i più deboli
Capita che gli scrittori si accordino alle note di un altro artista, di una figura della Storia a cui sono riconoscenti, che li ha inquietati, incuriositi, fino a diventare ossessione, oggetto di studio, e personaggio. Capita che la biografia diventi romanzo, che ciò che i documenti non sanno riportare — perché la burocrazia non sa raccontare, le annotazioni non vanno lette ma interpretate — venga ricostruito negli occhi di un altro artista, che arriverà secoli dopo sulle stesse strade, spinto dalla medesima passione per il mondo e le sue espressioni. È stato un imperatore filosofo per Yourcenar, Katherine Mansfield per Pietro Citati, Balzac per Zweig, Evaristo Carriego per Borges, e Kafka, dieci anni fa, nella grafic novel di Cramb. Qui, nell’incontro tra David Bosc (francese, classe 1975, autore di La chiara fontana, L’orma) e Gustave Courbet, c’è la compassione teneramente virile dell’uomo che riconosce la libertà all’altro, e sente la necessità di celebrarla. Courbet era quello che «non possono esserci scuole, ci sono solo pittori», che scandalizza il mondo con la realtà della sua origine: materica e incontrovertibile. Chi può contraddirlo che l’Origine du monde sia lì? Courbet è pure quello che alla proclamazione della terza repubblica francese chiede e ottiene l’abbattimento della colonna di Place Vendôme, perché era un simbolo napoleonico, e raccontava il sangue della battaglia di Austerlitz, e la prepotenza. Courbet amava il popolo, lo dipingeva, durante la Comune fu fatto assessore alla pubblica istruzione e, se parlava di sé, si dipingeva come quell’uomo disperato de l’Autoritratto del 1841.
Il cui talento di Gustave Courbet è così sicuro che fin dalle primissime tele «posava sulla Natura uno sguardo dritto, ad altezza di esistenza», dice Bosc. Dev’esser stata questa la cifra che lo fonda come padre del realismo, ed è entusiasmante che a dirlo in maniera così chiara, a stanarne la ratio profonda non sia un critico, bensì che questa affermazione illuminante si trovi in un romanzo.
Nel 1873, braccato dalla polizia francese, il comunardo Courbet ripara in Svizzera, è ricco e famoso, beve tanto, ama e si fa amare, dipinge ogni giorno fino alla nausea perché gli servono soldi: deve saldare il suo debito con il tribunale. Ama la natura solo quando è selvaggia, non sa cosa farsene dei giardini, piuttosto: aprirne i recinti e andare lì dove l’erba ùrtica e il cammino si fa scosceso. Canta un ritornello tornando dal bar, a squarciagola, sottobraccio agli amici e agli aiutanti, e quel ritornello parla di una chiara fontana, e l’acqua è non solo uno dei motivi ricorrenti delle sue opere (al Salon del 1853 fu esposta Le bagnanti, un suo grande successo racconta di ragazze dormienti sulle rive del Reno) ma la cosa che ama di più della vita. Ovunque ci sia un lago, uno stagno, l’ansa di un fiume, vi si immerge nudo, dà scandalo, intanto: buffi emissari della polizia in agguato dietro i cespugli fanno risibili rapporti alla centrale, che Bosc trascrive. A dire che c’è un abisso tra la realtà e ciò che si vede, tra gli uomini liberi e i latori di catene.
Così a leggere La chiara fontana, si procede su due binari: uno è la storia di Courbet nei suoi ultimi quattro anni di vita. L’altra è la voce che racconta, il cui talento è maieutico, tira fuori dalla storia quello che non si vedeva, e la cui determinazione a raccontare è già per se stessa commovente. Perché chi racconta e chi viene raccontato fanno lo stesso lavoro. Lo spiega Courbet: «Bello è nella natura, e si incontra nella realtà sotto le forme più diverse. Non appena lo si trova, esso appartiene all’arte o piuttosto all’artista che sa vedervelo ».
Infine, come sempre succede con le opere di valore, ovunque esse si svolgano: raccontano qualcosa del presente. E se non è difficile capire perché il quarantenne scrittore Bosc senta il bisogno di raccontare — quindi eroicizzare — Courbet, mentre imperversano i fascismi (anche) nella sua Francia, sarà motivo di riflessione il fatto che, nella stessa fase storica, lo scrittore Carrère (autore anche lui, proprio lui di una famosissima biografia romanzo sullo scrittore Limonov) senta il bisogno di raccontare — quindi eroicizzare — il presidente Macron.
IL DIPINTO Gustave Courbet, L’origine del mondo
IL LIBRO David Bosc, La chiara fontana (L’orma editore, traduzione di Camilla Diez, pagg. 128, euro 13)